Prendiamo le profondità siderali del cosmo: sterminate, vuote, prevalentemente nere, angosciose nella loro dismisura, e nonostante questo asfittiche, benché mutevoli e sublimi, e di certo estremamente violente, ma di una violenza che, data l’estesissima scala spazio-temporale su cui si sviluppa, fatichiamo a rappresentarci dal nostro periferico e minuscolo osservatorio terrestre.
Immaginiamo comunque di poter viaggiare alla debita velocità in questo vuoto cosmico e smisurato, andando alla deriva senza l’indispensabile ausilio del nostro pianeta sotto i piedi o di una qualche costosissima cosmonave. Immaginiamo di passare accanto alla furia gravitazionale di un buco nero supermassiccio o alla desolazione di una piccola stella morente che va raffreddandosi, incapace di farsi nova. E immaginiamo di volare nel mezzo delle polveri nebulari che si aggregano turbinose, di transitare attraverso sciami di asteroidi pronti alla collisione con gli astri più grandi che si trovano in traiettoria. E immaginiamo di poter assistere dall’alto alle eruzioni di ammoniaca e metano dei criovulcani che si stagliano sulla superficie di una qualche luna remota. Immaginiamo l’espansione delle stelle che a poco a poco fagocitano i pianeti del loro stesso sistema.
Immaginato tutto questo, proviamo adesso a pensare alla musica che nel mentre ascolteremmo, fingendo che nel vuoto siderale la musica si possa propagare per arrivarci alle orecchie. Ebbene: che musica sarebbe? Probabilmente quella dei Darkspace, l’oscuro trio svizzero a cui si può attribuire la primazia mondana nell’ambito del cosiddetto cosmic black metal, versione piuttosto estrema di un genere musicale già di per sé votato all’estremismo massimalista. Band che si è guadagnata sul campo il titolo onorifico di “The Most Mysterious Anonymous Blackest Black Metal Band”. Formatisi come gruppo a Berna nel 1999, quando il più classico black metal di matrice scandinava stava ormai sparando le ultime cartucce della sua fase storicamente più viva, i Darkspace sono un terzetto di cui si conosce ben poco in termini biografici.
I tre sono noti come Wroth (chitarra), Zhaaral (chitarra) e Zorgh (basso, l’unica donna del trio), nomi in codice che paiono di origine kobaiana, come avvertiranno i cultori dello zeuhl, ma la musica qui è tutt’altra cosa. Le identità dei tre sono avvolte nel mistero, anzi dei due, perché il primo è Tobias Möckl, già responsabile di una band ambient-black-metal, i Paysage d’Hiver, di cui è stato l’unico componente. A sua volta Zhaaral è titolare di una band/sigla, Sun Of The Blind, dietro la quale c’è soltanto lui, ma chi sia non è noto. Ma nonostante l’aura di mistero che li circonda, o forse anche in virtù di essa, sono nel tempo riusciti a dare concretezza, in maniera credibile e compiuta, alla fascinazione per la dimensione astrale che nel black metal serpeggiava in sottotraccia ormai da anni, soprattutto nella versione che abbiamo imparato a etichettare con l’appellativo “atmospheric” o “symphonic”: si prendano a titolo d’esempio album come Moon in the Scorpio (1996) dei Limbonic Art, Aspera Hiems Symfonia (1995) degli Arcturus, o ancora il capolavoro In the Nigthside Eclipse (1994) degli Emperor, vera pietra angolare del genere.
Se nei casi citati le tematiche relative al cosmo apparivano come sporadici e non troppo determinati contributi messi a strutturare un impianto etico ed estetico ancora assai “terrestre”, nei Darkspace (come in larga parte delle band che dichiaratamente hanno poi preso a rientrare nel novero del cosmic black metal) siamo invece proiettati direttamente in una dimensione astrale che non ha alcuna mediazione mondana: in altre parole, ascoltando i Darkspace siamo nel cosmo, siamo noi stessi cosmo. In tal senso, fin dall’inizio della sua attività il terzetto bernese ha inteso offrire agli ascoltatori un progetto musicale coerente e monolitico basato essenzialmente sulla continuità piuttosto che sulla variazione, sulla dismisura piuttosto che sulla brevità, offrendoci negli anni una sequenza di album pensati per essere ciascuno parte di un’estesissima sinfonia senza titoli né altri fronzoli terreni, come a dire che, se il nostro viaggio dev’essere lunghissimo, lunghissima sia anche la sua colonna sonora.
