La fioritura della divulgazione STEM sugli scaffali delle librerie sembra oggi quanto mai preziosa. Certo il recente periodo pandemico ha contribuito ad accendere i riflettori sulla ricerca scientifica e sui suoi protagonisti, ma risulta comunque curioso il successo specifico dei libri di fisica. Forse risultano sorprendentemente appassionanti laddove riescono a creare ponti tra saperi. Con le scienze esatte, il trucco di una buona performance divulgativa sembra essere quello di dare la sensazione che i calcoli e le formule non siano il punto, spostando il focus sulle domande di fondo da cui partono gli scienziati. Così sembra possibile rendere interessanti anche gli argomenti più esoterici, non importa quanto sia complessa la matematica che c’è dietro.
In questo senso è interessante la raccolta di brevi saggi intitolata Benvenuti nell’universo. Tour astrofisico, proposta dal trio di astrofisici Neil deGrasse Tyson, Michael A. Strauss e J. Richard Gott. Otto filoni scientifici trattati con equilibrio e con ironia, senza infantilizzare e senza paura di annoiare con i numeri. Si comincia con Neil deGrasse Tyson che nella sua introduzione (“mettiamo insieme qualche strumento matematico”) si avventura in un gioco di progressivo elevamento a potenza di una base 10. Semplicemente descrivendo delle quantità, lo scienziato statunitense riesce a trascinare il lettore dal microscopico al macroscopico. Si arriva così a numeri che possono essere a stento immaginati, per esempio quel “10 sestilioni” ovvero “il numero delle stelle nell’universo osservabile”. E si sale ancora con numeri che non hanno più niente da contare ma che servono a dare conto dei “modi in cui le cose possono accadere” accennando così alla spaventosa vaghezza probabilistica del reame quantico. Tutto questo cambiando un numeretto posto in alto a destra sopra a un 10.
“Ci sono persone che vanno in giro tutti i giorni a dire che siamo soli nel cosmo. Semplicemente non hanno idea dei grandi numeri, non hanno idea delle dimensioni del cosmo”
(deGrasse Tyson, Strauss, Gott, 2023).
E se il lettore non capisce i calcoli, che provi almeno a capire il senso di quello che si vorrebbe fare (o che viene fatto) tramite i numeri.
Nato e cresciuto nel Bronx, l’astrofisico deGrasse Tyson è da diversi anni direttore di un famoso planetario newyorkese e ha qui finalmente l’occasione di spiegare al mondo le sue ragioni nell’incresciosa vicenda del declassamento di Plutone a “pianeta nano”. Tutto comincia nel 1930, l’anno in cui avviene la scoperta di Plutone (Pluto, in inglese) e l’anno in cui Walt Disney lancia Pluto il popolare cane dei cartoni animati.
“Così il cane e l’oggetto cosmico hanno la stessa età nella psiche degli americani. Disney è una forza potente nella nostra cultura”
(deGrasse Tyson, Strauss, Gott, 2023).
Da direttore del planetario, deGrasse Tyson imposta la didattica del sistema solare escludendo l’esposizione di Plutone come nono pianeta. Quella valutazione che tanto aveva fatto arrabbiare tutti i bambini d’America trovò poi la decisiva conferma con la scoperta di Eris, un pianeta del tutto simile a Plutone. Sarà il decimo pianeta del sistema solare? E allora cosa ne facciamo di Makemake ed Haumea e di tutti gli altri pianetini transnettuniani? E perché Cerere deve essere un asteroide quando è stato considerato l’ottavo pianeta per almeno mezzo secolo?
“Abbiamo diviso gli oggetti che orbitano intorno al Sole in cinque famiglie. Questo è il nostro schema pedagogico. Ciò che importa è chiedersi quali proprietà gli oggetti hanno in comune”
(deGrasse Tyson, Strauss, Gott, 2023).
Pianeti terrestri, pianeti nani, giganti gassosi, asteroidi e comete: classificazioni frutto di osservazioni e misurazioni precise. I fan di Disney se ne facciano una ragione.
