“There was a boy / A very strange enchanted boy / They say he wandered very far, very far / over land and sea”. Basterebbe prendere in prestito queste strofe cantate da Nat King Cole in Nature Boy (1947) per raccontare chi era Roald Dahl.
Quattro anni fa cadeva il centenario della sua nascita e per esplorare la sua vita che ha il sapore dell’avventura africana, dello spionaggio americano, del glamour hollywoodiano, basta scrivere il suo nome su un motore di ricerca e leggere i vari articoli a lui dedicati, al suo ruolo nella Royal Air Force britannica, al suo incidente in cui rischiò vista e vita, alle sue tragedie familiari, al suo scoprirsi tardivamente come scrittore, alla sua fortuna come sceneggiatore, alle sue lotte per farsi comprendere e al suo lavoro persino nell’ambito medico-ingegneristico e, infine, alla sua morte riservata. Se invece si è curiosi di quello che fu prima di essere, come dice lui, “un felice uomo d’affari” (Dahl, 2019), vi è Boy, la sua (non) autobiografia dove raccontò i suoi primi vent’anni e dove un attento e anche disattento lettore può capire e comprendere da dove arrivi parte dello spirito e dell’essere del Roald Dahl scrittore, adulto, ma non troppo.
Il 2020 è l’anno del trentennale della sua morte. Si è soliti celebrare i cent’anni dalla nascita o dalla morte, invece dei trent’anni, “tanti se si pensa al liceo, niente rispetto alla vita” (Manzini, 2020), un solco che non viene considerato, un piccolo fosso da saltare per proseguire verso l’essere definitivamente considerato un adulto. Ci sono persone che hanno trent’anni già a diciotto e altri che non li raggiungono mai, nemmeno a cinquanta, ci sono persone che vogliono essere grandi e altri che hanno paura di esserlo, ci sono persone, volenti o nolenti, che per arrivare a trent’anni sono cresciute e altre che hanno sperperato il loro tempo. Tutte, comunque, arrivate a quella cifra, hanno il sentimento di stare per abbandonare qualcosa e di perdere, inequivocabilmente, una parte di sé.
È una prerogativa di questa generazione, quella precedente probabilmente vedeva nella soglia dei venticinque o dei venti lo scatto di anzianità, quella prima ancora, magari, la vedeva già a quindici e chissà se è vero che la prossima lo scatto lo sentirà a quarant’anni.
Sta di fatto che ora, in questo 2020 che già di per sé mette di fronte a un mondo che priva i giovani delle promesse e dei desideri da grandi sognatori (per non dire della calamità chiamata Covid-19), ecco che cade un compleanno che per molti è stato una scure affilata, la quale ha tranciato il passato dal presente, rischiando di estirpare il fanciullo tanto caro a Giovanni Pascoli. Beninteso, è una coincidenza che siano passati trent’anni dalla morte di Dahl. Non vi è nulla se non la pura casualità data dalla causalità, ma Dahl e un qualsivoglia trentenne con un lavoro precario hanno una cosa che li unisce: di essere stati entrambi a strange enchanted boy.
I bambini di allora, ora adulti, sono cresciuti con le storie e i pazzi mondi di Dahl e i suoi coraggiosi e bizzarri personaggi. Egli è riuscito a svolgere il ruolo di demiurgo, di creatore di mondi irresistibili dentro cui ogni lettore avrebbe voluto rifugiarsi, dove le fabbriche sono di cioccolato nel vero senso della parola e non tutti i giganti mangiano i bambini. Mondi pervasi da una visione manichea dove sono i grandi, per lo più, a essere maligni, gretti e stupidi (salvo dolci eccezioni come la nonna de Le Streghe o la maestra, omen nomen, Dolcemiele) e i bambini sono i veri custodi del bello, del buono, dell’immaginazione e della fantasia.
“Un adulto non mi darebbe mai retta, non avrebbe voglia di imparare. vorrebbe fare le cose a modo suo, non come dico io. perciò ho bisogno di un ragazzo”
(Dahl, 2018).
