Sfruttando un diffuso escamotage letterario, proviamo a fare un breve viaggio nel tempo, e curiosiamo nella vita di un lettore, appassionato di fantascienza nel 1986. Un momento atteso con trepidazione era probabilmente quello in cui nella cassetta della posta avrebbe trovato il Cosmo informatore, una fanzine per addetti ai lavori che l’Editrice Nord inviava ai suoi lettori, e in cui si potevano reperire le nuove proposte editoriali e qualche notizia dal cuore dell’impero, ovvero dalla fantascienza anglosassone. Certamente non si trattava dell’unico strumento a disposizione del nostro accanito lettore, per quanto fosse probabilmente quello più diffuso, in termini propriamente quantitativi.
In quegli anni il mondo della SF italiana aveva già visto nascere e morire la prima serie di Robot (oggi risorta più bella che mai), così come Un’ambigua Utopia, rivista e collettivo su cui si è tornati a discutere ampiamente negli ultimi mesi.
Il nostro lettore quindi probabilmente, oltre ai classici della golden age, aveva già avuto modo di leggere le opere di Philip Dick, di James G. Ballard, di Samuel Delany, di John Brunner, di Ursula K. LeGuin, per citare alcuni dei nomi di punta delle avanguardie degli anni Settanta; eppure in quell’anno il suo orizzonte letterario (e fantastico) a partire dalla sua casella della posta e dal Cosmo informatore, avrebbe visto accendersi una fiamma senza precedenti. Il numero 80 della collana principale dell’Editrice Nord, la Cosmo Oro, quell’anno presentava l’esordio nel romanzo di un autore quasi sconosciuto, salvo che per alcuni racconti, letti in lingua originale solamente dagli addetti ai lavori. L’autore era William Gibson, il romanzo Neuromante e la fiaccola il cyberpunk, e nulla sarà più come prima.
Andata e ritorno tra futuro e presente
Grazie alla nostra Delorean ritorniamo al presente e scopriamo che quest’anno, 2021, oltre trentacinque anni dopo questo esordio e in attesa della traduzione italiana del più recente romanzo di Gibson, Mondadori ha mandato alle stampe un poderoso volume dedicato al Cyberpunk, in cui sono contenuti tre dei romanzi cardine del filone, ovvero lo stesso Neuromante, La Matrice Spezzata di Bruce Sterling (uscito nel 1985 e l’anno dopo in traduzione italiana) e Snow Crash di Neal Stephenson (del 1992, poi tradotto da noi nel 1995). A questi si affiancano una nuova traduzione di Mirrorshades, la prima antologia di racconti dedicata al cyberpunk, anch’essa risalente al 1985, e una nuova introduzione a firma dello stesso Bruce Sterling, oltre a una postfazione di Francesco Guglieri. Al di là dell’interesse puramente storico che si riscontra in una nuova edizione, senza dubbio celebrativa del movimento, è doveroso chiedersi con quale approccio ci si deve accostare oggi a un tale volume. Equivale a rileggere Jules Verne o H.G. Wells, ovvero i classici del genere? Ci si pone quindi in un’ottica di storia del fantastico? Come dice lo stesso Sterling nell’introduzione scritta appositamente per il volume, riferendosi ai testi qui riuniti:
“È bello che adesso siano manufatti storici, fossilizzati sulla pagina nella loro essenza. È divertente valutarli da un periodo culturale diverso”.
Domandarsi quindi quale taglio interpretativo si deve dare a una riproposizione di un modulo letterario come il cyberpunk non è una questione oziosa, e nemmeno vuole essere una critica riduttiva del ruolo avuto in passato, ma è cruciale per poterne stabilire l’attualità, per potergli dare il posto che gli spetta, almeno per quanto riguarda la sua ricezione in Italia. Il cyberpunk non è un genere come un altro, ma un perno intorno a cui ruota la ricezione del fantastico nel contemporaneo. È un punto di non ritorno, lo si è detto. Riproporlo oggi pone una domanda chiara a proposito della sua attualità, del suo essere uno sguardo sul presente e sui motivi per cui, bene o male, piaccia o meno, bisogna farci i conti. Sterling nell’introduzione ha ben chiaro questo quesito, e lo affronta con cognizione di causa, senza sottrarsi alle sue responsabilità di co-fondatore.