Lo show della fisica in The Legend of Zelda
I nomi delle costellazioni riflettono creature e personaggi legando antichi saperi ad antiche mitologie. La letteratura, il cinema e il fumetto hanno prodotto miti ancora più pervasivi, entrati nelle vite di miliardi di persone creando empatia a partire da personaggi e contesti. Poi arriva il videogioco che comincia a conquistare il pubblico in molti modi diversi. I meccanismi di identificazione si giocano spesso su un amalgama di gameplay e sceneggiatura, lasciando il fruitore più o meno libero di esprimere una propria soggettività all’interno di un certo universo fatto di strumenti più che di trame narrative. E come si crea un tale universo-laboratorio? L’immersività videoludica poggia spesso sulla simulazione di una qualche consistenza fisica.
Breath of the Wild e Tears of the Kingdom, gli ultimi due videogiochi della serie The Legend of Zelda, si distinguono per la cura e la sensibilità con cui gli sviluppatori valorizzano la consapevolezza delle leggi fisiche al fine di risolvere enigmi ambientali. Il giocatore manovra l’eroe chiamato Link attraverso un gameplay che esalta la curiosità tramite fantasmagorici poteri di manipolazione rispetto al continuum. Il personaggio protagonista, Link imparerà a conquistare la geografia scalando rocce e lanciandosi in parapendio. Il salto costringe a disegnare traiettorie aeree che tengano conto del momento angolare, del peso dei corpi, dell’attrito dell’aria e di eventuali correnti ascensionali. Si viaggia prima di tutto alla ricerca di una sintonia con la forza di gravità, in un laboratorio che addestra alla geometria mettendo a disposizione vettori e solidi, costringendo a calcolare l’esito dei possibili interventi in un sistema di relazioni fisiche inventando e testando.
The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom
Il mondo dei videogiochi familiarizza da tempo con il concetto di “motore fisico”, ovvero parti di software che simulano in maniera più o meno minuziosa variabili derivate da leggi fisiche. Tears of the Kingdom in particolare spinge i rapporti tra videogiocatore e fisica a un livello mai raggiunto prima da nessuna forma di comunicazione. Agli sviluppatori di TOTK, supervisionati da Eiji Aonuma, non interessa curare dettagliatissime tassellazioni volumetriche finalizzate al mero fotorealismo: le dinamiche di gioco ruotano intorno a strategie balistiche, al rapporto tra semirette, vettori, gravità per capire la via migliore. Il giocatore impara a misurare e a sperimentare prima di lanciarsi in un volo liberatorio. Quando è necessario progredire velocemente in altezza, Link può sfruttare il potere Ascensus annullando la gravità e passando da un estremo all’altro di qualsiasi volume di qualsiasi dimensione. Il transito è caratterizzato da una scintillante animazione che mostra l’eroe attraversare l’interno della materia visto come un non-luogo pieno di forme astratte e misteriosi flussi di particelle. Comodo per scalare velocemente montagne o edifici, ma a patto che il giocatore impari a tenere conto di un particolare vincolo geometrico: l’ascensione funziona solo verso l’alto in un moto perfettamente contrario alla direzione della gravità con effetti inaspettati ed esilaranti se non si calcolano bene i punti di entrata e di uscita. Ecco il determinismo della fisica classica: dato un sistema con delle leggi, sarà sempre possibile prevedere lo stato di tutti gli elementi in qualsiasi momento. L’attenzione viene poi continuamente stimolata alterando alcune variabili (tipicamente il peso ma anche la temperatura o la viscosità dei materiali o l’attrito di certi spostamenti) costringendo a compensare (relativismo) i calcoli. In Tears of the Kingdom vi è un accenno alla meccanica quantistica con il potere chiamato Reverto: Link può assumere il controllo di un solido e spostarlo avanti e indietro nel tempo nei limiti di una data finestra cronologica. Laboratorio di meccanica quantistica: non conosciamo l’esatta posizione di un elettrone lungo la sua orbita se non nel momento della misurazione. Il gioco ci consente di traslare la teoria nelle forme di un modello tridimensionale chiedendoci di valutare il momento giusto in una piccola nube di possibilità.
