“Una volgare fabbrica di indifferenziabili intrattenimenti prêt-à-porter”. Fino a qualche tempo fa, alla domanda su cosa ne pensassero di Netflix, rispondevano pressappoco in questi termini gli spettatori più colti, avvertiti e blasé. Ma in virtù del salvifico impulso dato dal colosso dello streaming all’arte filmica negli ultimi due-tre anni, siamo certi che il loro giudizio deve essere drasticamente mutato.
Senza l’audacia produttiva e la munificenza mecenatesca di Netflix, infatti, assai difficilmente magnificenti capidopera come Roma (2018) – cornucopiale affresco del Messico socialmente lacerato degli anni Settanta dipinto da Alfonso Cuarón – e The Irishman (2019) – solenne stele funeraria del cinema gangster eretta da Martin Scorsese – sarebbero venuti alla luce. E recano il marchio Netflix anche due perle rare come la mirabile antologia western dei fratelli Coen intitolata La ballata di Buster Scruggs (2018) e Diamanti grezzi (2019), anfetaminico thriller urbano dei fratelli Safdie, nonché l’opera più attesa e concupita dagli intenditori in questo sventurato 2020 fatalmente avaro di novità cinematografiche. Alludiamo naturalmente a Mank, film pubblicato lo scorso quattro dicembre che segna il ritorno alla regia cinematografica di David Fincher a sei anni di distanza da Gone Girl – L’amore bugiardo.
Dietro le quinte di un capolavoro
Sulla base di una sceneggiatura tanto ferrea quanto armoniosamente proporzionata scritta nel 1997 dal compianto padre Jack – rimasta finora irrealizzata per via della cecità e/o della fiascofobia delle principali case di produzione hollywoodiane –, Fincher, rivelando un’insospettata attitudine da storico meticoloso, ha proiettato una luce inedita e chiarificatrice sulla genesi di uno dei film-cardine dell’immaginario cinematografico mondiale (e della sua personale formazione di cineasta): Quarto potere (1941) di Orson Welles. Pur senza intaccare tangibilmente il mito della genialità poliedrica di Welles o ridimensionare la grandezza della sua personalità, Mank di Fincher confuta quella diffusa opinione che attribuisce al prodigioso, ineffabile Orson anche il merito del rivoluzionario copione caleidoscopico di Quarto potere, precisando che fu il brillante scrittore teatrale passato obtorto collo al cinema Herman J. Mankiewicz a concepirlo e stenderlo, sulla scorta di una sua personale convinzione: “La narrazione non è una linea retta che procede dritta verso un punto”. Ed è proprio Herman J. Mankiewicz detto Mank a costituire, con il suo strabordante repertorio di arguzie corrosive e raffinati artifici retorici, le sue forsennate libagioni e il suo idealismo donchisciottesco, il perno drammaturgico ed emotivo del film.
È il 1940 quando Mank (impersonato da un sontuoso Gary Oldman, di cui difficilmente dimenticheremo l’eloquio salmodiante e lo sguardo soffuso di malcelata malinconia), sceneggiatore di vaglia inviso ai mogul di Hollywood per la schiettezza e la spigolosità del suo carattere, riceve dall’enfant prodige di New York, il ventiquattrenne Orson Welles, l’incarico di scrivere una sceneggiatura basata sulla biografia del potente magnate della stampa e plutocrate William Randolph Hearst. Per proteggerlo dall’influenza nefasta di Hollywood e soprattutto arginare il suo ben noto penchant per l’alcol, Welles lo fa “rinchiudere” in un ranch sperduto in mezzo al deserto del Mojave, e nel farlo ha gioco assai facile visto che Mank ha una gamba ingessata a causa di un incidente automobilistico. Attorno a Mank, che giace su un letto ingombro di fogli appallottolati, fradicio di sudore e in preda ai tipici sbalzi d’umore di un alcolista a cui è stata confiscata la bottiglia, si agitano con premurosa professionalità una cameriera-infermiera tedesca dalla corporatura e dai modi materni e una beneducata segretaria-dattilografa inglese (interpretata dalla deliziosa Lily Collins, figlia di Phil), la quale diventa ben presto anche la sua confidente. Questo ménage “familiare”, a cui Fincher imprime cadenze lievi e vivaci, è interrotto di tanto in tanto dalle irruzioni cariche d’ansia di John Houseman, socio e “spia” di Welles incaricato di assicurarsi che Mank non ceda al richiamo maliardo dell’alcol e concluda la sceneggiatura in non più di sessanta giorni, missione che riuscirà prodigiosamente a portare a termine.