Un po’ di storia editoriale
Facciamo un passo indietro, e rivolgiamoci nuovamente al passato. Dopo quel fatidico Cosmo Informatore del 1986, il cyberpunk in Italia esplose. La serie di vettori che spinse la ricezione del movimento più di quanto fosse prevedibile è ampia, e si lega a molteplici fattori, politici e filosofici, oltre che letterari. Devono però passare otto anni per poter fissare un secondo punto fermo, e lo possiamo collocare nel 1994, quando sempre l’Editrice Nord pubblicò, nella collana Grandi Opere, un volume intitolato anch’esso Cyberpunk, a cui evidentemente si ispira quello odierno, e che conteneva ventotto racconti, scritti dal gotha della sci-fi che in quel momento era accostabile al movimento.
Nel frattempo, però Nord non fu l’unico editore a tradurre gli autori del filone, e tra questi spiccava per coraggio e lungimiranza la milanese Shake, che pubblicherà tra gli altri Neal Stephenson e Pat Cadigan, oltre ad alcune antologie rimaste nella storia e a tutt’oggi imprescindibili. Alla Shake, alla libreria Calusca e all’ambiente che vi ha incontrato, Sterling dedica un passaggio fondamentale nell’introduzione, riconoscendo di avervi trovato una sorta di mondo cyberpunk realizzato, qualcosa di simile a quanto previsto nei racconti e nei romanzi. Nello stesso modo riconosce il valore innovativo dell’odierno movimento connettivista e di altre realtà locali in cui si identifica.
Il volume del 1994 è però particolarmente importante per una corretta comprensione di quanto accadeva in quegli anni, perché rappresenta il principale tentativo in Italia, anche se non l’unico, di affrontare l’ostico argomento di una canonizzazione basata su di un approccio critico, e fondato, in ogni caso, su quanto era stato detto e scritto negli Usa. La curatela fu affidata a Piergiorgio Nicolazzini, all’epoca uno dei pilastri dell’editoria di fantascienza in Italia, e oggi uno dei più rinomati agenti letterari. La sua lettura, anche a quasi trent’anni di distanza ci permette di capire molto di cosa è stato e su cosa ha influito il cyberpunk nel corso del tempo. Si trattava di un tomo di poco meno di settecento pagine, ed essendo andato velocemente esaurito, quando fu ristampato dalla stessa Nord nel 2001 venne diviso in tre volumi più maneggevoli, e intitolati L’universo cyber. Sostanzialmente conteneva lo stesso materiale ma con alcune importanti differenze: due racconti in meno, uno di Greg Bear e uno di Lewis Shirer, e soprattutto la scomparsa di parte delle bibliografie annesse e dell’introduzione. Quest’ultima era di Larry McCaffery, che, insieme a Brian McHale, fu uno dei principali critici letterari che si erano rivolti alla letteratura degli anni Ottanta, dando vita al cosiddetto postmodernism e ai diversi filoni che nel tempo vi hanno fatto riferimento. L’introduzione, intitolata emblematicamente Il deserto del reale, era un estratto del suo Storming the reality studio: A casebook of cyberpunk and postmodernist fiction (Duke University Press, 1991), e aveva il grande pregio di illustrare l’ottica e la logica con cui la critica americana interpretò il cyberpunk.
Il vasto retroterra culturale
I riferimenti filosofici, letterari e cinematografici sono ampiamente esplicitati nella bibliografia annessa al volume, e tra questi emerge la forte influenza esercitata dai pensatori francesi: Jean Baudrillard, Jean-François Lyotard, Guy Debord (e sullo sfondo Michel Foucault e Gilles Deleuze), riletti attraverso il filtro dell’opera del filosofo americano Fredric Jameson (con cui tra l’altro in quegli anni si laurea anche Kim Stanley Robinson), mentre in letteratura i riferimenti erano William Burroughs e la letteratura hard boiled, ovvero Raymond Chandler e Dashiell Hammet. Inoltre, David Foster Wallace, Thomas Pynchon, William T. Vollman, Don DeLillo, per citare i più noti, rientravano nell’universo letterario di riferimento. Questi nomi, più molti altri provenienti dal mondo della science fiction in senso stretto sono contenuti nella bibliografia presente, e curata da McCaffery stesso.
Si tratta di Dick, John Brunner, Delany, Ballard, Alfred Bester, James Tiptree, ancora per citare solo i più noti, e a questi si affiancano molti nomi sia dal mondo della musica (Velvet Underground, Patti Smith, Sonic Youth, Throbbing Gristle, Sex Pistols) sia da quello del cinema (Ridley Scott, David Cronenberg, James Cameron). McCaffery è quindi sin dagli albori il principale sostenitore di una lettura filosofica e sociale del cyberpunk, che presenta come un genere a 360°, che spazia in ogni forma dell’arte e del pensiero, e inoltre che affonda le sue radici nella storia della letteratura fantastica, per gettare i frutti del suo immaginario ben oltre la sua stessa esistenza riconosciuta. In questo orizzonte in cui si collegano Mary Shelley e Jimi Hendrix vi sono delle influenze riconosciute ed effettive, ma molte rientrano in una determinata interpretazione del fenomeno cyberpunk, che andrebbe rivista anche alla luce del tempo trascorso.