Vita e morte delle stelle
I paradossi della vicenda plutoniana e i racconti che utilizzano la fisica per intrattenerci ci mostrano come le scienze naturali, nonostante i calcoli esatti su cui si basano, sembrano destinate a essere messe in gioco alla stregua di qualsiasi altra narrazione. E gli scienziati stanno al gioco. Tornando al libro Benvenuti nell’universo, non sorprende il fatto che i divulgatori cerchino di ricavare qualcosa dal dialogo con la narrativa e le sue metafore fantascientifiche. Questo è molto evidente quando si pongono domande sulla vita extraterrestre: sembra proprio quel tipo di speculazione destinata a creare confusione sul metodo scientifico ma che, nello stesso tempo, riesce ad attrarre i non addetti ai lavori. Sta di fatto che esiste una formula per calcolare le probabilità di vita intelligente nella nostra galassia. L’equazione di Drake è più che altro un metodo per schematizzare ciò che sappiamo (o ciò che ignoriamo) in merito alla questione. Dando per scontato che tutti i viventi abbiano in comune un insieme di proprietà, siamo a caccia di un particolare sottoinsieme di stelle nella galassia (su un totale di 300 miliardi). Le nostre conoscenze attuali ci dicono che alla fine della selezione potremmo avere 1,8 miliardi di pianeti in zona abitabile. Viviamo dunque in un universo biofilo. Ma allora dov’è quel crogiolo di popoli interstellari come in Star Trek? Come mai non ci ritroviamo tutti nella cantina di Tatooine come in Star Wars?
Tutte le possibili risposte a questa domanda, dal paradosso di Enrico Fermi in giù, sono state passate in rassegna nel volume Stanley Kubrick. Interviste extraterresti (Frewin, 2006), una raccolta di interviste a scienziati che nella mente di Kubrick avrebbe dovuto scandire 2001: Odissea nello spazio creando un contrappunto tra narrazione e opinioni scientifiche e filosofiche sul nostro posto nell’universo. Dobbiamo metterci bene in testa che le distanze fisiche sono decisive. In un capitolo di Benvenuti nell’universo deGrasse Tyson e Strauss calcolano (partendo da Drake) che in una bolla di quarant’anni anni luce di raggio centrata sul Sole, ci aspettiamo di trovare un solo pianeta abitabile (non necessariamente abitato) oltre al nostro. In questo caso i numeri (le distanze siderali) sono severi e taciturni maestri. In ogni caso l’interesse verso strani e nuovi mondi è tenuto vivo da continui progressi nello sviluppo di spettrografi e tecnologie ottiche specializzate nell’allargare il perimetro di ciò che è empiricamente osservabile. Gli occhi tesi alla scoperta di gemelli della Terra, magari per poter cominciare a immaginare una futura ominazione nella galassia. Quest’ultimo filo di pensieri diventerà sempre più centrale man mano che le crisi ecologiche si intensificheranno, come viene raccontato nella pellicola Interstellar di Christopher Nolan (2015). Sperando che i viaggi interstellari del futuro non siano dettati in primis dalla disperazione, dal punto di vista dello scienziato le domande sulla vita extraterrestre sono comunque preziose perché costringono a concentrarsi sul ruolo fondamentale svolto dalle stelle per l’esistenza e l’evoluzione dell’universo.
Neil deGrasse Tyson ci ricorda che “il Sole è una grande bomba termonucleare a fusione” e che nel dialogo tra minuscole particelle una piccola quantità di massa può diventare quella enorme quantità di energia che chiamiamo “energia atomica”. Cosa implica l’esplosione di una supernova? Quella intensa emissione di luce ed energia derivante dal collasso del nucleo di una stella massiccia?
“[…] le viscere di questa stella vengono espulse nella galassia – in quello che viene detto mezzo interstellare – arricchendo chimicamente di elementi pesanti le nubi di gas e consentendo a tali nubi di formare sistemi stellari dotati di pianeti e anche di persone”
(deGrasse Tyson, Strauss, Gott, 2023).
