pp. 270, € 15,90
“Alla cieca nella notte senza vita”, così è stata tradotta nel testo italiano del romanzo Il pianeta di ghiaccio di Maggie Gee, la frase “Blindly through life’s night”, un concetto che attraversa molte delle sue opere; un procedere incerto provocato da una serie di tensioni che scuotono l’essere umano durante una vita segnata dalle complessità dei rapporti affettivi, dall’aggressività dei sistemi sociali e dal loro allontanamento da ogni progetto ideale, fino al rivelarsi di dipendenza totale e inerme dalla natura.
Durante la narrazione ognuna di queste tre dimensioni si degrada lentamente nell’esistenza dei protagonisti, mettendo a nudo coppie in crisi, genitori e figli, anziani avviati verso una fine della vita che è prima psicologica che biologica.
È una scrittura osservatrice, un occhio e un orecchio che seguono la vita quotidiana e i pensieri, trascrivono relazioni e intrecci, registrano perplessità, illusioni e fallimenti.
Il risultato della miscela tra le vicende che si intrecciano e la consapevolezza della scrittrice, sempre presente nel riportare pensieri e riflessioni, fornisce una sorta di quadro naturale che proietta la vicenda umana sullo sfondo della natura.
Drammi e tragedie della nostra società sono sempre misurati dalla presenza incombente della natura con la sua complessità, suggerendo che questa scrittura si vuole assimilare a quella scientifica in cui l’osservatore gioca un ruolo importante ma definito.
Maggie Gee apporta una continua opera di contrapposizione tra la tragedia umana e quella cosmica, tra il dolore delle persone e l’insieme di leggi superiori che determinano l’esistere delle stelle, il propagarsi della loro radiazione in uno spazio dagli echi einsteiniani e il comportamento del pianeta, con le sue manifestazioni climatiche.
È Anni luce, del 1985, il romanzo in cui Maggie Gee inizia a sondare quella sua scrittura che ha l’approccio della filosofia naturale, ovvero cerca di organizzare i dati dell’esperienza umana alla luce della cultura scientifica, smontando e rimontando gli affetti attraverso l’analogia che rapporta il tempo effimero delle persone con quello inconcepibile del cosmo.
Il suo cielo assomiglia a quella concezione pre-galileiana che prevede un mondo perfetto, quello delle stelle fisse, con le sue leggi armoniose, e il mondo materiale e corruttibile dell’umanità sublunare.
Non sembra esserci rapporto tra la fredda perfezione cosmica e le difficoltà umane. “Siamo una specie orribile”, proclama uno dei protagonisti, a sottolineare, fino dalle prime pagine, la situazione di sconforto che caratterizza la rete di affetti su cui si sviluppa il romanzo. I pensieri, che si affiancano frequenti alle descrizioni e ai dialoghi, emergono per rappresentare la finzione continua in cui i personaggi vivono ed evolvono i propri rapporti.
Questa continua simulazione della verità, in cui i pensieri si contrappongono ai dialoghi, è il vero tessuto della condizione umana, un continuo mentire contraddicendo sé stessi. Un mondo entropico di questo genere, che dissipa ogni energia affettiva disponibile, procede inesorabilmente verso una catastrofe che si profila, contemporaneamente, umana e planetaria. Anni luce prosegue, anche se Maggie Gee nega che si tratti di una trilogia, con The White Family e Il diluvio.