William Gibson, ad esempio, riconosce in molte interviste il suo debito verso la letteratura hard boiled e nei confronti delle tecniche di scrittura di William Burroughs, ma il legame con Jameson e la sua rilettura dei filosofi francesi è forse più facilmente da intendere in senso contrario a quello che riteneva la critica postmodernista. In realtà nessuno degli scrittori cosiddetti cyberpunk fu influenzato particolarmente da loro, nemmeno i più coscienti della portata delle loro opere, bensì quello che accadde è in un certo senso l’opposto: a partire da un famoso intervento di Jean Baudrillard a un convegno a Palermo intitolato La Fantascienza e la critica, nel 1978, fu la filosofia che si servì dello sguardo degli autori di science fiction per decodificare un reale che ogni giorno di più sfuggiva alle loro categorie. Nicolazzini aveva ben presente questa lettura di McCaffery, allora dominante, e la fa sua, non preoccupandosi di definire nascita e morte di un movimento, poiché riteneva più importante far emergere il cyberpunk come un passaggio obbligato, una visione del mondo con cui si è dovuto fare i conti e di cui noi oggi dobbiamo classificare i frutti:
“Niente a che vedere quindi con presunti intenti celebrativi o mummificatori di un movimento estinto, ma la testimonianza di come l’addensamento irripetibile della metà degli anni ’80 abbia aperto quella molteplicità di strade, di esperienze, di scritture, che sono oggi l’immagine più vera del cyberpunk […]. Il cyberpunk esiste oggi nei suoi effetti, nella sua esplosione a raggiera, nel suo processo di disseminazione, come letteratura dell’immaginario che non rinuncia alle proprie risorse, anzi, vuole finalmente esplorarle tutte, consapevole che il presente non esiste, perché la realtà è comunque già dislocata nel futuro”
(Nicolazzini, 1994).
La storia della ricezione del cyberpunk e di ciò che ne nacque, a conti fatti è quindi un libro che deve essere ancora scritto. Soltanto oggi, a otto anni dalla scomparsa, si comincia ad analizzare con la dovuta serietà l’immane lavoro di Antonio Caronia e la sua riflessione su questi temi. Ancora da iniziare invece è un’analoga operazione per quanto riguarda Franco “Bifo” Berardi, che sul tema ha scritto diversi testi, molti dei quali oggi di difficile reperibilità, e il cui apporto alla ricezione del cyberpunk in Italia è determinante. Ciò che emerge è la estrema difficoltà insita nel tentativo di codificare ciò che accadde al mondo del fantastico nell’ultimo quarto del secolo scorso, anche e soprattutto perché nei vent’anni che seguirono e che ci portano fino all’oggi, ancora una volta cambiò tutto. Cosa è successo? È successo che il cyberpunk è diventato, come avrebbe detto Baudrillard, il simulacro di sé stesso.
Quanto fino a pochi decenni or sono rientrava nella sfera dell’immaginario oggi appartiene alla realtà quotidiana, e contestualmente si è creata una zona grigia, una fascia di trasmissione osmotica dove la tecnologia realizzata e quanto proiettato dal fantastico si mescolano e si confondono, influenzandosi reciprocamente e ricreandosi l’un l’altro senza interruzione. Ciò che oggi nella produzione letteraria viene definito cyberpunk, in realtà ne è solo un pallido riflesso, un debole rimando, inefficace per leggere il reale e ciecamente rinchiuso nella dimensione narrativa, confidando su quel fraintendimento che vede nella distopia una espressione del cyberpunk. Tutto ciò dimenticando il movimento degli esordi, che esondava continuamente nella realtà e in ogni altro tipo di espressione, influenzandole e trasformandole.
Cortocircuito temporale
Oggi quanto intuito nei primi romanzi e racconti si è nella sostanza realizzato, e noi viviamo immersi in quella connessione continua e costante che William Gibson ha chiamato cyberspazio, ma questo evento, per quanto chiaro e distinto ai nostri occhi, per essere analizzato deve essere calato nel contesto, sia in termini di datazione sia per quanto riguarda i contenuti caratteristici.