Le stelle sono fabbriche perennemente impegnate a produrre energia mentre fondono atomi e rilasciano altri atomi con nuclei sempre più pesanti, scalando la tavola periodica fino al ferro. E il meglio viene nella fase di declino, quando la stella muore e prepara il fondamentale arricchimento chimico della galassia da cui discendono gli atomi in quella specifica varietà che noi osserviamo. Così notiamo che l’universo sembra volersi rendere idoneo alla vita seguendo le tendenze aggregative degli atomi. Non a caso il carbonio, che è tra gli elementi più disponibili a formare strutture molecolari, risulta essere uno tra gli elementi più diffusi nella galassia.
La vertigine dell’infinitamente grande
Dalla vertiginosa quantità di stelle osservabili deriva quella scala cosmica che ha sempre incuriosito e annichilito gli umani. Con le giuste manovre i numeri possono risultare tutt’altro che freddi e attivare immaginifici balzi dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo e viceversa. La ricerca di una “teoria del tutto” è sempre stata la grande ambizione dei fisici teorici.
In Benvenuti nell’universo Michael A. Strauss ripercorre alcuni sviluppi teorici derivati dalla scoperta di Hubble (l’universo si sta espandendo). Con le misurazioni del redshift delle galassie abbiamo mappato l’universo in termini di distanze e affermato definitivamente il modello teorico del Big Bang. L’espansione della materia nel cosmo implica un’origine ad altissime temperature e ad altissima densità secondo dinamiche in parte ancora da chiarire. Universo in espansione significa che possiamo immaginare la nostra galassia come una monetina incollata sulla superficie di un palloncino: vediamo le altre galassie allontanarsi e le distanze renderanno sempre più improbabili future aggregazioni inflattive di materia per creare nuove strutture macroscopiche. Benvenuti nell’universo prosegue il tour con J. Richard Gott che presenta la teoria del multiverso. Il nostro palloncino in espansione è solo una bolla tra le tante (forse infinite e forse ciascuna con le sue peculiari leggi fisiche).
“La bolla si espande quasi alla velocità della luce. […] Nuovi universi a bolla si formano continuamente e il mare inflazionario si espande tra essi in modo da fornire spazio per la formazione di ulteriori nuovi universi a bolla. Ciò alla fine genera un numero infinito di universi a bolla che si formano in un mare inflazionario in eterna espansione”
(deGrasse Tyson, Strauss, Gott, 2023).
Questa teoria elude il problema dell’origine: il mare tra gli universi (espansione infinita) è sempre esistito e sempre esisterà. Non c’è nessuna fine se non quella del singolo universo che si spegne una volta esaurita la materia masticata da stelle e galassie (mentre da qualche parte nascono nuovi universi a bolla). Il fatto che le bolle non possano in nessun modo interagire tra loro a causa del mare inflazionario implica che tutto ciò non potrà mai essere osservato e nemmeno calcolato. Il concetto di infinito è affascinante, ma anche un po’ troppo comodo secondo alcuni scienziati tenaci come Stephen Hawking.
