“Mi ricordo tutto o quasi tutto. Mi mancano solo le parole di allora. Ma ne conservo l’orrore e lo risento ogni qualvolta che in questa città qualcuno apre bocca” (Ferrante, 2015). La memoria e Napoli sono due capisaldi de L’amore molesto, il film che Mario Martone trasse dalle pagine del primo libro dell’autrice misteriosa (in realtà si dovrebbe dubitare anche del sesso) di cui pochissimo si sa, ma di cui tutto pare si voglia conoscere, date le serrate indagini giornalistiche di cui da tempo è oggetto. Neppure il regista ha mai avvicinato Elena Ferrante, nonostante la loro collaborazione ai tempi della realizzazione della pellicola, come testimonia un epistolario tra i due, integralmente riportato nel saggio La frantumaglia.
Quelle lettere, raccolte in un booklet, insieme sia alle interviste a Martone, Anna Bonaiuto e al produttore Andrea Occhipinti rilasciate al critico Fabio Ferzetti, sia al backstage curato a suo tempo da Andrea De Rosa e Sandro Dionisio, corredano il blu-ray targato CG Entertainment realizzato in occasione di un recentissimo restauro: partendo dal negativo originale in 35 mm., la Lucky Red, produttrice del film, ha promosso una resa in 2k, riproponendolo, in questa nuova veste, sul grande schermo in varie città alla fine dello scorso anno. La prima distribuzione de L’amore molesto risale al 1995, a tre anni di distanza dal libro che narra di Delia che, nel giorno del suo compleanno, attende invano nella sua casa di Bologna (Roma nel romanzo) l’arrivo da Napoli di Amalia, sua madre. Quest’ultima, però, è annegata seminuda nei pressi del lungomare di Minturno, morte che costringerà la figlia a tornare per i funerali in un luogo carico di ricordi e di mistero.
Voci e corpi del dialetto
I compagni di viaggio di quest’avventura di Martone rappresentano un gruppo davvero eterogeneo. Basti pensare ai ruoli di Amalia nel presente e nei flashback, affidati, rispettivamente, a Angela Luce e Licia Maglietta: la prima ha attraversato tutte le espressioni dello spettacolo in Italia, partendo dalla canzone e dal teatro, quello con Eduardo De Filippo prima e con Peppino successivamente (memorabile la sua capacità di reggere la scena, duettando con questi, nei panni della serva Tonina ne Il malato immaginario, per la regia televisiva di Romolo Siena); la seconda, già nel cast del primo lungometraggio del regista, Morte di un matematico napoletano, è stata partecipe di molti suoi lavori, sia in teatro che nella realizzazione di video e cortometraggi, a partire dalla fine degli anni Settanta, ossia dal costituirsi di Falso Movimento, quel nucleo che successivamente, con Toni Servillo e Antonio Neiwiller, diventò Teatri Uniti.
Nella parte di Delia c’è Anna Bonaiuto, impegnata nella sua prima prova da protagonista, che gli valse il David di Donatello, mentre altri due andarono alla regia e ad Angela Luce. Da quanto è emerso dalle interviste e dal backstage, per la Bonaiuto si è trattato di confrontarsi con un “personaggio grosso, potente” che da un lato, per certi versi, facilita l’attrice rispetto all’interpretazione di un ruolo convenzionale, dall’altro incontra la difficoltà, in questo film, di relazionarsi a un corpo che continuamente pare negarsi, a partire dal romanzo stesso: nel carteggio intercorso tra regista e scrittrice vengono, infatti, anche rilevate le complicazioni della trasposizione di un testo in cui l’autrice vela, per accrescerne l’aura di mistero, la sua protagonista attraverso un meccanismo che il cinema non può permettersi, poiché, per Martone, “sin dall’inizio […] noi abbiamo bisogno di vedere Delia [perché] non bisogna dimenticare che la macchina da presa riprenderà […] quel viso, quel corpo, quello sguardo” (Ferrante, 2016).
Quanto alla voce, si deve in parte al lieve accento del nord della Bonaiuto, napoletana per metà, lo spostamento della residenza di Delia da Roma a Bologna (Ferrante, 2016). Del resto la sottolineatura dialettale conta molto, data la capacità di amplificare quel sessismo e quella violenza dei quali il mondo di Amalia e di sua figlia trabocca.
