La carriera di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio durò poco perché l’artista visse poco. Milano, oltre che luogo di formazione in un periodo storico segnato dalla pestilenza e dalle ristrettezze economiche, è stata per lui l’occasione voluta dalla madre di frequentare la scuola di Peterzano, allievo del grande Tiziano Vecellio. Quindi del giovane Caravaggio ipotizziamo un’ottima formazione e un ottimo rendimento, ma qui si fermano le notizie e s’infittiscono i misteri. L’ombra ci assiste minacciosa acquattata ai quattro angoli di un personaggio controverso, esattamente come accade in molte sue tele. Non si conserva niente di un probabile primo periodo, al punto che l’arte di questo genio sregolato assomiglia a una Minerva: la sua arte è praticamente nata già grande. Anche di Vermeer abbiamo poche notizie e poche attribuzioni certe con un catalogo straordinario conosciuto solo da poco tempo e grazie al genio di altri artisti come Marcel Proust. Per noi, il chiaro artista di Delft noto ai contemporanei per la vibrazione di quelle luci, resta privo di storia precedente alla sua maturità. Anche lui si fa meteora nel paesaggio dell’arte dei Paesi Bassi. Ancora una volta, abbiamo a che fare con una Minerva nata già grande. La tradizione veneta è modello per entrambi e la sua cultura affascina sia Caravaggio che Vermeer, ma tutto è congetturale.
Vite agli antipodi
Quel che possiamo dire con certezza è che stiamo parlando di punte di diamante delle più importanti scuole pittoriche del loro tempo, pur vivendo vite agli antipodi. Vite senza alcun legame se non quello di essere entrambi abili sperimentatori, affascinati e totalmente rapiti dal bisogno d’essere maestri nell’uso della luce. Considerato dai suoi contemporanei un genio rivoluzionario e sregolato, Caravaggio abbandona la sicurezza concettuale dello sfumato rinascimentale per lanciarsi nello spazio inesplorato di una luce tagliente, spesso crudele e impietosa, che proviene direttamente dal buio senza passaggi intermedi. Quella di Vermeer invece è la luce della calma, della voluttà (direbbe Henry Matisse) quella dell’illuminazione interiore, fatta di pace mentale da raggiungere nell’intimità della casa privata. Eppure, sono così poche le informazioni che siamo costretti a dire che a un certo punto, l’unica cosa che si sa del primo è che compare a Roma e riceve commissioni importanti mentre del secondo, l’unica notizia certa è che visse una vita confortevole consacrata laicamente all’onestà.
Il fatto è che i due artisti sono a grande distanza l’uno dall’altro; appartengono a una stessa civiltà che è quella della scienza, della conoscenza geografica e del pensiero ipotetico, all’origine di tutto il concetto di modernità. È proprio il fil rouge della modernità e del secolo della scienza a permetterci di leggere da un lato i neri di Caravaggio e dall’altro le luci di Vermeer anche se senza un solido apparato teorico si rischia di incorrere nel pericolo di confrontare in maniera arbitraria artisti diversi.
Si assume questi rischi con successo il libro di Claudio Strinati, Caravaggio e Vermeer, classico esempio di opera non specialistica ma non per questo banalizzata, coerente con la collana Stile Libero Einaudi che è fatta di contrapposizioni tra temi, personaggi o città da mettere a dialogo. La contrapposizione tra Caravaggio e Vermeer non è però così evidente e soprattutto non è stata in alcun modo avvertita dai due, ma non c’è dubbio che entrambi rappresentino i due emblemi del modo di rappresentare la luce nel XVII secolo. Non ci furono contrasti tra i due e lo dimostrano le date di due opere citate nel libro: quella di Caravaggio (la Vocazione di San Matteo), datata 1600, anno di cui si è spesso occupato Strinati, mentre quella di Vermeer (la Veduta di Delft) è datata 1660; dunque sessant’anni utili a impedire di immaginarli consapevoli della loro diversità stilistica.
Caravaggio: la Vocazione di San Matteo (Cappella Contarelli a Roma), datata 1600; a destra, Vermeer Veduta di Delft (Mauritshuis, Aia) datata 1660.
Il libro però ha intenzione di rendere possibile quella contrapposizione scandendola in sei capitoli che indicano punti di comune interesse sia per lo studioso che per il semplice appassionato d’arte. Insomma – si chiede Strinati – chissà se Vermeer ha mai visto un quadro di Caravaggio. E mentre ce ne parla, abbiamo la sensazione che la scrittura dell’autore ci sia familiare, che il piano del nostro incontro con i protagonisti della storia sia quello discorsivo e dialogico dei vecchi amici e che ci si possa perfino chiedere quali siano i luoghi comuni oltre alla ragazza con l’orecchino da un lato e l’artista perseguitato da una sorte malevola e maledetta dall’altro, che dobbiamo combattere al fine di avere un quadro più chiaro di un secolo così complesso. Eppure maledetto e idolatrato, Caravaggio oggi lo è ancora, anche se il suo catalogo è circondato da studi poderosi con scoperte innumerevoli non tanto di opere ma di documenti e testimonianze che però non intaccano l’immagine negativa che lo accompagna da sempre. Il libro di Strinati assume un punto di vista equilibrato anche nel versante vermeeriano nel quale non si insiste sulla questione della luce. Anche se a proposito della luce, certamente non possiamo non condividere l’idea che sia profondamente metaforica.
Un tema metafisico
Dal dettaglio che la luce rivela al fatto di essere in perenne lotta con l’oscurità, quello della luce è da sempre un tema metafisico. E molto di questo clima è presente in Vermeer, l’artista in grado di ritrarre quei volti cercando di farci ascoltare quali sono state le parole profferite dalla Suonatrice di chitarra, quello della giovinetta che legge la lettera o da quella che s’intitola Allegoria della Fede cattolica. Strinati tende a interpretare la luce di Vermeer nella chiave della contemplazione che tiene conto del principio della luce corporale. In questo senso si può dire che Vermeer sia il pittore intento a dare fisicità all’immateriale, al punto che non possiamo dire d’avere a che fare con una contrapposizione tra concreto e astratto perché la sua opera è per Strinati testimonianza del suo essere sia l’uno che l’altro.
L’autore insomma condivide con la comunità degli storici dell’arte l’idea che Vermeer sia il pittore dei fatti e delle piccole storie quotidiane da intendersi come rappresentazioni che superano l’espressione figurativa, approdando a un’astrazione che è vitale laddove l’artista penetra l’invisibile, apre mondi segreti e accoglie suoni e i rumori del silenzio in un continuo dialogo spirituale. Insomma, in Vermeer non c’è luce astratta o concreta semplicemente perché non c’è alcuna contrapposizione nella sua arte e poi perché probabilmente è vero invece che l’astrazione è l’unica vera dimensione della sua arte.
A conclusione dei sei brevi capitoli, l’autore inserisce una bibliografia minima utile a rendere evidente come i due artisti siano stati giganti capaci di vivere nella sottile cresta di una parabola formata dalla luce più abbacinante e dal buio più nero. Due artisti distanti, ma all’interno del secolo della scienza, quello che è all’origine, come si è detto, di qualsivoglia concetto di modernità. Due artisti che si guardano da lontano ma che quasi potrebbero toccarsi rispetto al loro universo espressivo. Due artisti nati già “grandi”, mai dilettanti o titubanti. Artisti che ci lasciano uno stile compiuto, maturo e sicuro. Artisti che muoiono dopo una vita breve, subito pronti a regalare alla storia quei capolavori che ancora oggi ammiriamo.