Il tempo senza tempo di Stephen Hawking
La carriera di Stephen Hawking è paradigmatica di quante volte un ricercatore possa cambiare idea senza perdere autorevolezza, di quanto sia importante la curiosità, la dialettica tra i paradigmi per uscire dai vicoli ciechi. Lo spiega bene Thomas Hertog che in Sull’origine del tempo ripercorre la carriera del suo mentore Hawking riassumendo le varie fasi di un appassionante percorso di ricerca. Abbiamo visto come la vita delle stelle sia alla base della ricchezza chimica del nostro universo. Ma questa spiccata biofilia riflette un destino cosmico programmato o un caso fortuito iniziale? La teoria del multiverso nella formulazione di Andrej Linde risponderebbe che se esistono infiniti universi la biofilia del nostro farebbe da contraltare alla totale mancanza di vita (e forse anche di materia come noi la conosciamo) in altri universi, oppure si distinguerebbe da un livello di biofilia ancora maggiore presente in altri universi ancora. Ma così la scienza non avrebbe più niente da dire sull’argomento cosmologico, ammettendo tutto e il contrario di tutto. La scommessa principale della carriera di Hawking è stata invece quella di provare a risalire alle origini dello spazio-tempo servendosi di qualsiasi teoria funzionale allo scopo. Le più recenti formulazioni della teoria del Bing Bang portano a credere che l’universo sia nato da uno scatto inflazionario di espansione ultraveloce. Le oscillazioni del primo campo di forze (un inflatone) avrebbero fatto espandere la materia a partire da un ordine di dimensioni sub-protoniche provocando una fortissima esplosione di cui ancora oggi, dopo circa 14 miliardi di anni, osserviamo vagare nel cosmo i resti sotto forma di una radiazione fossile chiamata CMBR ovvero la radiazione cosmica di fondo ovvero le microonde. Se avessimo occhi sensibili alle microonde potremmo vedere CMBR ovunque.
“[…] quando scrutiamo nelle profondità dello spazio, stiamo guardando indietro nel tempo […] L’istantanea della CMBR segna il nostro orizzonte cosmologico, oltre il quale non possiamo risalire”
(Hertog, 2023)
Una certa disomogeneità distributiva (dovuta forse a fluttuazioni quantistiche) deve aver condotto ai primi addensamenti, alle prime nubi di gas e quindi ai semi delle prime galassie man mano che si dissipava il calore.
“anche le più piccole variazioni di densità nel plasma primordiale si sarebbero con il tempo amplificate sotto l’influenza della gravità e, alla fine, la materia nelle regioni più dense avrebbe potuto iniziare ad agglomerarsi formando le galassie”
(Hertog, 2023)
Guardando all’espansione della materia nell’universo Hawking soffre all’idea che sia quasi più facile prevedere il futuro che capire il passato. Nel punto prima del Big Bang la teoria relativistica di Einstein e la teoria quantistica sembrano divergere perché incarnano visioni diverse rispetto a causalità e determinismo. D’altro canto il dibattito sulle diverse interpretazioni della meccanica quantistica è ancora vivo. Ma Hawking ha avuto il merito di conciliare le due visioni con pragmatismo: le due teorie sono modi diversi di descrivere le stesse cose. Prima del Big Bang tutto si fonde e si compenetra a temperature altissime: materia e antimateria, spazio e tempo. Se il tempo si annulla e diventa spazio allora ci troviamo in un contesto in cui il Doc di Ritorno al futuro può effettivamente dire: “Marty dobbiamo tornare indietro nel futuro”. Nell’ottica quantistica, questa sarebbe una origine caratterizzata dall’assenza di nessi causali. Ma in che modo poi, nel momento del Big Bang, ha fatto la sua comparsa il tempo ed ha acquisito una freccia cronologica così robusta nel far progredire l’universo dal microscopico al macroscopico? Perché non vediamo mai ma proprio mai il latte versato tornare indietro nella tazza? Perché non possiamo gingillarci con il Reverto come fa Link in Tears of the Kingdom?
Nell’origine del tempo Stephen Hawking non vede né un misterioso colpo di fortuna, né un disegno divino: senza alcun progetto preciso gli equilibri della condizione iniziale si sono rotti sotto la spinta delle fluttuazioni quantistiche e, successivamente, la convenienza energetica e possibili eventi casuali hanno generato entropia e forgiato le prime leggi fisiche seguendo uno schema molto simile all’albero dell’evoluzione teorizzato da Darwin in biologia.
Rappresentazione artistica di un wormhole.