La diversa appartenenza generazionale degli interpreti permette, inoltre, di evidenziare le variazioni succedute negli anni dal momento che “il dialetto di zio Filippo, il grande Gianni Cajafa, è il più antico, risale a prima della guerra, mentre quello di Polledro, interpretato da Peppe Lanzetta, è già contaminato dal gergo tv. Per la vicina di casa di Amalia ho voluto un’attrice come Anna Calato, capace di sottrarsi, di evitare il folklore, di parlare un dialetto lavato nell’italiano” (Detassis, 1995).
Le Napoli di Martone
Rispetto a Morte di un matematico napoletano, ispirato agli ultimi giorni di vita di Renato Caccioppoli, la scena de L’amore molesto si allarga, salendo sulla collina del Vomero e raggiungendo la zona est, intorno a via Emanuele Gianturco.
Due città che appaiono lontane non solo per una diversa ambientazione, ma anche per la resa sullo schermo ricercata dal regista e dal direttore della fotografia, Luca Bigazzi, presente in entrambi i lavori: ai colori caldi di Morte di un matematico napoletano che dipingono una Napoli ormai troppo distante agli occhi di l’ha vissuta e da sembrare immaginaria per chi allora non c’era, si contrappongono quelli freddi di un agglomerato stretto nella morsa tenace della speculazione edilizia e del traffico e in cui la veridicità è data, secondo lo stesso Bigazzi, da una rappresentazione che fosse in grado di evidenziarne i rumori infernali e cattivi odori (Ranucci, Ughi, 1995), ma anche dalla presenza di inserti dei giorni della propaganda politica per le elezioni comunali partenopee del 1993, quelle, in sostanza, dello scontro tra Antonio Bassolino e Alessandra Mussolini. A un’analisi fulminea, quindi, due entità separate nettamente.
Forse no, se si guarda da un altro punto di vista, suggerito dallo stesso Martone, poiché Morte di un matematico napoletano “racconta una città degli anni cinquanta senza ricostruzioni scenografiche, quindi ritagliando vivamente una serie di scorci di strade, di interni, esterni […] che ancora sopravvivono a Napoli e che fanno la città degli anni cinquanta, contenuta dentro la grande città che invece è Napoli in questo momento. Come se la Napoli [del primo film] fosse contenuta dentro quella de L’amore molesto, «dentro» proprio fisicamente” (A.A. V.V., 1997).
Per quanto riguarda i flashback che affiorano dai ricordi d’infanzia di Delia, il recente restauro ha inoltre reso possibile il ritorno a un progetto originario, contemplato nella stesura della sceneggiatura, ossia quello di una resa in bianco e nero: lo stesso Martone ha confidato a Ferzetti che, rinunciando alla decolorazione proposta nel 1995, che agevolava una dimensione più onirica, l’opera ha acquisito, con la nuova scelta cromatica, un contrasto più duro rispetto al presente, ma più efficace sul piano espressivo.
Nel confronto col film d’esordio, inoltre, ciascuna di queste città appare riempita diversamente se si considera la multiforme manifestazione dell’ingegno: dalla matematica, che con Caccioppoli sembra assurgere a una forma d’arte vera e propria, e dalla musica, quella del notturno di Fryderyk Chopin, suonato al piano dallo stesso professore o della sarabanda di Johann Sebastian Bach, eseguita all’organo da don Simplicio (nome di fantasia di don Savino Coronato, interpretato da Antonio Neiwiller), il sacerdote suo assistente all’università, si passa al disegno dei fumetti di Delia, intravisti nelle prime immagini, e ai quadri del padre pittore, in gioventù alla mercé di furbi mediatori capaci di piazzare le sue opere e tra i quali c’è il presunto amante di Amalia.
All’ombra del pater familias
L’arte, o meglio, il talento è l’unico elemento comune tra Delia e il padre, dato che tutti e due sono abili con matite e colori. Le storie a fumetti che s’intravedono nel film, in realtà, sono estratti dalle tavole di Gabriella Giandelli e modificati leggermente per creare una continuità con una certa location, ossia l’appartamento dell’infanzia della protagonista (Archibugi, Bruno, Roberti, Suriano, 1995). La scelta di collocare Delia a Bologna è anche dettata, secondo le rivelazioni dedotte dall’epistolario, dalla costatazione che il capoluogo emiliano in quegli anni permetteva di vivere disegnando fumetti, dato l’effervescente clima creativo che vi si respirava.
