In esergo a I turbamenti del giovane Törless, Robert Musil cita Maurice Maeterlinck: “Strano come, appena pronunciata, una cosa perde il suo valore. Crediamo d’essere scesi sul fondo dell’abisso, ma quando risaliamo, le gocce rimaste sulle pallide punte delle nostre dita, non hanno più nulla del mare da cui provengono. Crediamo di avere scoperto una fossa piena di tesori meravigliosi, ma, quando risaliamo alla luce, ci accorgiamo di avere con noi solo pietre false e frammenti di vetro. Nella tenebra, intanto, il tesoro continua a brillare, inalterato” (Musil, 2013).
Parole perfette per essere confutate, quantomeno in una delle possibili letture delle medesime a cui si può scegliere di aderire, dall’indagine dell’abisso in cui si ha l’impressione si traduca il senso dell’ultima creatura di Livio Santoro, Commedie del vespero e della notte, edito da Edicola Ediciones, dopo il precedente Piccole Apocalissi, che, pur preparando il terreno al successivo, lungo una linea di personale complessità, se ne discosta, privo della maturità dell’ultimo.
Il ricorso alla citazione cara a Musil, seppure in un processo di iniziale definizione delle Commedie in negativo rispetto all’affermazione di Maeterlinck, consente di estrapolare abbastanza agevolmente taluni aspetti del simbolismo narrativo di Santoro conducendoli su un piano di analisi il cui esito finale ne contraddice lo spirito delle premesse così come articolate nell’originaria versione.
Se è tendenzialmente vero che la parola, soprattutto alla luce degli ardori giovanili, è lo sbocco limitante del subbuglio dentro cui ciascuno esplora sé stesso nel tentativo di restituire forma conoscibile ai propri abissi, nel testo di Santoro non è affatto così e questo ne spiega, probabilmente, una componente della maturità di cui sopra.
Le immagini di quest’articolo: i libri/scultura di Guy Laramée.
Le micro-narrazioni, forma d’elezione attuale dell’espressione letteraria dello scrittore spoletino, hanno il pregio di attingere dal profondo e di mantenere integra, nello stato di riemersione, la carica eversiva del materiale incandescente tirato fuori, inquadrandola in uno scenario più ampio in cui l’inferus non è mai solo manifestazione della specificità del singolo, ma patrimonio collettivo ricavato mediante il sapiente uso degli strumenti che intrecciano lo sguardo epico alle figure consustanziali al funzionamento del mito.
Facile l’accostamento al mondo immaginifico di Jorge Luis Borges, ma ci piace pensare che l’atto del portare a galla, mediante un impianto sensoriale che include la visione, pur non esaurendosi in essa, abbia, più o meno consciamente, una valenza universale idonea a congiungere mondi opposti lungo un medesimo itinerario di conoscenza che spazia dalle lande assolate del sud fino ai ghiacci di terre lontane dall’Equatore.
Le figure che popolano le commedie di Santoro contengono l’anomalia fantastica di una certa cultura sudamericana, incanalata, pertanto, lungo un procedimento ispirato a parametri razionalistici idonei a garantire il salto necessario verso la più mutevole forma metafisica, funzionale a una logica aerea, ma fortemente umana. Ciò equivale, però, a portare al lettore una verità parziale, una ricostruzione non del tutto veritiera del mondo, molto più complesso di quanto non voglia darsi in apparenza, che lo scrittore ha, in qualche modo, lentamente costruito attraverso il suo personalissimo percorso di scrittura.
L’indagine deve necessariamente procedere allargando la visuale e includendo in essa non solo l’anomalia del monstrum che strania a tal punto da confondere i piani percettivi fino a generare l’idea dello sconfinamento del reale in una dimensione altra, la cui accezione fantastica è, a questo punto, la conseguenza di una deriva mentale e fortemente umana, ma un ulteriore fondamentale tassello che abbandona l’umano per inglobare la materia e lo spazio cosmico.
