Di cura e di solitudine:
il cinema di Wong Kar-wai


Rassegna

Una questione di stile
Il cinema di Wong Kar-wai
in versione restaurata
Cinema Troisi, Roma
1 – 29 ottobre 2024

 


Rassegna

Una questione di stile
Il cinema di Wong Kar-wai
in versione restaurata
Cinema Troisi, Roma
1 – 29 ottobre 2024

 


Voce di punta del cinema hongkonghese e tra le più influenti del cinema asiatico contemporaneo, Wong Kar-wai ha visto nel 2021 ripresentati per la prima volta i capisaldi della sua filmografia restaurati in collaborazione con Criterion Collection presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna. In Italia, i film sono stati raccolti e distribuiti nella rassegna Una questione di stile. La vediamo riproposta lo scorso autunno al Cinema Troisi a Roma, seppur in una versione stranamente priva dell’opera più matura e celebre dell’autore: In the Mood for Love (Faa yeung nin wa, 2000). Regista avverso alla pianificazione, amante della creazione spontanea, libera, della pura improvvisazione; per il quale un film non è mai un’opera chiusa, nemmeno dopo la sua uscita, Wong Kar-wai nasce a Shanghai nel 1958. Nel 1963 emigra insieme alla madre a Hong Kong, per sfuggire alla sempre crescente condizione di instabilità politica e sociale della Cina comunista. Il padre si ricongiungerà a loro poco tempo dopo, mentre i due fratelli maggiori rimarranno bloccati in madrepatria a seguito della chiusura delle frontiere. Hong Kong all’epoca è di fatto una città-stato, crogiuolo di genti, metropoli fagocitante, punto d’incontro ideale tra Oriente ed Occidente: in virtù del suo status di protettorato britannico, la città accoglie dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai primi anni Sessanta un gran numero di immigrati dalla Repubblica Popolare Cinese. A causa della sua particolare collocazione geopolitica e del suo territorio ristretto (circa 2.700 km²), la città è già all’epoca tra le più densamente popolate e multiculturali al mondo: la sua fama di crocevia economico, commerciale e culturale tra Occidente e Oriente attrae flussi migratori non solo dalla Cina continentale e dal Sud-est asiatico, ma anche (seppur in quantità assai minore) dai paesi occidentali.

Il futuro regista trascorre la propria giovinezza nella zona della penisola di Kowloon, quella che più di ogni altra risente dei flussi migratori e dove sorgono quartieri popolari, sovraffollati e spesso malfamati. Non è un caso che quando il giovane Wong comincia a lavorare come sceneggiatore, negli anni Ottanta, l’industria cinematografica hongkonghese si concentri su film di exploit che vanno dalla commedia d’azione al gangster movie; e forse anche il modus operandi che caratterizza l’intera carriera registica di Kar-wai è in fondo una risposta ribelle alle costrizioni della vita metropolitana, scandita dal ticchettio dell’orologio e dal fluire del denaro, guard rail produttivi che egli infrange costantemente: i suoi film sforano puntualmente i budget e i tempi di ripresa prestabiliti. Il suo processo creativo è a dir poco jazzistico (e la musica in generale ha un ruolo, a iniziare da diversi titoli dei suoi film). Contando su un ensemble di collaboratori in stretta simbiosi (in particolare il direttore della fotografia Christopher Doyle e il montatore, scenografo e costumista William Chang), raramente arriva sul set con più che un abbozzo di sceneggiatura. Il processo creativo parte da un’idea, una visione, un tema, che si consolida durante le riprese nello scontro con le contingenze per cristallizzarsi in una forma soltanto in sala di montaggio, come se si trattasse di una lunga e titanica jam session. Probabilmente anche per questo, dopo quasi un decennio dall’ultimo film (The Grandmaster, 2013) fa capolino la necessità di tornare a confrontarsi con le proprie opere, mantenerle vive e attuali sottraendole a un’inevitabile mummificazione.