L’Amore molesto è, innanzitutto, il racconto di un legame fra due donne, una madre e una figlia, che non si estingue con la morte della prima e che dà luogo a un’inquietante elaborazione del lutto da parte della seconda. Un legame complesso, difficile da spiegare: l’atto di Amalia che afferra, in una toccante sequenza, la mano di Delia per portarla al proprio ventre sottende un vincolo che evidenzia la debolezza della parola rispetto al contatto, come accadde in Sussurri e grida nel ricordo di Agnese che sentiva la vicinanza della madre accarezzandone il viso o, restando in tema di simboli della maternità, nel lenire il proprio dolore grazie alla badante Anna che “spontaneamente con un gesto assai efficace – come a una figlia o una nuova nata – le offre il calore del suo corpo e la ricchezza del suo seno” (Cavicchia Scalamonti, 2000). Se nel film di Ingmar Bergman, gli uomini, compresi quelli di scienza e di fede, restano come impotenti sullo sfondo della vicenda, con Martone, sia nei ricordi di un passato confuso sia nel presente, emergono da quello sfondo come una forza antagonista terribile, la stessa che contrasterà le passioni di Lenù e Lila de L’amica geniale. Il fatto che le protagoniste del lavoro più noto della Ferrante siano, come Delia, giovanissime nel secondo dopoguerra e, quindi, quando è già trascorsa la più dura e vistosa fase storica per quanto riguarda l’autoritarismo vissuta dal Paese che aveva riposto nella figura del capo del governo, più che nello stesso sovrano, la folle esaltazione del padre, non fa che ribadire quanto sia stato ed è arcigno il potere del maschio.
Anche Amalia, benché adulta, non ha scampo in quanto donna, circondata da un’asfissiante prigionia, alimentata, attraverso quelli antichi retaggi, da una ferrea complicità tra uomini, capace di mettere da parte i legami di sangue con la vittima di turno, come testimonia, ne L’amore molesto, la condotta di Filippo: “facevo fatica ad accettare che desse ragione a mio padre e torto a lei. Era suo fratello, l’aveva vista cento volte gonfia di schiaffi, di pugni, di calci; eppure non aveva mai mosso un dito per aiutarla. Da cinquant’anni seguitava a ribadire la sua solidarietà con il cognato, senza cedimenti” (Ferrante, 2015).
Una violenza collocata fra le mura di casa e senza riferimenti a quella, di altro stampo, più o meno organizzata, che della prima è comunque spesso atrocemente debitrice, quella che, restando ai titoli della filmografia del regista, serpeggia nei vicoli in Teatro di guerra del 1998, inserendosi in confronto molto stimolante tra mondo antico (la tragedia greca de I sette contro Tebe) e moderno (l’assedio di Sarajevo durante la guerra civile in Bosnia). Una violenza a cui scrittrice e cineasta non concedono nulla, nemmeno il discutibile fascino del culto della forza e della virilità che, invece, attrae Silvia ne L’odore del sangue, altra successiva pellicola di Martone, ispirata al romanzo omonimo di Goffredo Parise.
L’amore molesto, fortunatamente, non è il solo lavoro proposto in quegli anni sul patriarcato: alcuni titoli della cinematografia di Napoli e dintorni provano sia l’avvento di una diffusa sensibilità che dalla società nel suo insieme, o chi per essa, si riflette nella rappresentazione di sé sul grande schermo, sia la maturazione del cinema, capace ormai di affrontare quei problemi legati ai rapporti di genere attraverso linguaggi nuovi, con parole e immagini più dirette e, quindi, più incisive.
A riguardo, vengono alla mente: Giro di Luna tra terra e mare (1997) di Giuseppe Gaudino, nel quale Salvatore (Aldo Bufi Landi) a capo di una famiglia di pescatori del rione Terra, nella Pozzuoli flagellata dalla paura del bradisismo e del colera, s’intestardisce a portare avanti le proprie idee circa il futuro della barca e, con esso, quello delle sorti economiche di tutti, ma soprattutto a non accettare le ragioni di sua figlia, colpevole di aver denunciato il fratello, responsabile della morte del marito, nonostante il padre avesse scacciato lo scellerato figlio (“Nun perdonano a Carmine che è maschio, figurati si perdonano a ‘mme”, commenterà amaramente la ragazza); La volpe a tre zampe (2001), che Sandro Dionisio trae da un romanzo di Francesco Costa, raccontando del campo profughi della Canzanella, nella Napoli della metà degli anni Cinquanta e nel quale Vittorio è sollecitato a combattere, a imparare a “fare a mazzate” perché, come dice suo padre, è maschio, e, come tale, non deve piangere, mentre in quel perimetro di disperazione si consumerà presto la brutalità di Sabatino nei riguardi della moglie (sempre Angela Luce) stanca di rimediare denaro con la prostituzione; Pater familias (2003) di Francesco Patierno, dalle pagine di Massimo Cacciapuoti, sorta di compendio di tutte le declinazioni possibili della prevaricazione maschile in un contesto che non ha alcun mezzo per contenerla, né, figurarsi, per arginarla (“In questo paese ha fatto più danni l’ignoranza che le guerre, le carestie, i terremoti messi insieme” è il lapidario giudizio che la suora rivolge al protagonista Matteo, tornato, grazie a un permesso, nei paraggi di casa dal carcere dove sconta la sua condanna).
