La Sardegna, in questi ultimi anni, è riuscita a coniugare nella sua produzione culturale (e non solo) innovazione e tradizione, o meglio traduzione in nuove forme simboliche del suo passato. Non fa eccezione il cinema e, in questo caso, L’Accabadora di Enrico Pau.
L’accabadora è, infatti, colei che nella tradizione contadina dà ai malati un dolce trapasso. Un compito ingrato, spesso maledetto, che Annetta, la protagonista del film, ha imparato da giovane, poiché trasmessole dalla madre. Si muove così come un angelo della morte, lieve ma inesorabile, per le vie di una Cagliari martoriata dalle bombe degli Alleati, alla ricerca della nipote, sempre sfuggente, sempre lontana, a ricordare tutto ciò che desideriamo e che non siamo mai in grado di raggiungere pienamente.
In questa ricerca incessante, Annetta passerà dai disagi del mondo rurale alla solitudine e i fasti delle grandi ville cagliaritane, dalla quiete della campagna alla vita più rumorosa della città, sotto giogo delle sirene. Ricordando la sua vita, le sue scelte, i suoi errori. Quello che sarebbe potuto essere se la madre non avesse scelto per lei questo ruolo solitario, inviso a molti poiché portatore di tristezza, di morte. A Cagliari, ormai sollevata del suo ruolo, la donna inizierà finalmente a vivere, curiosa del mondo, dell’amore, della vita. La guerra e i bombardamenti riporteranno però a breve il dolore e la morte nella sua vita. Assieme al giovane medico di cui si è innamorata, dovrà, infatti, prendersi cura di Tecla, ormai morente a seguito di un’ennesima incursione aerea degli Alleati. Annetta si troverà quindi davanti a una scelta radicale: riprendere i suoi antichi abiti di accabadora, o concedersi di vivere la vita sperimentandone le possibilità. Sceglierà questa seconda soluzione, con la maturità di una donna ormai pacificata e affrancata da un destino che pareva ineluttabile.
Il film di Enrico Pau è molto interessante non solo per il suo impatto visivo ma anche, o per meglio dire soprattutto, per la riscoperta della tradizione sarda, che diviene punto focale della narrazione. L’idea che si possa recuperare la propria storia sociale e culturale creando prodotti di genere originali è un motivo tipico di questi ultimi anni che interessa diversi settori e ambiti. Dalla moda alla letteratura, passando per il cinema e l’arte, sono sempre più numerose le esperienze che rinnovano piuttosto che innovare temi, elementi, strutture simboliche.
La riscoperta di una figura complessa come quella dell’accabadora permette al regista di muoversi in un ambiente che richiama a sé echi di un mondo magico al quale si era dedicato a lungo Ernesto De Martino, dove tradizione e superstizione si fondono alla storia e alle memorie sociali.
Lo stesso regista tiene a sottolineare che per la storia ufficiale queste donne non sono mai esistite, che molti le considerano una leggenda, fantasticheria popolare. Inconcepibile per la società moderna pensare che alla vigilia del boom economico e della nascita della televisione italiana possano ancora esistere delle donne velate di nero che vanno di casa in casa, con un cuscino, togliendo l’ultimo respiro a chi non riesce a perderlo volontariamente. È la contraddizione, anche peculiarità, della magia italiana: il sapersi adattare agli spazi, interstizi, che una modernità poco attenta le lascia. Il magismo perdura dove l’isolamento, la cultura dei lumi, le spiegazioni del progresso non penetrano nella diffidenza popolare, in persone da tempo convinte a risolvere i loro problemi con l’occulto. Il “dramma storico del mondo magico” (De Martino, 2007) non trova sfogo nei cambiamenti alle volte ancora solo annunciati della società di massa. Ed è qui che si muove Annetta, sulla linea di confine fra intelligenza e sentimento, fra cambiamento e persistenza, fra amore e morte. Lei che vaga, allo stesso tempo visibile e invisibile, pesante e leggera, con lo sguardo fiero ma dimesso di una reietta che ha molto da dire e raccontare.
Anche la scrittrice Michela Murgia ha dedicato a queste donne un libro nel 2009, raccontando la storia segreta di Bonaria Urrai, una vecchia donna velata di nero che: “cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell’accabadora, l’ultima madre” (Murgia, 2009).
Un’intensa Donatella Finocchiaro dà vita nel film a un personaggio variegato e complesso, dai sentimenti difficilmente visibili, che, tuttavia, è centrale e financo assimilabile a quello di un’eroina della letteratura classica. Il suo contributo rende ancora più valida una solida trama, dal forte impatto visivo ed emotivo, che riscopre, attraverso la tradizione, le proprie radici modernizzandole. Un tuffo nel passato che ha di richiami insistenti al presente, e ai molti nodi ancora non completamente sciolti della nostra storia nazionale.
L’Accabadora non pretende di essere nulla di più che una storia, uno squarcio in un mondo molto più ampio e complesso. Ma il suo ancoraggio alla tradizione, alla riscrittura di alcune figure popolari, promuove una narrazione di spessore, che ben fonde passato e presente, magia e modernità. Amore e morte.
- Ernesto De Martino, Il mondo magico, prolegomeni a una storia di magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
- Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, Torino, 2009.