Hawking ha anche insistito molto sul fatto che si debba poter teorizzare un modo per verificare le teorie e non eludere le domande come avviene con il modello del multiverso. In questo senso i buchi neri possono essere risorse fondamentali per la ricerca: condizioni estreme molto simili a quelle del Big Bang tanto da ipotizzare che un universo in espansione possa essere inquadrato come “un buco nero rivoltato e capovolto”. Alla ricerca di tracce fossili nascoste dall’orizzonte degli eventi, lo scienziato ha intuito la possibilità di trovare risposte sul “prima” speculando sulla possibilità di leggere la superficie limite di quei corpi celesti che divorano tutto come se fosse un ologramma. Una domanda sulle origini che sfocia in una questione umanistica ma approcciata in maniera ingegneristica riflettendo sui principi di una tecnologia ottica. Follia, altro che filosofia! Hawking ha saputo mettere in fila le leggi della gravitazione di Newton, la relatività di Einstein, il darwinismo, la meccanica quantistica e l’olografia per poi servirsene in un viaggio intellettuale che dimostra quanto sia importante che la teoria sappia sganciarsi temporaneamente dal piano dell’osservazione e dei dati coltivando il dubbio (e anche un po’ di follia).
“Anziché limitarsi a scoprire le leggi di natura studiando i fenomeni che esistono, gli scienziati stanno iniziando a immaginare leggi ipotetiche per poi creare dei sistemi nei quali tali leggi vengano a emergere. Il vecchio obiettivo di scoprire la natura dell’intelligenza, o la teoria del tutto, potrebbe essere presto visto come il retaggio di una visione del mondo limitata e sorpassata”
(Hertog, 2023).
L’albero della conoscenza è contaminato dalla percezione
Relatività e quantistica come modi diversi per descrivere le stesse cose: per essere uno che rifuggiva la filosofia Stephen Hawking ha sollevato una discreta quantità di questioni metafisiche e metodologiche. Noi oggi siamo tutti abituati al bilico tra materiale e immateriale per via delle tecnologie digitali. Siamo più pronti che mai a mettere sul piatto della bilancia di ciò che è reale tutto ciò che vogliamo considerare reale, a prescindere dal fatto che sia costituito da atomi. Ma se su questo crinale filosofico materiale/immateriale si collocano quasi tutte le ansie sociali del nostro tempo, mettendo addirittura a rischio la democrazia, in fisica le oscillazioni tra immaginabile e osservabile sono il sale della ricerca teorica.
L’astrofisico Sean Carroll ci offre un discorso sul metodo scientifico in cui cerca di armonizzare tutte le facce del sapere sotto il segno del “naturalismo poetico”. Nel suo saggio Sulle origini della vita, del significato e dell’universo. Il quadro d’insieme cerca un metodo per descrivere la natura costruendo “significati e valori in un cosmo senza uno scopo trascendente” accettando che questi valori siano “costrutti umani” ma negando che “siano illusori e privi di significato” (Carroll, 2021). Se provassimo ad assumere che siamo fatti di atomi e null’altro rimarrebbe il problema che una stessa sostanza si presenta con molte forme diverse. Star Trek, per esempio, è sempre rimasto sul vago a proposito del teletrasporto: smonta le persone traslocando atomi uno a uno oppure invia uno schema della persona altrove per poi far rimontarne il corpo utilizzando atomi freschi? Non sarà che durante il processo di disintegrazione l’individuo di fatto viene ucciso?
Il teletrasporto della serie classica di Star Trek.
Intanto l’uso degli stessi atomi o di atomi diversi non è significativo visto che nei veri corpi organici vi è comunque un continuo ricambio di particelle. In ogni caso lasciarsi teletrasportare sarebbe un suicidio fatto sapendo di rinascere in un altro binomio corpo-mente identico che comparirebbe altrove continuando la vita con tutti i ricordi intatti come se niente fosse.
Il punto di Carroll è che “abbiamo gli atomi, abbiamo le cellule e abbiamo gli esseri umani” e sarebbe davvero “scomodo se, ogni volta che poniamo una domanda su qualcosa che accade nel mondo, dovessimo limitare le nostre risposte a enormi elenchi di atomi e di loro disposizioni” (ibidem). Una categoria o uno schema costituisce un modo utile per parlare di un sottoinsieme aiutandoci a descrivere l’universo. Il naturalismo poetico di Carroll è consapevole di basarsi sulla percezione umana (come del resto si basa sulla percezione qualsiasi forma di misurazione) e di esprimersi come una mera interpretazione della realtà.