Prima loro pubblicazione è infatti la demo del 2002 intitolata Dark Space -I (ripubblicata poi nel 2012), dopo la quale viene, nell’anno successivo, l’album Dark Space I, e così di seguito: Dark Space II nel 2005, Dark Space III nel 2008 e Dark Space III I nel 2014, tutti album costruiti in tracklist che non si lasciano andare nemmeno nel dare un titolo caratteristico e distintivo ai pezzi (lunghissimi anch’essi, di un minutaggio che quasi sempre va in doppia cifra), ugualmente designati con numeri in progressione (arabi, nel caso) preceduti da un’unica e anche in questo caso inequivocabile dicitura valida per tutti: Dark. Stessa cosa dicasi per le copertine e l’artwork dei dischi: indistinguibili tra loro a una prima occhiata, si presentano con minime variazioni grafiche che richiamano paesaggi stellari in bianco e (soprattutto) nero (molto nero). Con questi album, originariamente pubblicati dall’etichetta svizzera Haunter of the Dark (I e II) e dalla nostrana Avantgarde Music (III e III I), i Darkspace ci hanno offerto la possibilità di vivere in musica un viaggio immaginifico simile a quello di cui abbiamo parlato in apertura, trasportandoci attraverso paesaggi astrali in cui tutto sembra essere (perché è) una smisurata corsa verso la morte, verso l’inevitabile fine delle cose: eccoci allora proiettati in un feroce muro di suono fatto soprattutto di chitarre incontinenti che spadroneggiano sul basso e la batteria, che comunque quando vuole martella; un muro in cui regnano un caos e una desolazione che si lasciano interpretare dall’umano solo grazie allo sporadico innesto di voci comunque incomprensibili e distorte, in un incedere abissale che soltanto di rado (soprattutto a partire da Dark Space III) si presta a quelle fascinazioni psichedeliche, ambient o addirittura melodiche che nel cosmic black metal hanno trovato maggior spazio altrove. Benché ognuno degli album incisi dal trio svizzero sia diverso dagli altri, con tratti ben precisi che lo distinguono, l’impressione è di trovarsi al cospetto di un’unica estesissima scrittura.
Una scrittura che oggi, a dieci anni dalla pubblicazione di Dark Space III I, vede aggiungersi un nuovo angoscioso capitolo. Si tratta di Dark Space -II, disco che ne sancisce il passaggio all’etichetta francese Season of Mist e vede subentrare un altrettanto misterioso Yhs in luogo della storica Zorgh separatasi nel 2019 e oggi vagante chissà in quale angolo oscuro del cosmo.
Non abbiamo (o forse soltanto non abbiamo trovato) alcuna dichiarazione della band che ci abbia aiutato a capire il perché di questo cambiamento nella numerazione degli album, che invece di procedere innanzi arretra nella sequenza inaugurata con la demo del 2002: al riguardo possiamo solo attendere cosa sarà in futuro e congetturare. Sappiamo però che il disco in questione, con il suo unico brano (Dark -2.-2) che si estende ininterrotto per 47 minuti e 11 secondi, è una nuova mazzata data non tanto alle nostre orecchie, quanto alla nostra coscienza: proseguendo in quel vago “addolcimento” che avevamo ascoltato a partire da Dark Space III, sfocia in buona parte in sonorità industrial che danno ampio spazio a un’ormai determinante strumentazione elettronica. Il disco (o il pezzo) si apre infatti con una lenta overture in cui sentiamo riverberi recitati da un’echeggiante voce femminile campionata. Accanto alla voce, un tappeto di sintetizzatori procede in crescendo facendosi pian piano forte della batteria e delle chitarre, fino all’introduzione di una seconda voce più tipicamente scream e di riff sempre più ossessivi, taglienti e ripetuti. È il preludio a una prima deflagrazione che, dopo essersi lungamente annunciata, si manifesta allargandosi fino al diciassettesimo minuto, quando l’incedere prende nuovamente a declinare verso monotoni tappeti di estesa desolazione e solitudine in cui della violenza degli sconvolgimenti astrali resta più che altro l’eco. Fino a poco oltre la mezz’ora, laddove le chitarre si fanno nuovamente marziali per annunciare un’altra lenta esplosione che si concretizza in un grave plateau di una decina di minuti, dal quale si va poi a digradare in un nuovo abbandono che declina definitivamente fino a raggiungere il silenzio. Ascoltato al confronto degli altri album, soprattutto dei primi due, Dark Space -II è forse il lavoro dei Darkspace che offre minore impatto fisico all’ascolto, di certo quello che si accomoda più degli altri nella ripetizione e nella distensione della vacuità caratteristica del cosmo, come se volesse rappresentare una parte del nostro viaggio siderale in cui la magnificenza degli sconvolgimenti astrali si interrompe temporaneamente, per dar conto soprattutto dell’assenza di materia e del senso di inquietudine che ne consegue. Dopo quest’album, a cui forse un giorno penseremo come a una sorta di intermezzo, resteremo in attesa del prossimo capitolo, che verrà magari tra altri dieci o quindici anni. Non importa quanto: si tratta comunque di tempi piuttosto brevi, tempi ancora umani, ben lontani da quelli smisurati che scandiscono la vita, o meglio la morte, nel vuoto cosmico.
- Arcturus, Aspera Hiems Symfonia, Ancient Lore Creations, 1995.
- Darkspace, Dark Space I, Haunter of the Dark, 2003.
- Darkspace, Dark Space II, Haunter of the Dark, 2005.
- Darkspace, Dark Space III, Avantgarde Music, 2008.
- Darkspace, Dark Space -I, Avangarde Music, 2012.
- Darkspace, Dark Space III I, Avantgarde Music, 2014.
- Emperor, In the Nigthside Eclipse, Candlelight Records, 1994.
- Limbonic Art, Moon in the Scorpio, Nocturnal Art, 1996.