“In realtà devo spiegare che non si tratta di una trilogia, almeno non esattamente. Mentre stavo scrivendo Il diluvio il mondo mi sembrava molto instabile e minaccioso, soprattutto a causa dell’invasione in Irak che stava per iniziare; così presi una decisione, volevo costruire un’arca nella quale avrei tentato di salvare alcuni personaggi dei miei libri, mettendoli assieme, così ho costruito un mondo letterario in cui ho riunito elementi tratti dalle mie opere. Ho fatto proprio questo, ho richiamato alcuni dei miei personaggi da ognuno dei miei sette romanzi precedenti e li ho collocati nella nostra epoca, calcolando le età che avrebbero avuto nella data in cui si svolgeva Il diluvio. Sono stata attenta all’età che avevano nei loro romanzi di origine, e una parte del lavoro che ho fatto per scrivere Il diluvio è stato di rendere plausibile l’intreccio delle loro vite, sebbene quando avevo scritto i romanzi in cui erano stati inventati non avevo alcuna idea di un loro possibile futuro. È stato un impegno affascinate, difficile e straordinario, e che correva parallelo alla costruzione del filone narrativo principale del romanzo. Tuttavia nei due libri che scrissi in seguito, My Cleaner e My Driver, pubblicati successivamente a Il diluvio, sono presenti meno personaggi provenienti dai miei precedenti mondi narrativi. Tuttavia devo fare attenzione a non immergermi eccessivamente nel mio mondo letterario e dimenticare il lettore. Non tutti hanno letto i miei romanzi precedenti, così ne Il diluvio, come accade negli episodi dei serial televisivi, ho raccontato tutto quello era necessario conoscere riguardo questi personaggi” (Gallo, 2009).
Se The White Family spicca per la sua crudezza nel descrivere i conflitti generazionali, l’emarginazione, l’arretramento economico e il razzismo, è Il diluvio a offrire una profonda critica politica del presente attraverso l’allegoria e la fantascienza. Pubblicato nel 2004, il romanzo si colloca nel pieno del decennio di Tony Blair ed è, probabilmente, una delle critiche più radicali che il mondo della cultura abbia recapitato al principale smantellatore della sinistra britannica. Nel rispetto della tradizione della letteratura distopica inglese (Aldous Huxley, George Orwell, Anthony Burgess), la trasposizione fantascientifica consente di radicalizzare ulteriormente il contesto che aveva sviluppato nei due romanzi precedenti.
Consapevole del rapporto che intercorre tra la tra la vita interiore e la società in cui si vive, sembra che Maggie Gee abbia intrapreso il modello della fantascienza per creare un contesto in cui le vicende dei protagonisti fossero ancora più dure, più al limite. Seguendo il gioco distopico di un leggero mascheramento, la Gran Bretagna si chiama Esperia e Tony Blair assume le sembianze dell’ambiguo Mister Bliss. Inoltre, Maggie Gee pone sullo sfondo una guerra contro un paese islamico, una guerra assurda di cui non si comprendono le ragioni e che viene vissuta e assimilata quasi subliminalmente attraverso l’effetto fuorviante dei media, offrendo un tributo letterario sia alle guerre e alle alleanze mobili tra Eurasia, Estasia e Oceania di Orwell, sia alla nostra crudele realtà che vede accendersi e spegnersi conflitti nell’area africana e mediorientale destinati rapidamente all’oblio.
Se il protagonista de Il diluvio è l’anziana May White, una vedova capace di assaporare la realtà attorno a sé con straordinaria lentezza, posando il suo sguardo delicato sulle cose e sulle persone, attorno a lei si muove, anzi danza e pulsa, una rete di personaggi uniti da complessi rapporti e tale da fornire lo spaccato sociale dell’intera società inglese. Ma guerra e totalitarismo mediatico non sono sufficienti alla scrittura che Maggie Gee vuole raggiungere; Londra è biblicamente flagellata da una pioggia continua, le strade sono allagate e molti palazzi si ergono come faraglioni sull’acqua sporca, rievocando la Londra tropicale del romanzo di James G. Ballard, Il mondo sommerso (1962).
Barche e traghetti s’insinuano tra il fiume e le strade, mentre il traffico delle automobili si ripiega su se stesso, giorno dopo giorno. La catastrofe del diluvio si pone come un monito incessante, come una critica della natura al modo di vivere dell’umanità, sottolineando la follia del consumismo, condannando il millenarismo delle sette e il fondamentalismo dei governi e delle religioni. Quella natura che era indifferente in Anni luce si sta progressivamente avvicinando al brulicare di vita sulla superficie della Terra.
La congiunzione tra distopia e catastrofe è declinata da Maggie Gee in maniera originale rispetto alla tradizione inglese.
Nel suo caso non si tratta di un’istituzione totalizzante, di un disciplinamento delle persone ottenuto attraverso la violenza, la coercizione e la propaganda, è piuttosto il declino progressivo, l’arrendersi alla complessità, il rarefarsi del progetto politico. In luogo della disciplina e dell’invasione della sfera personale da parte di un potere che controlla ogni aspetto della vita quotidiana, assistiamo al lento crollo del welfare e dell’idea stessa di comunità e di rappresentanza.