As Tears Go By (Wong gok ka moon, 1988)
Wong Kar-wai debutta alla regia in un momento di grande fermento del cinema di Hong Kong. Sebbene la stragrande maggioranza della produzione locale sia volta, come si è detto, verso prodotti commerciali, le case di produzione permettono agli autori un certo grado di sperimentazione, offrendo di fatto la possibilità di concentrarsi su film più riflessivi e personali pur rimanendo, per necessità prettamente economiche, all’interno del sistema dei generi. In questa sottile zona grigia si colloca As Tears Go By. Il film rientra di fatto nel filone heroic bloodshed, una tipologia di gangster movie “incentrati sul tema della fraterna amicizia virile declinato in termini tragici ed eroici” (Alovisio, 2010). Seppur non si tratti di un’opera pienamente matura, è già pervasa da tutti gli elementi della poetica kar-waiana, che smarcano nettamente la pellicola dal cinema di puro exploit costruendo profonde riflessioni, in primis quella metacinematografica sul suo stesso genere. In As Tears Go By nessun personaggio è veramente eroico: Wah, protagonista della storia, è un giovane gangster di scarsa rilevanza. Fin dalla sua prima inquadratura appare passivo, annoiato, in balia delle circostanze come una foglia il cui unico dovere sia quello di farsi trascinare da un vento eventuale. Prima dell’arrivo di Ah Ngor, cugina della quale nemmeno conosceva l’esistenza, il suo unico legame affettivo è l’amicizia con Fly, un piccolo gangster profondamente immaturo e impulsivo declinato come “fratello minore”, nel senso della sottomissione alla protezione di Wah.
L’attività principale e quasi esclusiva di quest’ultimo durante tutto il film è quella di soccorrere Fly. Questo si trova infatti costantemente indebitato con Tony, aggressivo “fratello maggiore” di una piccola gang locale. L’originalità di Wah e Fly rispetto al genere heroic bloodshed sta nel fatto che nelle loro azioni non c’è nulla di eroico: Fly è una mina vagante, Wah sembra fuggire silenziosamente dai suoi obblighi narrativi rispondendo alla chiamata dell’azione solo per la responsabilità che sente di avere nei confronti dell’amico. La tensione amorosa con Ah Ngor appare come la sua unica via di fuga e redenzione, sempre messa in secondo piano rispetto all’urgenza del prendersi cura del fratello minore. La cura verso l’altro è un tema ricorrente nel cinema di Wong Kar-wai, declinato spesso come prendersi cura dell’altro attraverso lo spazio che questo abita, stabilendo una corrispondenza ontologica tra i due: emblematica in questo senso è l’azione di Ah Ngor di riordinare la casa del cugino:

“Ho comprato molti bicchieri. So che prima o poi si romperanno tutti, così ne ho nascosto uno. Quando un giorno avrai bisogno di quel bicchiere, telefonami e ti dirò dove è nascosto”.

Si tratta di un’azione che traduce la volontà di sistemare un’anima allo sbando, fragile quanto il vetro, instaurando tra il bicchiere e il nascente sentimento amoroso una corrispondenza ulteriore, tacita ma efficace. Ah Ngor appare in questo senso come l’unico personaggio attivo del film, teso verso degli obiettivi (la salute, il ristorante di famiglia, Wah). Nondimeno, i contesti ambientali dei due cugini sono leggibili nel senso di un’antropopoiesi del luogo sugli individui: nelle riprese in esterni, la Kowloon abitata dai gangster è uno spazio pericoloso, allucinogeno, violento ed alienante.