Questa, suppergiù, la linea narrativa principale del film, sulla quale si innestano i flashback scaturiti dalla memoria divagante di Mank, utilizzati da Fincher per delineare la personalità del suo scarruffato antieroe e mostrare gli eventi che in forma più o meno larvata confluiranno nello script di Quarto potere: le riunioni creative con altri grandi sceneggiatori come Ben Hecht, Charles MacArthur e George Kaufman, durante le quali il poker prendeva spesso il sopravvento sull’urgenza di tessere storie originali e appetibili; l’ingresso insieme al mite ma ambizioso fratello Joseph (futuro regista dell’acclamato e pluripremiato Eva contro Eva) nel regno della MGM, il cui boss Louis B. Mayer è descritto come un semplicione che Mank prende per il naso a ogni occasione; l’incontro sul set di una produzione MGM con la fulgida Marion Davies (incarnata con grazia e maestria da Amanda Seyfried), ex vedette delle Ziegfeld Follies che con la spinta del suo compagno e pigmalione Hearst sta scalando le gerarchie del divismo hollywoodiano; i ricevimenti nel castello faraonico e pacchiano di Hearst, dominati da un’atmosfera funerea (non dissimile da quella che permea la casa-mausoleo di Norma Desmond in Viale del Tramonto di Wilder) e ravvivati soltanto dalle stoccate sarcastiche di Mank; e infine il subdolo condizionamento delle elezioni governative della California a opera di Hearst, l’evento deplorevole che fece sorgere in Mank un inestinguibile livore contro il potente magnate (livore che verrà riversato addosso a Charles Foster Kane, il protagonista di Quarto Potere modellato su Hearst).
Raffinato e documentato
Mank di David Fincher è un’opera estremamente colta e ambiziosa che tracima di scintillanti dialoghi e scorre via a un ritmo impetuoso. Ma ciò che più la caratterizza è la sua natura densamente stratificata: riscrittura ardita ma basata su una fonte autorevole – il saggio del 1971 Raising Kane della critica del New Yorker Pauline Kael –, di uno dei capitoli fondamentali della storia del cinema americano (cfr. Kael, 1996); ritratto appassionato e riabilitante di un grande sceneggiatore misconosciuto in vita e dimenticato da morto; rievocazione eccezionalmente vivida e particolareggiata dei ferventi anni della Hollywood Aurea con i suoi tycoon iracondi e spietati, le dive-oggetto che dissimulano le loro angustie sotto fluttuanti chiome platinate e cascate di lustrini, il gigantismo degli Studios.
Uno stupefacente carosello di volti, nomi, citazioni, aneddoti, chicche da cine-feticisti (secondo Fincher, “rosebud”, ossia “bottoncino di rosa”, la parola che in Quarto potere Charles Foster Kane pronuncia in punto di morte, era il vezzoso appellativo con cui l’onnipotente Hearst soleva designare il clitoride di Marion Davies, teoria che trova conferma nel secondo volume di Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, l’implacabile indagatore della storia segreta della Mecca del cinema (cfr. Anger, 1986)). Ma Fincher non si è limitato a “restaurare” con minuzia fatti e personaggi, miserie e splendori dell’epoca d’oro di Hollywood, e con il fondamentale sostegno del bianco e nero filologicamente accurato di Erik Messerschmidt (a cui si deve anche la fotografia cinerea di Mindhunter, l’ottima serie ideata da Fincher per Netflix) e dell’incessante colonna musicale d’antan del duo Trent Reznor-Atticus Ross ha realizzato un film quasi indistinguibile da quelli girati e proiettati in quell’epoca.
In particolare, soprattutto per via della sua complessa struttura a flashback, Mank è assimilabile proprio a Quarto potere. “Deve assomigliare a una pellicola dimenticata nello scaffale accanto a quello di Quarto potere”, ha ripetuto di continuo Fincher ai suoi collaboratori durante le riprese. Be’, crediamo che al riguardo possa ritenersi pienamente soddisfatto.
- Kenneth Anger, Hollywood Babilonia, II, Adelphi, Milano, 1986.
- Pauline Kael, Raising Kane and Other Essays, Marion Boyars, Londra, 1996.
- Ethan e Joel Coen, La ballata di Buster Scruggs, Netflix, 2018.
- Alfonso Cuarón, Roma, Warner Home Video, 2020 (home video).
- David Fincher, Gone Girl – L’amore bugiardo, 20th Century Fox – Disney, 2015 (home video).
- David Fincher, Mindhunter, Netflix, 2017 – in produzione.
- Joseph Mankiewicz, Eva contro Eva, 20th Century Fox – Disney, 2012 (home video).
- Josh e Benny Safdie, Diamanti grezzi, Netflix, 2020.
- Martin Scorsese, The Irishman, Netflix, 2019.
- Orson Welles, Quarto potere, Terminal Video, 2014 (home video).
- Billy Wilder, Viale del tramonto, Universal Pictures, 2013 (home video).