A ben vedere Memorie di una sopravvissuta (1974) di Doris Lessing, quando descrive un’inconcepibile fuga dalla metropoli, intuisce le forme dell’evoluzione sociale che staranno alla base di alcuni romanzi di Maggie Gee.
In entrambi i casi si tratta di una catastrofe sottile, una rottura degli equilibri che si è diramata con lentezza e che le persone hanno cercato prima di ignorare e poi hanno tentato di convivere. Se il totalitarismo descritto da Orwell vive di riti collettivi e richiede un’adesione assoluta e biologica al potere, in cui l’individuo deve annullarsi completamente, Lessing e Gee hanno scritto di forme più sottili e difficili da individuare. Ma l’inondazione di Londra è lo scatenarsi della natura attraverso uno tsunami improbabile quanto spaventoso, capace di scatenare sull’opulenta quanto marginalizzante società inglese una violenza cieca e ingiusta che cita ed evoca le tempeste di fuoco e di acciaio, ma che è estremamente simile ai bombardamenti occidentali che si abbattono sulle città e sui villaggi del Medio Oriente.
Ciò che colpisce nelle pagine finali de Il diluvio è proprio la sproporzione di forza che si abbatte su una donna e due bambini, e che li sommerge all’improvviso, esattamente come può apparire assurdo un missile che si abbatte su un’abitazione civile o una bomba intelligente che devasta un ospedale.
Questa sproporzione tra forza devastatrice e vita delle persone è, forse, l’elemento più intenso del romanzo, capace di mostrare la fragilità della società umana e dello stesso potere. Del resto, nonostante le inondazioni, il governo, che vuole far dimenticare la guerra, e che accusa un piccolo paese islamico addirittura di avere provocato il cambiamento inglese, organizza tra le acque un assurdo Gran Gala in cui riunisce le personalità dei media e del governo per un ultimo tentativo di esorcizzare la catastrofe. Questa visione forse anarchica, capace di mostrare la futilità delle élite e di denunciare l’irrazionalità della divisione sociale e religiosa, mostra un potere manifestatamene incongruente, ma che, nonostante questo, riesce nella sua manipolazione quotidiana del vero. E in questo aspetto il richiamo a Orwell è preciso quanto tragico. La guerra in Irak ha ricalcato, senza neppure troppi tentativi di nascondere, il paradosso orwelliano del Grande Fratello e della brutalità dei suoi slogan.
Ma il romanzo in cui Maggie Gee espone più direttamente le sue idee sul potere è Il pianeta di ghiaccio, pubblicato nel 1998. Situato al centro della sua produzione letteraria, si tratta di una storia di fantascienza molto impegnata politicamente, ecologica e pienamente calata nei canoni allegorici del genere. La trama si muove lungo tre direttrici fondamentali, in costante interazione, che sono in grado di dispiegare una tragedia totale: affettiva, politica ed ecologica.
Il romanzo descrive un cambiamento climatico che coinvolge la Terra durante la metà del ventunesimo secolo. Prima un riscaldamento progressivo provoca in Inghilterra un periodo tropicale, poi un improvviso e veloce raffreddamento spingerà il nord del mondo in una drammatica glaciazione. Una coppia con un figlio attraversa, durante l’arco della propria vita, le trasformazioni climatiche e le conseguenze sociali, politiche e psicologiche che seguono questo radicale cambiamento dell’habitat.
Le vicende sono raccontate da Saul mentre bivacca tra le gelide mura di un aeroporto abbandonato, attorno a lui si muovono ragazzini ridotti allo stato quasi selvaggio che, radunati in piccole bande, depredano quando è rimasto della opulenta e arrogante Gran Bretagna. È l’unico vecchio in quella comunità, l’unico che è in grado di raccontare la storia dall’inizio, che ha vissuto “giorni interessanti”, così non viene “terminato” in cambio delle sue storie.
