E se nelle strade delle città non ci fossero più le automobili? Quanto spazio si aprirebbe ai mezzi di trasporto alternativi come le biciclette? E alla socialità?
Probabilmente un pensiero così radicale viene sollecitato dalla congestione dovuta al gran numero di auto più ferme che circolanti lungo le vie cittadine, soprattutto di quelle italiane che, per storia, morfologia e sviluppo sono create attorno a quei formidabili dedali di viuzze dei centri storici.
Si tratta di una provocazione che ben difficilmente potrà mai avverarsi. Perché? Chissà, probabilmente perché di traffico in città se ne occuparono già i Romani, quando Giulio Cesare mise nero su bianco il divieto ai carri merce, con qualche eccezione, di entrare in città dall’alba al tramonto per evitare incidenti e disagi legati all’eccessivo numero di persone e mezzi che assediavano le vie di Roma. Sono duemila anni quindi che non si trova una soluzione per conciliare i trasporti su ruota e la vivibilità delle vie cittadine. Ma perché, viene da chiederci, dovremmo farcela oggi? Beh, forse perché duemila anni non sono passati invano, e ora ci sono possibilità e competenze che una volta non c’erano. Certo, permane la resistenza al cambiamento. Ma quella, si sa, è insita nell’uomo. Nuove idee avanzano sempre troppo lentamente, che sia nella regolamentazione del traffico o nella necessità di cambiare stile di vita per diminuire l’impatto dell’uomo sulla Terra.
In questo scenario, a ben guardare, la bicicletta riesce a tenere insieme entrambi gli orizzonti: non invade lo spazio e non inquina. È stupefacente come questo formidabile veicolo abbia una storia brevissima, poco più di due secoli dai primi abbozzi, se rapportata ai cinquemila anni da quando è stata inventata la ruota, che ne è poi l’elemento cardine. Come disse Gianni Brera “La bicicletta non è un’invenzione del nostro ingegno, bensì una scoperta del nostro comune bisogno” (Brera, 2011). Dopo l’elogio del camminare e l’esplorazione di alcune manifestazioni chiave dell’umano (il ridere, il silenzio, il dolore), nella sua ultima fatica, A ruota libera. Antropologia sentimentale della bicicletta, David Le Breton percorre un excursus più o meno completo nella storia e negli usi di questo fantastico mezzo di trasporto leggero, dagli albori fino ai risvolti sociali, facendo spesso riferimento all’esperienza francese. Ma come mai c’è voluto così tanto per cavalcare l’insieme di un telaio e due ruote? Secondo Le Breton si è trattato forse di una mancanza apparente di utilità o più probabilmente l’assenza di vie comode da percorrere.
“Le strade sterrate sono ancora piene di buche, di dislivelli, di pietre e di ciottoli. Le ruote in legno o con i cerchi in metallo sono pericolose su quei terreni. Correre lungo strade tanto malmesse non è per nulla agevole: per questo motivo, gli inglesi hanno soprannominato boneshakers, o scuotiossa, questi primi veicoli […] L’utilizzo di questo dispositivo è pericoloso: si rende necessario un serio addestramento, costellato di numerose cadute, per riuscire a servirsene senza danni”.
Fatto sta che con l’accelerazione della modernità la bicicletta ha rappresentato un’ideale di libertà che troppo presto è stato soppiantato dall’automobile. Quest’ultima aveva più autonomia, più comfort, meno fatica necessaria e maggior capacità di carico. A fronte di qualche minus come i costi di acquisto e di esercizio. Un conflitto continuo, quindi, tra due mezzi di trasporto che hanno contribuito a rimpicciolire il mondo. A dire il vero, però, prima ancora dell’auto, alla comparsa della bici non sono mancate le dispute con carri e carrozze trainate da cavalli. Screzi, incidenti, mancanza di sopportazione per la nuova “macchina”, così come la chiamavano i primi utilizzatori. Un po’ quello che succede ai giorni nostri con i monopattini. Sciagurati!