È proprio dall’assemblaggio di componenti di matrice diversa che nasce la complessità e, in fondo, la maturità dell’opera. Questo accade attraverso l’inserimento di elementi fuori norma all’interno di una struttura spazio-temporale libera dalle ordinarie coordinate gnoseologiche. In Animismi cremisi delle pietre: un canto, leggiamo:
“Noi siamo l’altro tempo, il tempo che vi negate aggiogati dal quando, dal durante e dall’ancora. Annichiliti dal sempre. Noi siamo le anime cremisi delle pietre, artefici del dissimile, e siamo bollore e gelo, coincidenza remota e prospettiva, vostro diuturno veicolo, e non vostro, nel vuoto interminato”.
Siamo di fronte a un impianto che travalica l’urgenza di un’esatta collocazione delle vicende in nome di una configurazione epica di trame che paiono muoversi nella notte dei tempi e, pertanto, recare in sé l’universalismo della storia oltre l’umano attraverso l’astrazione dell’essenziale, del nucleo che in eterno si rinnova. Il ghiaccio e il fuoco, le acque e gli sconvolgimenti tellurici, la pioggia e le stelle: tutto riconduce a un ordine naturale delle cose, a uno spazio che, pur dominato dalle leggi della fisica, introduce a un altro piano di conoscenza in cui nulla si esaurisce nella pura materialità contenendo in sé il principio di un’assenza suscettibile di un’interpretazione che non è mai completamente trascendente, si radica in un bisogno di senso, senza soddisfarlo. Se lo spirito divino permea di sé il creato, non è esso la pacifica risoluzione della contraddittorietà dell’umano, ma il salto funzionale, attraverso l’apparato mitologico di sostegno, allo slancio che dalla materia spinge poco oltre, nella direzione auspicata della congiunzione quantistica delle ipotesi, laddove il tentativo di comprensione delle leggi della materia si incontra con la necessità della sollecitazione dello sguardo umano che ne attiva il moto e, parallelamente, non rinuncia completamente alla trascendenza e al sogno in essa.
Dunque, intersecazione di piani e conseguenziale complessità di un universo estremamente ricco, non solo per varietà figurativa e prospettiva di osservazione adottata, ma anche per cultura non esclusivamente di stampo umanistico che trapela in ogni tessera dell’opera composta e che facendosi lingua genera un andamento che ha la ritmica, non esposta, di un unico canto, come se la ricercatezza, linguistica, più che stilistica, volesse essere di stimolo all’altro lato delle cose.
Laddove l’umano si ferma nel conoscere, subentra un intuito che, pur radicandosi nella parola nascosta, abbandonata, dimenticata, colta, trascurata, la abbraccia fino a farla propria restituendo alla lettura il senso di un viaggio dall’esito affatto scontato. Dove la meta non è la sapienza, ma l’articolazione dei passaggi lungo i quali essa si compie senza approdare a nulla che non sia il paradosso dell’evidenza di non essere mai stati, come si legge in Per trentasette piastre di bronzo:
“All’impervio picco, per trentasette piastre di bronzo, si procede a ritroso fino alla separazione dei gameti, fino a sciogliere i legami della doppia elica, fino a non essere mai più. Fino a non essere mai stati”.
Oppure la malinconia della perdita a cui siamo destinati a soggiacere in nome della “fine postrema delle cose”, nonostante “il dono sottratto per noi agli dei da Sam Andaran” sia il fuoco che offre l’opportunità di vedere il mondo nella dimensione spaventevole e infernale relegandoci alla nostra natura di essere contraddittori e desideranti. Si legge in Lapidoso il suolo, lapidario il passo:
“Tuttavia, pur sbagliando, continuo lo stesso testardamente ad errare, a procedere innanzi con la solita e stolida fiducia, nell’attesa che arrivi l’ultimo dardo a mondare risolutivo il mondo, nell’attesa di essere non più testimone, ma polvere soltanto, volatile sostanza che più non si confaccia a quel lurido pronome, e che finalmente ne dismetta il giogo”.
Sono storie di riti e comunità, di norme e processi di ascesa, di battaglie tautologiche, come ne Il cerchio della lotta:
“Il disaccordo su cosa si dovesse intendere per lotta sventolava invitto in cima a ogni discussione, e col passare delle notti e dei giorni le divergenze si facevano sempre più accese, fin quando esplosero inevitabilmente roventi. Fu proprio allora che cominciammo a lottare”.