Lo chiamano il Cantastorie, il Guardiano delle Colombe, il Massacratore di Lupi, l’uomo divenuto, nell’ultima parte della propria esistenza, memoria orale della nostra civiltà; racconti di un’epoca rapidamente decaduta e dimenticata. Dalla sua voce si ricostruisce la sua storia e quella dell’intera umanità. E la storia inizia nel 2005, nei sobborghi di Londra, all’inizio del Tropical Time, alla nascita di Saul.
Figlio di un’infermiera che pratica l’eutanasia in una delle Last Farewell Home e di un poliziotto, Saul ha un nonno emigrato dal Ghana, quindi, tecnicamente, ha un quarto di sangue africano nelle vene. Attorno a lui, a causa del riscaldamento, è esplosa la furia di un’emigrazione che dall’Africa spinge verso l’Europa, “gente dalla pelle scura, sudata e furiosa, che maltrattava i funzionari dell’ufficio immigrazione, gridando e bestemmiando, con le bocche nere aperte”.
Il piccolo Saul odia i negri, si chiede perché debbano venire in Inghilterra, essendosi fatto un’idea dai media che si trattava di “gente bugiarda e scroccona” che avrebbe ridotto in povertà la sua famiglia per sempre, costringendo la madre a rivelargli l’origine africana. Sono le prime pagine del romanzo, e già siamo di fronte al primo cambiamento prospettico, il protagonista non è bianco (ricordiamo le ambiguità di The White Family) né nero, è un meticcio che non può appartenere completamente a nessuna delle due etnie in conflitto, e la storia lo porrà continuamente in posizioni particolari in cui sarà in grado di scrutare entrambe le polarità dei contrasti radicali che costituiscono la trama.
Attorno a lui il progressivo smantellamento del welfare state del progetto thatcheriano si è sviluppato fino a una rarefazione dei servizi pubblici e al ritirarsi delle funzioni governative. La società descritta da Maggie Gee non reagisce, si adatta, sceglie posizioni residuali, si frammenta verso l’individualismo assoluto (che poi rappresentava la nefasta utopia di Margaret Thatcher declinata abilmente da Tony Blair), non è in grado di affrontare il riscaldamento mentre le scogliere di Dover crollano per la mancanza di interventi statali di contenimento dell’erosione. “La terra di Euro andò in rovina (…). Ci furono tre anni di pestilenze che chiusero le frontiere, una nuova varietà di Ebola e una malattia del sonno emorragica; estati incandescenti in cui i virus prosperarono e l’ordine pubblico non riuscì a reggere alla pressione, mentre centinaia di persone morivano, sanguinanti, nelle proprie case, intasando le strade che conducevano agli ospedali.” Il governo britannico cade e non viene neppure rimpiazzato.
Associata alla tropicalizzazione si diffonde una forma di sterilità associata a un fenomeno sociale di estremo interesse: la “segregazione”. In paradossale analogia con le società della discriminazione razziale, l’Inghilterra del 2030 vede svilupparsi una volontaria separazione tra i sessi sempre più radicale e aggressiva.
All’inizio sono i giovani a formare spontaneamente gruppi esclusivi sulla base dell’appartenenza sessuale, poi la filosofia della “seg” si diffonde tra gli adulti. Il rapporto tra clima, modelli sociali e comportamenti individuali che la fantascienza ha spesso descritto ha ne Il mondo sommerso di James Ballard un riferimento obbligatorio, come la distopica visione della infertilità rimanda a Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood.
La società neoliberista appare estremamente fragile e i rapporti sociali che la costituiscono non sono certo adatti a resistere ai cambiamenti dell’habitat; il rapporto tra cittadini e stato si dissolve, la perdita di fiducia nelle istituzioni è totale. Saul, che a differenza di altri ha un lavoro ben retribuito nel settore delle tecnologie, si illude di poter fare da sé, incarnando lo statuto thatcheriano secondo cui “la società non esiste”, conserva l’ottimismo mentre poco lontano da lui i servizi crollano: la metropolitana rimane ferma per un anno, gli ospedali sono ingolfati, molti quartieri diventano pericolosi. Ma, nelle zone ricche come quelle dove abitano Saul e Sarah, “la vita va avanti come al solito”.
Questo dissolvimento della società e del loro modello di rapporti è stato l’occasione per le scrittrici donne di approfondire sogni e incubi di una società non patriarcale o, al limite, non antropocentrica.