Abbiamo visto con i videogiochi come la nostra attitudine a muoverci in ambienti sintetici, che siano simulazioni fisiche o sistemi valoriali, ci allena a negoziare con i vincoli costituiti dalla realtà. In particolare con quelli relativi alle distanze fisiche. Nel videogioco è interessante valutare cosa accade al self quando calcoli, misurazioni e conoscenze condivise offrono coordinate e punti di riferimento che poi vengono rimessi in discussione con piccoli spostamenti, rendendo via via più fluida e dinamica la relazione tra corpi e universi. La stessa fluidità sembra ravvisabile nei processi di produzione delle teorie scientifiche.
Se nella sua fase moderna la cultura tecno-scientifica ci ha abituati a spiegazioni autoevidenti basate sui dati, è presumibile che in una scienza post-moderna sia sempre più spesso richiesta la capacità di effettuare salti dell’immaginazione rovesciando continuamente il punto di vista o il tavolo con i dati. Come direbbe Hawking: modi diversi di descrivere le stesse cose. Lo dimostrano già le più recenti imprese della fisica teorica, magari facendo leva su pezzi di immaginario o sulle rotte aperte alle possibilità divulgative dai grandi media di massa.
Il fisico teorico e divulgatore Carlo Rovelli.
Prendiamo ad esempio lo scienziato italiano Carlo Rovelli, che raccoglie quanto detto finora sui buchi neri e prova a entrarci dentro come se fosse un Dante nel suo Inferno. Quando giunge alla questione della fusione tra tempo e spazio Rovelli teorizza che in quel punto si possa sbucare “dall’altra parte”. Il buco nero diventa “buco bianco”: un modello teorico in cui la freccia del tempo ricompare ma invertita (cfr. Rovelli, 2023). Rovelli ragiona proprio come se fosse Link in Tears of the Kingdom che utilizza Reverto per cavalcare a ritroso un solido in movimento al fine di tirarsi fuori da un qualche vicolo cieco.
Alla fine della giornata lo scienziato sarà felice quando avrà immaginato un sistema di relazioni che sia matematicamente coerente e possibilmente verificabile. Non importa come sia arrivato a concepire quel sistema. Tutti i saperi possono concorrere a una nuova teoria e le immagini poetiche aiutano a comunicare questa vitalità. In una scena di esplorazione spaziale nel film Contact diretto da Robert Zemeckis (2009) e basato su un romanzo di Carl Sagan, la scienziata-astronauta Ellie Arroway esclama: “Un qualche… evento cosmico! Non ci sono parole […] Dovevano mandare un poeta! Io non ne avevo idea!” (Zemeckis, 2009).
Specie quando cercano di comunicare gli scienziati hanno dunque la curiosa caratteristica di collocarsi al confine tra naturalismo, metafisica e immaginario. Anche l’ironia aiuta a far fluire le idee. Neil deGrasse Tyson chiude la sua introduzione al tour astrofisico:
“Si comincia con il gas, si fanno stelle, le stelle invecchiano e poi si lasciano dietro un cadavere, i prodotti finali morti dell’evoluzione stellare: buchi neri, stelle di neutroni e nane bianche. Questo va avanti finché tutte le luci della galassia si spengono, una a una. La galassia si oscura. L’universo si spegne. […] E così il cosmo finisce. Non nel fuoco ma nel gelo. E non con un botto, ma con un gemito. Buona giornata! E benvenuti nell’universo” (deGrasse Tyson, Strauss, Gott, 2023).
- Sean Carroll, Sulle origini della vita, del significato e dell’universo: Il quadro d’insieme, Einaudi, Torino, 2021.
- Anthony Frewin (a cura di), Stanley Kubrick. Interviste extraterresti, Isbn, Roma, 2006.
- Carlo Rovelli, Buchi bianchi, Adelphi, Milano, 2023.
- Christopher Nolan, Interstellar, Warner, 2015 (home video).
- Robert Zemeckis, Contact, Warner, 2009 (home video).