O, più materialmente, contro un assalto di locuste, ma anche contro sé stessi in un’inconciliabile fame di sé che conduce all’annientamento, sono storie di lenti cammini e di lontane preghiere, di equilibri mutevoli in cui esistono tracce da seguire prima che ci si tramuti in memorie per i posteri o in cui la semplicità della dipendenza, dello spostamento indotto dall’esterno non è riscattata dalla successiva libertà, il cui sollievo è di breve durata, in un percorso senza conforto, o in cui la responsabilità delle vite altrui e il loro margine di salvezza si scontrano con la durezza delle ostilità e delle loro regole disumane dentro cui la morte ha le sembianze di un ristoro nell’assenza di un altrove in cui condurle.
Sono storie di mare e di terra, di acque che restituiscono qualcosa di un tempo passato con cui approntare il prossimo viaggio marittimo nel rispetto di una circolarità eterna, contromisura all’evidenza della perdita postrema di cui sopra, ma sono anche storie di famiglie che si auto-fagocitano nel tentativo estremo di una resistenza sterile, senza contaminazione, o storie di conservazione, tra attesa e vendetta, al freddo, in assenza di luce. L’abisso, in fondo, dicevamo all’inizio, quello di Promesse di chi s’approssima all’abisso:
“Mi accoglierà presto il tetro abisso e freddo, che difetta di luce e respiro, dicono mentre mi osservano digradare piano. Ed esultano in ilari brindisi. E ridono. E scommettono stracci, bottoni e pulci su quanto tempo ancora mi resti. E ancora ridono. Ridono sempre più forte”.
Persino quello di raffinato ingegno manipolatore umano, che generiamo perché catalizzi le nostre miserie e ci sposti oltre l’egoismo del nostro dolore attraverso il gioco paradossale del rispetto di quello altrui in funzione del quale creare nuove fonti, impegnare risorse, attivare processi mentali, con la fine attenuante della priorità dell’altro, anche se al servizio del male. Dunque, entrare nelle logiche umane e scardinarle fino a rintracciarne il nucleo, privare ogni narrazione del superfluo, centrare il cuore, sfidare chi si avventura coinvolgendo la sfera sensoriale, abbattere ogni sovrastruttura, celebrare, senza ossequi, ciò che travalica l’umano per fare pulsare l’oggetto del racconto dell’imponderabile che non condanna né assolve, ma contiene la verificazione degli eventi, la innalza laicamente, mentre l’uomo la riconduce a un processo meccanicistico di cause ed effetti a cui, però, neanche la materia soggiace mai completamente. Siamo un mondo limitato. Siamo “la misura di un mondo limitato”, “di una storia finita”. Siamo anime infelici ed errabonde in attesa di una risposta vana dall’oracolo, perché, se è vero che la porzione dell’inaspettato si incastra magistralmente con il potere divinatorio di chi varca, autorizzato, i limiti angusti della sapienza umana, la risposta si palesa quale controbattuta a una domanda che non siamo capaci di rinnovare.
Fermi, dentro la circolarità del cosmo. In opposizione alla sua eternità. Commedie del vespero e della notte è un canto laico, un’apocrifa narrazione dell’incontro tra umano e divino, la dissacrazione dell’abisso, lo sventramento dell’ordine, la ferita in cui cercare il monstrum, la prospettiva da cui guardare a un mondo in disfacimento senza essere travolti dalla tragedia. Sono, in fondo, commedie nell’istante in cui tra macerie e corpi, tra distruzione e morte, aleggia lo spirito quasi insolente, se non fosse che è bene inserito nel corso delle cose narrate fino a scomparire, di una fiducia in un tempo che verrà. E in cui non v’è certezza della nostra presenza. Sospesi tra la tracotanza di Penteo e il Cristo che non siamo riusciti a incarnare, siamo il materiale di scarto di un prossimo cosmico allestimento teatrale.
- Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless, SE, Milano, 2013.