Oriana Palusci, nel suo saggio intitolato Terra di Lei e dedicato alla fantascienza femminile, introduce il concetto di “feminist fabulation”, indicando una metanarrativa che si propone lo scopo “di smascherare, più con l’ironia e la satira che con atteggiamenti declamatori, le basi fittizie su cui è costruito il sistema patriarcale” (Palusci, 1990).
La letteratura anglosassone, permeata di utopia, positiva o negativa che sia, e ricordiamo V come Vendetta di Alan Moore (1985) a dimostrare come questa spinta libertaria non sia affatto conclusa, trova proprio in Maggie Gee una delle voci esplicitamente critiche.
Tornando a Il pianeta di ghiaccio, è interessante seguire il percorso della “feminist fabulation”, segnalando subito come l’autrice non riprenda una teorizzazione femminista del mondo migliore, non-violento, armonioso ed eco-compatibile tipico delle utopie yin (come le ha definite la scrittrice Ursula Le Guin), per proclamare un esplicito pessimismo verso un futuro di separazione sessista, di incapacità delle donne e degli uomini di condividere un progetto per il futuro.
Anzi, tra Saul e Sarah, la coppia protagonista del romanzo Il pianeta di ghiaccio, è proprio l’uomo a risultare più positivo e sensibile, ricco di contrasti e paure, abbandonato in un mondo impazzito senza una teoria in cui credere, spaventato dall’involuzione del mondo in cui vive.
La scelta di Maggie Gee è di raccontare la vicenda dal punto di vista di Saul e di concentrare su di lui una serie di elementi narrativi atti ad aumentare la drammaticità.
Saul e Sarah non riescono ad avere un bambino, ma per loro, persone ricche, sono a disposizione tecniche all’avanguardia contro la sterilità. Con la nascita del figlio Luke, Sarah si allontana progressivamente da Saul per avvicinarsi alla vita comunitaria di un gruppo politico oltranzista di sole donne, fino ad abbandonarlo e a portare con sé il figlio in una comune.
Abbandonato, la vita di Saul si degrada progressivamente, costretto dalla solitudine a frequentare i club degli uomini, fino a diventare dipendente dalla compagnia di un essere domestico dotato di sensibilità artificiale, una “colomba”.
Intanto l’esperienza politica femminile delle comuni si evolve nel Wicca World, il partito parafascista delle donne che vince le elezioni inglesi contro il blocco Liberal-Laburista-Conservatore a fronte di un astensionismo di massa degli elettori maschi, regrediti nel cameratismo e nel bullismo più deteriore.
Inizia così una strisciante dittatura tesa a emarginare gli uomini da ogni decisione politica e ad allontanarli dai loro figli. Ma l’arrivo della glaciazione rende tragicamente effimera la funesta utopia sessista, il nuovo governo è incapace di affrontare le emergenze derivanti dal cambio del clima, e il protagonista, dopo aver rapito il figlio con un’azione violenta da una delle roccaforti di Wicca World, “un orribile nido gestito da donne”, inizia un viaggio a ritroso verso l’Africa, che si fermerà in Spagna, nella speranza di riuscire a raggiungere una zona temperata in cui poter vivere.
Una migrazione di massa a cui i paesi africani si oppongono chiudendo le frontiere ai disperati del nord minacciati dalla fame e dal gelo.
Saul, grazie al sangue del nonno ghanese, ha la possibilità di essere accettato in Africa, una salvezza riservata solo ha chi possiede una parentela nera.
Molti elementi narrativi portano a interpretare Il pianeta di ghiaccio come un raffinato mondo alla rovescia alla Jonathan Swift, dove il sessismo di Wicca World ammicca alle anacronistiche posizioni maschiliste della politica populista conservatrice e il gioco a rovescio della migrazione verso sud come una severa legge del contrappasso per le nostre frontiere chiuse ai disperati dei paesi del sud del mondo che cercano solo di sopravvivere.
Il pianeta di ghiaccio, romanzo d’amore e di fantascienza, si chiude con l’incontro, dopo molti anni, tra Saul e Sarah. Nel 2064, all’interno della National Gallery, due anziani si danno appuntamento; nelle sale sono scomparse le statue di soggetto maschile distrutte dalla furia di Wicca.