I protagonisti rispondono in maniera meccanica all’ambiente e al rapporto con gli altri, ad azione corrisponde sempre azione uguale e contraria che non porta ad altro se non che alla ripetizione di un automatismo, quello della violenza; l’isola di Lantau, zona rurale dove abita la cugina, è al contrario un ambiente accogliente, i cui ritmi sono dettati da quelli naturali e in cui i personaggi sembrano realmente riflettere, avere una propria agency. Gli esseri umani sono abitati dai luoghi tanto quanto essi li abitano, e i destini dei due fratelli sono in tal senso segnati dalla loro incapacità di sottrarsi a sé stessi: Fly al tentativo di riscattarsi nell’ambiente mafioso; Wah alla protezione del fratello. Egli sceglierà di fatto di rischiare un’ultima volta la vita lasciando Lantau per sorvegliarlo nell’esecuzione di una missione suicida, nel quale entrambi moriranno in modo futile ed evitabile: quello di Fly è un gesto estremo di insubordinazione rispetto al fratello maggiore, che pensava di averlo dissuaso dal compiere una follia; la scelta di Wah di vendicare il fratello portandone a termine il compito è ancora una volta il ripetersi di un circolo vizioso perpetrato durante tutto il film e dal quale non riesce a redimersi. La loro morte è sì tragica, ma le loro gesta non hanno niente di eroico: sono solo la conseguenza estrema della loro passività, del loro comportamento riflessologico rispetto agli stimoli di un ambiente logorante in cui essi sono sempre fuori posto: “Torna in campagna, le strade di città non fanno per te”, dice ad un certo punto Tony a Fly.

Days of Being Wild (A Fei jing juen, 1991)
Per Wong Kar-wai, l’amore è innanzitutto “una questione di timing” (Alovisio, 2010). La sua seconda pellicola è un sublime componimento di coincidenze prese e mancate. Yuddi è un giovane casanova annoiato, il cui unico impegno sembra essere quello di sedurre ragazze ai fini di colmare il vuoto lasciato dalla figura materna. Nelle prime sequenze del film, lo vediamo alle prese con Su Lizhen, bigliettaia dello stadio che non lo vede di buon occhio. Lui le propone di diventare amici, e alla domanda della ragazza sul perché dovrebbero, lui le risponde di guardare il suo orologio. I due trascorrono insieme un intero minuto, al termine del quale lui se ne va:

“Sedici aprile 1960, un minuto prima delle 15:00 eravamo qui insieme. Ricorderò sempre quel minuto per te”.

Yuddi è ben consapevole del potere suggestivo del suo gesto. Fissando per sempre quel breve ritaglio di tempo nella memoria, conferendogli un nome proprio, sottrae il contingente al suo fluire inesorabile cristallizzandolo in una materia difficilmente deperibile: quella del ricordo. Il giovane instaura artificialmente una coincidenza temporale, un timing appunto, talmente potente che sopravvive alla stessa relazione amorosa che i due intraprendono di lì a poco. Yuddi è stabile solo nella sua noia, e le donne sono la sua unica via di fuga da una condizione di totale solitudine. A ben vedere, ogni personaggio del film (e di tutti i film di Wong Kar-wai) vive la stessa solitudine, affrontandola in modi assolutamente diversi e personali. Nessuno riesce mai a emanciparsi da questa condizione per pure coincidenze spazio-temporali, che sembrano essere sempre avverse ai personaggi. Dopo che Tide e Su trascorrono un numero imprecisato di notti a passeggiare, lui si innamora di lei, che però sta cercando di dimenticare Yuddi. Quando finalmente ci riesce e chiama Tide alla cabina telefonica, lui ha già cambiato lavoro e non è lì per rispondere. All’interno del film, i due personaggi non si rincontrano più, e non è detto che lo faranno successivamente.