Una primav-era
Ora, però, stiamo forse entrando in una nuova era, quella post-pandemica, in cui la società occidentale ha riscoperto un certo piacere per la lentezza, per la fatica, per l’osservazione. Da una parte, ci sono manifestazioni come L’Eroica, gara ciclistica non competitiva su strade bianche, cioè non asfaltate, che negli ultimi vent’anni, partendo dal Chianti, si è imposta come momento irrinunciabile e al tempo stesso fondativo per quelle centinaia di migliaia di appassionati ciclisti di tutto il mondo. Il mantra è facile quanto forte: la bellezza della fatica e il gusto dell’impresa. È un manifesto che comprende tutto per coloro che della bici conoscono già i segreti di questo sport popolare per eccellenza. Ricordiamo infatti che è l’unico sport professionistico a venire davanti a casa, e non viceversa, senza chiedere nemmeno il biglietto. Dall’altra, sono decisamente di più le persone non abitualmente cicliste che si sono rivolte alla bicicletta come mezzo di trasporto o di piacere negli ultimi diciotto mesi, mandando completamente in tilt il mercato mondiale delle biciclette che non riesce a far fronte alla produzione nemmeno di accessori. Negozi svuotati e aziende che promettono consegne per l’anno successivo. La trasformazione in atto, questa nuova, improvvisa e imprevedibile primavera della bici, sembra sovrapporsi in maniera calzante a quanto cita Le Breton:
“Secondo Julien Leblay, autore di Il tao della bicicletta, la bicicletta è uno strumento ideale per «l’esplorazione del mondo a velocità umana, né talmente lenta da stancare, né troppo rapida per sentirsi frustrati: un compromesso ideale tra la progressione e la scoperta»”.
La voglia di uscire, di mettersi alla prova, di scoprire luoghi nuovi a una velocità consona al piacere. Perché non c’è una velocità più giusta per scoprire il mondo: a piedi si ha tutto il tempo di cercare i dettagli, ma si compie poca strada. “Dietro il parabrezza, l’automobilista non vede nulla della città, vive una relazione asettica con l’ambiente” dice Le Breton riguardo le automobili. In bici no, perché si ha il tempo di osservare e gustare ciò che si incontra, decidendo se far correre le ruote o rallentare per godersi il tramonto. “Quello che la scienza e i calcoli matematici non potranno mai dirci sul ciclismo, è una delle sue variabili più importanti: la trasformazione della fatica e della sofferenza in gioia, un processo misterioso e apparentemente paradossale nella sua essenza” (cfr. Autori vari, Alvento, 2018). Ecco, la nouvelle vague di ciclisti ha l’entusiasmo dei pionieri, come quello di Luigi Vittorio Bertarelli che dopo aver contribuito a fondare nel 1894 il Touring Club Ciclistico Italiano, ora solo Touring Club Italiano, solo tre anni più tardi partiva per un viaggio senza precedenti alla scoperta di Basilicata e Calabria su due ruote. Oppure la lucida follia di un altro milanese, quel Luigi Masetti, passato alla storia come “Il ciclista anarchico”, che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha girato l’Europa e l’America del Nord con il suo fiero bicicletto, facendosi sponsorizzare dal Corriere in cambio di periodici racconti di viaggio (cfr. Rossi, 2008).
Un approccio progettuale
È facile ipotizzare, quindi, che anche grazie a questo movimento le politiche urbanistiche dei prossimi anni andranno nella direzione di una maggior integrazione fra i mezzi di trasporto terresti, levando spazio alle auto per consegnarlo alle bici e ai cicloviaggiatori. Perché le risposte possano essere all’altezza della grande richiesta di “mobilità dolce” sarà necessario un approccio progettuale, partendo dalle esigenze dei singoli portatori di interesse per farle convivere.
Restando alle strade, il filosofo francese Gaston Bachelard aveva definito “linee del desiderio” il frutto delle abitudini delle persone, cioè le vie più comode e più semplici, quello che si possono ricavare osservando sul campo i comportamenti. Per fare un esempio, si parla di quel punto in cui le persone sono più comode ad attraversare la strada anche se distanti dall’attraversamento pedonale (cfr. Bachelard, 2008). Oppure lo si vede bene nei parchi quando c’è il contrasto con la neve battuta: spesso i percorsi spontanei non sono quelli individuati dal progettista di turno. Così, le scelte saranno funzionali e funzionanti tanto più terranno in considerazione la realtà, le abitudini e le necessità dei ciclisti attuali e futuri.
“La bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un’auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un’unica vettura. Per portare 40mila persone al di là di un ponte in un’ora, ci vogliono dodici corsie se si ricorre alle automobili e solo due se le quarantamila persone vanno pedalando in bicicletta”
(Illich, 2017).
- Autori vari, Alvento, n.1, Mulatero Editore, Piverone, luglio 2018.
- Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari, 2006.
- Gianni Brera, L’Avocatt in bicicletta, Book Time Editore, Milano, 2011.
- Ivan Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.
- Julien Leblay, Il tao della bicicletta, Ediciclo Editore, Portogruaro, 2012.
- Luigi Rossi, L’anarchico delle due ruote, Ediciclo Editore, Portogruaro, 2008.