Il governo delle donne è caduto, solo qualche linea aerea privata è ancora in funzione e il museo simbolo della potenza britannica è ancora aperto, protetto da guardie armate. Fuori infuria la bufera, le strade sono ghiacciate, il traffico quasi scomparso. Si siedono davanti The Close of the Silver Age, il quadro Lucas Carnach il vecchio, per scambiarsi il riassunto delle loro vite. Il racconto del Cantastorie si è concluso, la scena ritorna all’ambiente dell’inizio, l’aeroporto abbandonato invaso dal ghiaccio. Un’epoca si è conclusa, tocca ai wild children affrontare il mondo che è cambiato senza alcuna memoria del passato.
Il Pianeta di ghiaccio è un romanzo denso in cui Maggie Gee ha sviluppato i temi della distopia, dell’ecologia e della vita artificiale in quello che è uno dei più riusciti e profondi testi di fantascienza degli ultimi anni, e la sua originalità consiste nella visione di una crisi totale e nella comprensione dei profondi legami che collegano ambiente, società e individuo.
Anche se i diversi temi scorrono paralleli, è da subito evidente che ci troviamo di fronte a una macchina narrativa unitaria in cui la stessa biologia degli esseri umani è in risonanza con quella fredda vita del cosmo solo apparentemente lontana. In questa storia di radicalizzazioni politiche e affettive, il cosmo, in qualche modo, ha interagito con la società egoista della distopia thatcheriana, e la Terra allarga la propria orbita intorno al sole provocando la nuova glaciazione.
Le assonanze bibliche sono frequenti, a partire dal nome di Saul, il re di Israele che segna il passaggio tra la società tribale a quella caratterizzata da un’organizzazione statale.
Il Saul del romanzo, invece, sta raccontando il regredire del mondo occidentale. L’intensa storia di amore tra Saul e Sarah, incomprensibilmente legati mentre la Storia impazzisce attorno a loro, tuttavia protagonisti di una guerra tra i sessi paradigmatica, radicale e violenta, si sviluppa nell’indifferenza del degrado sociale che colpisce le periferie e le classi più povere.
Lo sfumato potere centrale britannico, sempre più debole, costituisce il reale elemento distopico del romanzo nella consapevolezza che non ci sarà nulla in grado di sostituirlo.
È l’esplicitazione di un paradosso in cui l’inevitabile implosione e l’estinzione della rappresentanza rappresentano l’estremo pessimismo della visione politica del romanzo non la vittoria. In un’intervista, Maggie Gee dice:
“Io credo che la democrazia sia la migliore tra tutte le forme di governo sbagliate. Il problema è che la parte migliore della società non vuole avere niente a che fare con la politica e si tiene lontana dalle espressioni del governo, così la parte peggiore riesce a esercitare un monopolio. Una politica più modesta sarebbe meglio, ma nessuna nazione ha il coraggio di tornare indietro. Potrebbe essere che la società de Il pianeta di ghiaccio riesca a diventare più semplice. Comunità più piccole come quelle che l’Inghilterra sta stupidamente abbandonando per seguire lo stupido mantra della crescita economica, invece di produrre autonomamente il proprio cibo… Abbiamo dimenticato tutto questo” (Gallo, 2009).
LETTURE
–– Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, Ponte alle Grazie, Milano, 2017.
–– James G. Ballard, Il mondo sommerso, Baldini & Castoldi, Milano, 1998.
–– Sarah Dillon e Caroline Edwads (a cura di), Maggie Gee Critical Essays, Gylphi, Canterbury, 2015.
–– Domenico Gallo, Intervista a Maggie Gee, Pulp Libri n. 78, Pavia, 2009.
–– Maggie Gee, Il Diluvio, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2005.
–– Maggie Gee, Anni luce, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2007.
–– Maggie Gee, The White Family, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere, 2010.
–– Mine Ozyurt Kilic, Maggie Gee. Writing the Condition of England Novel, Bloomsbury, Londra, 2013.
–– Alan Moore e David Lloyd, V for Vendetta, Milano Libri, 1994.
–– Oriana Palusci, Terra di Lei, Tracce, Pescara, 1990.