Allo stesso modo, Zeb, amico di Yuddi, è innamorato di Mimì, ultima conquista del casanova. Quando questo la lascia senza spiegazioni per andare nelle Filippine a cercare la madre naturale, Zeb tenta di sostituirsi a lui, ma fallisce e incanala il suo sentimento nel darle la possibilità di ricongiungersi a Yuddi, nonostante questo poi non avvenga. Sempre una coincidenza fa sì che Yuddi e Tide infine si incontrino, nelle Filippine. Quest’ultima è fortuita ma non benevola: i due si riconoscono, proprio per il riferimento a quel Minuto (di cui Tide in qualità di confidente di Su era venuto a conoscenza) come due uomini innamorati irrimediabilmente della stessa donna, che entrambi non avranno probabilmente occasione di rivedere. Sembra che l’unica coincidenza destinata a innescare il meccanismo di attrazioni amorose che si riversa su tutti i personaggi sia proprio quella artificiale prodotta da Yuddi. Tutte le altre falliscono sempre nel loro accadere, senza precipitare mai in degli esiti concreti, almeno all’interno del film. Non è infatti da escludere che, successivamente, Tide e Su si rivedano (lui sa che lei lavora allo stadio); o che lo stesso avvenga tra Mimì e Zeb. Tuttavia, queste eventualità sono lasciate al di fuori della storia filmata. Ironicamente, il personaggio che innesca questa catena di coincidenze mancate è l’unico che sembra non innamorarsi mai veramente: sebbene egli abbia intuito l’ingrediente principale dell’innesco attrattivo, non riesce a coglierne la qualità più autentica. Il tempo in cui Yuddi cala il Minuto è infatti il tempo oggettivo, quello arbitrario e misurabile dell’orologio, mentre il tempo dell’amore è sempre, in particolar modo nel cinema di Wong Kar-wai, un tempo emotivo, soggettivo, aleatorio, sfuggente, altro. Anche per questo, Yuddi è convinto per tutto il film che saprà quale donna ha amato di più (potremmo dire “veramente”) solo nel momento della sua morte, ossia l’attimo che permetterà retroattivamente alla sua vita di acquisire significato.

Hong Kong Express (Chungking Express, 1994)
Anche in Hong Kong Express, come in tutta la filmografia del regista, il tempo e le coincidenze sono un fattore centrale. Il film si compone di due storie parallele e indipendenti, che raccontano di due poliziotti alle prese con la fine di una relazione e il sorgere di un nuovo innamoramento. L’unico nesso narrativo tra le due sta nella frequentazione del medesimo chiosco, il Midnight Express. La prima parte del film, quella riguardante il poliziotto 223, è trattata come un memoriale in divenire: il momento dell’incontro è qui sempre casuale, mai artificiale come in Days of Being Wild, e viene fatto aderire al tempo oggettivo solo in modo simbolico, a fini calendaristici. Si pensi alla frequente inquadratura in cui si vede l’orologio scattare violentemente tra un minuto e l’altro, che fin dalla prima sequenza irrompe in alcuni momenti significativi del film a rappresentare l’inafferrabilità di un avvenimento attraverso la fugacità dell’attimo nel quale questo si verifica. Risulta chiaro come la sovrapposizione del momento in questione (isolato nella sua dimensione soggettiva anche dall’uso del freeze frame) allo scatto dell’orologio sia puramente simbolica e funzionale ad uno scopo memoriale volto a conservare l’attimo per salvarlo dall’oblio:

“Se anche i ricordi sono come un barattolo di ananas, spero che quel barattolo non scada mai. E se proprio deve avere una data di scadenza, spero che sia tra 10.000 anni”.

Il primo episodio del film è infatti puntellato da date di scadenza, a sottolineare che ogni cosa è deperibile, precaria, finita, sia essa un amore, un barattolo di ananas, un’età. La stessa Hong Kong è, di fatto, una città in scadenza: il 1997, la data fissata per la riconsegna di quest’ultima alla Cina da parte della Gran Bretagna, si fa sempre più imminente. La metropoli è la protagonista intrinseca del film, che tutto pregna e invade. Molteplici sono le sequenze che trasudano il sovraffollamento della città, la frenesia del suo movimento, resa in modo sopraffino nella sequenza di apertura in cui 223 rincorre dei criminali tra i corridoi saturi e labirintici delle Chungking Mansions. Queste ultime sono un enorme complesso residenziale e commerciale, un “luogo sovrappopolato e iperattivo” che per il regista è “una buona metafora della città stessa” (Alovisio, 2010).