“«Chiuditi dentro, st’omm’ te po’ fa male», le dice quella voce di dentro, quella madre che Delia comincia a portarsi nel ventre come se dovesse rigenerarla; ascolta la voce originaria come [se] ascoltasse il rumore del sangue che scorre nelle proprie vene [.] Vediamo Delia […] lungo un itinerario di memorie e somiglianze, lungo una concatenazione di immagini, e vediamo essere insieme spettatrice e attrice, di sé e dell’altro da sé insieme, e ci ritorna l’immagine della Bergman perduta-ritrovata nella folla di Viaggio in Italia” (Roberti, 1995).
Coniugando, in questo confronto, uno dei lavori più pirandelliani di Eduardo con l’indagine rosselliniana della crisi coniugale della coppia borghese, l’articolista di Filmcritica dà occasione di ricordare una delle sequenze più coinvolgenti della pellicola del 1954, quella della visita al complesso archeologico di Pompei, con il volto di Ingrid Bergman che muta dalla curiosità alla disperazione durante l’emersione dal terreno dei calchi di gesso ricavati dal vuoto lasciato dai corpi umani ormai consumati dal tempo, quegli stessi corpi sorpresi dalla ferocia della natura. Anche ne L’amore molesto, dal terreno del passato, sotto strati di menzogne dette per non dire l’indicibile, Delia è tornata come da straniera nella sua stessa terra, quella di un dialetto che ha perfino amato detestare, un dialetto che gli uomini adoperano per offendere e comandare, sebbene, alla fine, “tra madre e figlia”, come ricordava Eduardo, “è un altro linguaggio”.
- A.A. V.V., Loro di Napoli. Il nuovo cinema napoletano 1986-1997, Edizioni della Battaglia, Palermo, 1997.
- Albertina Archibugi, Edoardo Bruno, Bruno Roberti, Francesco Suriano (a cura di), Itinerario di una voce. Conversazione con Mario Martone, in Filmcritica, ITER, Roma, n. 454, aprile 1995.
- Massimo Cacciapuoti, Pater familias. Romanzo di ragazzi napoletani, Castelvecchi, Roma, 1998.
- Antonio Cavicchia Scalamonti, La camera verde. Il cinema e la morte, Ipermedium, Napoli, 2000.
- Francesco Costa, La volpe a tre zampe, Rizzoli, Milano, 2014.
- Piera Detassis, L’amore molesto, in “Ciak si gira”, Silvio Berlusconi Editore, n. 4, aprile 1995, Milano.
- Elena Ferrante, La frantumaglia, Edizioni e/o, Roma, 2016.
- Elena Ferrante, L’amica geniale, Vol. I, Edizioni e/o, Roma, 2011.
- Elena Ferrante, L’amore molesto, Edizioni e/o, Roma, 2015.
- Goffredo Parise, L’odore del sangue Rizzoli, Milano, 1997.
- Georgette Ranucci, Stefanella Ughi (a cura di), Mario Martone, Dino Audino Editore, Roma, 1995.
- Bruno Roberti, Le voci di dentro, in Filmcritica, ITER, Roma n. 454, aprile 1995.
- Ingmar Bergman, Sussurri e grida, Rai Cinema – 01 Distribution, 2013 (home video).
- Eduardo De Filippo, Le voci di dentro, Rai Cinema – 01 Distribution, 2005 (home video).
- Sandro Dionisio, La volpe a tre zampe, Teatri Uniti, Cattleya, 2001.
- Giuseppe Gaudino, Giro di lune tra terra e mare, Gaundri Film (in associazione con ZDF e RAI), 1997.
- Mario Martone, L’odore del sangue, Dolmen Home Video, 2011 (home video).
- Mario Martone, Morte di un matematico napoletano, CG Entertainment, 2014 (home video).
- Mario Martone, Teatro di guerra, CG Entertainment, 2015 (home video).
- Francesco Patierno, Pater Familias, Istituto Luce, 2004 (home video).
- Roberto Rossellini, Viaggio in Italia, CG Entertainment, 2012 (home video).
- Romolo Siena, Il malato immaginario, Hobby & Work, 2009 (home video).