I racconti di Dahl sono indirizzati e pensati per un ragazzino da un ragazzino (nella sua non-autobiografia egli stesso si firma Boy), forse per questo e per il suo approccio ludico e spesso dissacrante verso l’età adulta, che fece molta fatica all’inizio a essere preso in considerazione. Anzi, Dahl fu criticato e osteggiato da quegli adulti che di letteratura per i ragazzi ed educazione si occupavano: genitori, insegnanti, bibliotecari. Tuttavia non parve pesargli. A lui interessava trasmettere l’amore per l’avventura, per le cacce al tesoro, per la fantasia più sfrenata, per i cioccolatini, i fantasmi, il nonsense e la magia, che forse. più di tutte, è la cosa più difficile da capire una volta diventati adulti.
“Al centro della sua scrittura per ragazzi c’era la necessità di aderire al loro mondo, non in un’accezione volutamente pedagogica che porta lo scrittore a finalizzare la storia verso un insegnamento, ma soprattutto per far gustare loro il piacere della lettura e la possibilità di farli entrare in mondi in cui l’immaginazione e la fantasia si mischiano con il grottesco, con il paradossale, come del resto accade sempre anche nelle fiabe della grande tradizione orale”
(Panzeri, 2016).
L’insegnamento della e alla vita che passa dunque attraverso il gioco, per preparare i bambini di oggi e trasformarli negli adulti di domani: “forti, equilibrati, fantasiosi, liberi, capaci di affrontare le frustate della vita a testa alta” (Ventavoli, 2019). Crescere vuol dire sbagliare (Rodari docet) e conoscere la paura, perché, come scrive Bruno Ventavoli, “solo chi sa spaventarsi diventa audace. Non chi sprezza il pericolo, o sostiene con banale pragmatismo che le streghe non esistono” (ibidem). Quello non significa crescere, significa invecchiare. Con queste premesse e queste promesse da eterno enchanted boy, Roald Dahl è assurto allo status di Mito. Nel suo saggio Mitologia a Bassa Intensità, Peppino Ortoleva scrive:
“in un ambiente saturo di informazioni è possibile anche al singolo o al piccolo gruppo scegliere, in un’offerta vastissima di racconti, i propri miti, e farlo provvisoriamente: we can be heroes, just for one day. In effetti un’altra tendenza proprio degli ultimi decenni è il carattere prevalentemente soggettivo della scelta delle storie a cui affidarsi”
(Ortoleva, 2019).
Ebbene, in un ambiente saturo di informazioni come quello attuale, è possibile pertanto che un piccolo gruppo, in tal caso i trentenni, abbia trovato nello scrittore un uomo eccezionale e, di conseguenza, un mito a bassa intensità, ossia capace di perdurare nel tempo, rimbalzando tra diversi mezzi di comunicazione (libri, serie televisive, film), proprio grazie alle sue doti mitopoietiche. I suoi personaggi sono essi stessi miti che tutti conoscono e hanno fortuna e lunga vita, al pari della Sirenetta di Andersen e del Pinocchio di Collodi. Si potrebbe esagerare e ipotizzare che i trentenni, i quali sono effettivamente cresciuti con le opere di Dahl, ma senza Roadl Dahl, abbiano contribuito a un “mito di gruppo”, miti che come precisa Ortoleva, sono scelti e fatti propri da pubblici specifici, che vanno dalle comunità di fan ai lettori appartenenti a specifiche generazioni.
Le sue opere vengono lette dai neo-genitori ai figli, così come loro li leggevano da bambini. A volte il libro è lo stesso, a volte impreziosito da ri-edizioni bellissime come quelle de Gli Istrici, la collana di romanzi per ragazzi di Salani (non dimentichiamo le immortali illustrazioni di Quentin Blake!); in ogni caso i suoi racconti sembrano aver preso il loro posto vicino a racconti eterni come Peter Pan e Alice nel Paese delle meraviglie. Se vi rimarranno non si sa, solo il tempo potrà dirlo. Nel frattempo, però, permettono a qualche adulto di smettere per qualche ora di crescere, che a invecchiare si può iniziare domani.
- Roald Dahl, La fabbrica di cioccolato, Salani, Milano, 2018.
- Roald Dahl, Il GGG, Salani, Milano, 2016.
- Roald Dahl, Matilde, Salani, Milano, 1996.
- Roald Dahl, Boy, Salani, Milano, 2019.
- Antonio Manzini, Ah l’amore l’amore, Sellerio, Palermo, 2020
- Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi, Torino, 2019.
- Fulvio Panzeri, Roald Dahl, i bambini presi sul serio, Avvenire.it, 11 settembre 2016.
- Bruno Ventavoli, Roald Dahl, la paura si prende a schiaffi, La Stampa.it, 25 aprile 2016.