In ogni inquadratura si ha la sensazione che a Hong Kong non ci sia spazio né intimità, in nessun momento. Eppure i personaggi vivono, pur non essendo quasi mai soli nel senso fisico del termine, una costante condizione di solitudine, ben sottolineata dalla macchina da presa attraverso lo step framing e lo stretch printing, che in questo film si consacrano definitivamente come marchio stilistico kar-waiano. Sono molteplici all’interno dell’opera le inquadrature in cui, utilizzando questi due effetti in modo combinato, il regista riesce a porre su due piani diversi il tempo oggettivo e quello emotivo/soggettivo dei personaggi, che rimangono come sospesi nel tempo mentre tutto attorno a loro scorre sotto forma rapide e scattose macchie. La fuga da questa solitudine è possibile solo nella relazione intima con l’altro, che in Wong Kar-wai si traduce, come già accennato per As Tears Go By, nell’invadere e conoscere lo spazio che questo abita. La casa di 663 diventa così il luogo fisico del suo Io, abitata dalle vestigia di una relazione da poco finita. La corrispondenza tra lui e il suo appartamento è evidente fin dal momento in cui lo vediamo consolare gli oggetti, che si fanno carico della somatizzazione dei sentimenti di abbandono e solitudine: la saponetta “dimagrisce”, lo straccio “piange”. La divisa da hostess della ex fidanzata ancora abita il suo armadio come un fantasma, del quale lui si prende cura, stirandola quando questa “ha freddo”, o stendendola per portarla “a prendere aria”.
Non è casuale a tal proposito che, quando Faye si introduce di nascosto nell’appartamento con le chiavi destinate alla ex fidanzata di cui sopra, la sua occupazione principale sia quella di sistemare la casa. Comincia di nascosto ad insinuarsi nell’Io di 663, curando la ferita causata dalla fine della relazione precedente e sostituendosi di fatto allo spettro della ex. Questo gioco di sostituzione e conoscenza continua fintanto che la casa non è pienamente rimodernata, e lui perpetua il rituale di consolazione degli oggetti per puro automatismo nonostante questi siano “guariti”: la saponetta è “ingrassata”, lo straccio è “completamente cambiato”, anche se è rimasto un tipo “molto sentimentale”. Si accorge che la sofferenza per la fine della relazione precedente è giunta al termine soltanto quando coglie in flagrante Faye nell’appartamento prendendo consapevolezza che il suo desiderio d’amore è ormai indirizzato nei confronti di quest’ultima. Ironicamente e coerentemente al gioco della sostituzione, anche lei diventa una hostess e vola via sul nascere della relazione.

Angeli Perduti (Duòluò tiānshǐ, 1995)
Angeli Perduti prende forma dal nucleo narrativo di un terzo episodio previsto per Hong Kong Express, scartato per questioni di minutaggio. I rimandi tra i due film sono infatti molteplici, pur costituendo due opere completamente indipendenti l’una dall’altra. Conscio dell’ormai consolidata codifica del suo stile da parte di pubblico e critica, Wong Kar-wai lo porta all’eccesso fino a rasentare la caricatura. A questo proposito, è doveroso notare l’uso costante di lenti ultragrandangolari per la quasi totalità delle inquadrature del film (tra i 9.8 e i 6.5 millimetri), una scelta registica e fotografica che costituisce “un caso quasi unico nella storia del cinema” (Alovisio, 2010). In un primo momento dettata dalla necessità di girare in ambienti ristretti, l’uso spasmodico del grandangolo risponde alla volontà di distorcere artificiosamente lo spazio. I volti degli attori si deformano, le distanze che li separano gli uni dagli altri si fanno incolmabili, la velocità con la quale si spostano aumenta, gli spazi appaiono tutti estremamente dilatati.

Si tratta di una scelta estetica funzionale a rendere visivamente la profonda solitudine di cui i personaggi sono ostaggio. Una solitudine talmente pregnante che l’unico modo di sfuggirvi è ancora una volta l’intrusione, manifestata in modo decisamente più strutturato, consapevole e violento, nello spazio altrui. È leggibile in questo senso il rapporto che lega il killer Ming alla sua aiutante. “Sono 155 settimane che siamo soci. Oggi è la prima volta che ce ne stiamo uno di fianco all’altro”, confessa lui in voice over durante la prima inquadratura del film. La conoscenza tra i due avviene in modo monodirezionale, da Ming verso di lei, ed è sempre mediata, mai diretta. Lei lo conosce attraverso lo spazio dell’appartamento in cui abita e che rassetta in virtù della loro interdipendenza lavorativa. Conosce i suoi oggetti, abita momentaneamente il suo stesso appartamento, fruga nel suo Io e, soprattutto, nella sua spazzatura. All’interno di questa lui le lascia volutamente degli indizi su di sé. Perdutamente innamorata dell’idea di lui, la vediamo spiare nell’appartamento quando vi passa davanti con la metropolitana; frequentare lo stesso bar che lui frequenta sedendosi addirittura allo stesso posto; masturbarsi disperata sul suo letto. La scena, tra le più suggestive dell’intero film, mette in mostra in modo feticista l’artificialità dell’innesco del desiderio sessuale, che si manifesta solo se mediato da un oggetto che in entrambi i casi consiste in una canzone suonata al jukebox: la stessa dinamica si ripete infatti quando Ming decide di rompere la società per ritirarsi dalla vita da killer, comunicando la sua scelta proprio attraverso il medesimo jukebox.

Ancora più evidente e violenta è l’invasione dello spazio altrui perpetrata da Ho Chi Moo, protagonista della seconda linea narrativa del film. Sordo, spesso ricercato dalla polizia, il giovane si mantiene aprendo durante la notte i negozi degli altri, costringendo gli eventuali e ignari passanti a diventare suoi clienti, che vengono letteralmente sequestrati. L’agire di Ho Chi Moo non è innescato dall’intenzione di danneggiare l’altro, il suo intento è anzi quello di renderlo felice, di prendersene cura; ciò appare come un gesto estremo in risposta ad una nevrosi della solitudine e dell’incomunicabilità, un tentativo di inserimento nella società e nella sfera relazionale che nel sistema capitalista non può che trovare la sua collocazione nel contesto del commercio. La nevrosi del personaggio e le sue declinazioni sono rappresentate con un taglio caricaturale e macchiettistico. Lo stesso si può dire per Charlie, la ragazza di cui Ho si innamora e che asseconda nella ricerca ossessiva di Blondie, una donna che le avrebbe rubato il fidanzato. La scena culmina nel pestaggio esorcistico e allegorico di una bambola gonfiabile, poi nella stesura di una lettera e infine in una rissa, in cui tutti sono e contemporaneamente vogliono picchiare l’irreperibile Blondie: ancora una volta, la conoscenza e l’influenza sull’altro vengono mediate da un oggetto, in assenza del soggetto in questione.
La solitudine sembra svanire, solo per un attimo, nel finale: Ho incontra per un caso fortuito la ragazza socio di Ming, e la accompagna a casa in moto al sorgere del sole. Ancora una volta, non sappiamo quale sarà l’esito di questo incontro: le sue conseguenze sono lasciate fuori dal film. Certo è che sulla città sta albeggiando, ed è la prima volta dall’inizio del film che non è notte. Allo stesso tempo, salvo qualche inserto capovolto che Doyle filmerà per Happy Together, si tratta dell’ultima inquadratura che Wong Kar-wai girerà ad Hong Kong.

Happy Together (Chūnguāng zhàxiè, 1997)
Per il film successivo, Kar-wai sceglie un luogo singolare ma non casuale: l’Argentina. Il paese si trova infatti geograficamente agli antipodi di Hong Kong, che proprio nel 1997 torna a far parte della Repubblica Popolare Cinese, seppur con lo status di Special Administrative Region. Proprio nel momento in cui la città si riunisce alla Cina, il regista sceglie di andare dall’altra parte del mondo a girare una storia di separazione. Lai Yiu-fai e Ho Po-wing sono una coppia instabile, partita per l’Argentina nell’ennesimo tentativo di “ricominciare” la loro storia d’amore. L’obiettivo del viaggio è quello di andare a vedere insieme le cascate di Iguazú, rappresentate su una lampada che Ho aveva precedentemente acquistato. Prima di arrivarci, Ho Po-wing decide di lasciare Lai, salvo poi cercare di ricongiungersi con lui in un secondo momento per “ricominciare” nuovamente, proposta che viene respinta dal secondo con decisione. Lai riaccetta tuttavia l’ex compagno nella sua vita quando questo si presenta alla sua porta con le mani rotte.

“Speravo non guarisse presto. Quel periodo è stato il più bello che abbia passato con lui”.

Il loro rapporto è simile a quello di Wah e Fly in As Tears Go By. Ho Po-wing è, come Fly, un personaggio immaturo e impulsivo, con la tendenza a mettersi nei guai cercando sempre la protezione della figura di riferimento: Lai. Questo trova la sua somiglianza con Wah nella tensione verso il prendersi cura dell’altro: nonostante i continui litigi e il carattere opportunista di Ho, Lai lo accoglie nella sua camera d’albergo, cucina per lui, lavora per entrambi. Proprio questa cura, permessa da una condizione di vantaggio di Lai sul convalescente Ho, restituisce a quell’intervallo di tempo il piacere più autentico del loro stare insieme, che raggiunge il suo picco nella scena del ballo.

In quel frangente l’amore, anche se svanito o destinato a non avere futuro, si esprime per l’ultima volta nell’unione armonica dei corpi, quegli stessi corpi che Wong Kar-wai ci presenta nella prima sequenza del film uniti nell’atto sessuale, il primo rappresentato esplicitamente in tutta la sua filmografia. Interessante notare come la rappresentazione dell’omosessualità in quanto tale non costituisca di per sé il punto focale del film, bensì “lo sfondo ordinario del racconto, un dato non discusso che non dà fastidio a nessuno” (Alovisio, 2010). La questione è presentata con una tale leggerezza da passare quasi inosservata, trovando proprio in questo fattore trova il suo carattere dirompente. Dopo la guarigione, Ho abbandona definitivamente Lai che, nel frattempo stringe un importante rapporto d’amicizia con Chang. Quando questi parte, Lai si perde nella solitudine. La sua perdizione (in questo Lai si differenzia profondamente da Wah) diventa occasione di crescita, di ricongiunzione metafisica con Ho, di cui assume quei tratti comportamentali rispetto ai quali si era sempre considerato estraneo. Così facendo, Lai comprende e accoglie in sé la problematicità di Ho, in un processo di assorbimento dell’altro che si pone a compimento di un viaggio interiore, simboleggiato dall’arrivo di Lai in solitaria alle cascate di Iguazú.

“Avevo sempre pensato di essere diverso da Ho Pi Ming. Ma quando si sentono sole, le persone sono tutte uguali”.

Solo a viaggio compiuto diventa finalmente possibile per Lai sfogare la nostalgia che prova per tutto il film, tornando a casa. Tuttavia, questo ritorno non è rappresentato: nonostante la sua meta sia dichiarata, per quanto ci concerne il suo viaggio termina a Taipei.
Il ritorno ad Hong Kong non viene mai mostrato.

Letture
  • Silvio Alovisio, Wong Kar-wai, Editrice Il Castoro, Milano, 2010.
  • Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2014.
  • Martin Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1998.
  • George Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2012.
visioni
  • Wong Kar-wai, As Tears Go By (Wong gok ka moon), The Criterion Collection, 2021 (home video).

  • Wong Kar-wai, Days of Being Wild (A Fei jing juen), The Criterion Collection, 2021 (home video).
  • Wong Kar-wai, Hong Kong Express (Chungking Express), The Criterion Collection, 2021 (home video).

  • Wong Kar-wai, Angeli perduti (Duòluò tiānshǐ), The Criterion Collection, 2021 (home video).
  • Wong Kar-wai, Happy Together (Chūnguāng zhàxiè), The Criterion Collection, 2021 (home video).

  • Wong Kar-wai, In the Mood for Love (Faa yeung nin wa), The Criterion Collection, 2021 (home video).