Il cyberpunk ha un rapporto complicato con la sua cronologia, sin dalle origini. Da un lato si tratta di una delle poche correnti ad avere una data di nascita e una di morte piuttosto precise, dall’altro è diventato poco più di un aggettivo, continuamente collegato impropriamente a romanzi e opere varie, che nei fatti nulla hanno a che vedere con la sua storia. Il termine cyberpunk venne usato per la prima volta da Bruce Bethke nel 1983 e venne poi ripreso da Gardner Dozois l’anno seguente, come ci racconta Lewis Shirer:
“La prima volta in cui è stato utilizzato il termine “cyberpunk” risale forse a un racconto di Bruce Betkhe che, proprio con quel titolo, fu pubblicato sul numero di novembre 1983 di Amazing Stories. Certo è che il suo ingresso ufficiale nel linguaggio corrente coincide con la volta in cui Gardner Dozois lo utilizzò in un articolo sul Washington Post del 30 dicembre 1984 […], SF in the Eighties. Con tale termine, Gardner descriveva autori come Bruce Sterling, William Gibson, il sottoscritto, Pat Cadigan e Greg Bear, e ci definiva «fornitori di materiale high-tech tosto e stravagante». Fu questa la prima occasione in cui il mondo dei non addetti ai lavori riconobbe l’esistenza di quello che io preferisco chiamare Il Movimento, così come lo qualificava John Shirley, con tutti i suoi sottintesi radicali degli anni Sessanta”.
(Shiner, 1992; trad. ns, ndr).
Ma, al di là di questi aspetti prettamente filologici, è alla convention di Austin, nel 1985, che il gruppo diede vita a un panel intitolato proprio Cyberpunk, e battezzando così il loro futuro. Paradossalmente, William Gibson in quell’occasione non poté essere presente, marcando, in un certo senso, una personale distanza da ciò a cui aveva contribuito in modo determinante a dare vita. L’ambiente di Austin, le diverse interazioni tra gli autori e i differenti ruoli nel gruppo sono raccontati da Sterling ancora nell’introduzione del volume Mondadori, anche se rileggendo oggi molti documenti dell’epoca vi sono alcuni punti ancora oscuri, diversamente da quanto emerge dal suo racconto, e che meriterebbero approfondimenti. Analogamente, la fine del cyberpunk è altrettanto databile, sebbene già contestualmente alla nascita in molti ne avevano rinnegato la collocazione, avvertendo come strette le maglie di una canonizzazione non voluta. In una intervista del 1986 proprio a Larry McCaffery, Gibson era perfettamente conscio di come il cyberpunk
“[è] soprattutto un fenomeno di marketing, il cui risultato, secondo me, banalizza il mio lavoro. Affibbiarmi questa etichetta è ingiusto, perché trasmette alla gente preconcetti su quello che sto facendo. […] Per la verità, il fenomeno del cyberpunk appare logoro. Le brutte imitazioni che circolano non fanno presagire nulla di buono dal punto di vista letterario”
(McCaffery, 2001).
In un articolo pubblicato sulla rivista Interzone nel giugno del 1991, e intitolato Cyberpunk negli anni Novanta, Sterling dichiara ufficialmente defunto il movimento (cfr. Sterling, 2001). Solo pochi mesi prima, il 7 gennaio, Lewis Shiner aveva pubblicato un articolo sul New York Times che già nel titolo mostrava integralmente la sua volontà di prendere le distanze dal collettivo: Confession of an Ex-Cyberpunk. Nel 1989, John Shirley, anticipando tutti, aveva pubblicato sulla rivista americana di fantascienza Science Fiction Eye un lungo articolo, intitolato Beyond Cyberpunk, in cui elencava le sue perplessità sullo stato del movimento. Nello stesso 1989 Lucius Shepard, su Wired intravedeva un destino hollywoodiano e legato alla moda per il movimento, nonostante Shepard definisca qui il cyberpunk come “la sola rivoluzione che abbiamo mai avuto in America”.
Si può quindi dire che per il cyberpunk si sono dimostrate valide le regole applicate alle varie avanguardie artistiche novecentesche, che hanno rifuggito ogni sorta di inquadramento e definizione, pena la morte come originalità e capacità di lettura della realtà. È doveroso notare come molti dei titoli a cui oggi viene collegato e attribuito l’aggettivo cyberpunk, sono stati scritti e pubblicati anche molti anni dopo, a conferma dei timori espressi e qui citati. Cosa ha prodotto questo slittamento ermeneutico? Per provare a chiarire questo passaggio è necessario affrontare non solo le dinamiche storiche, ma anche alcuni aspetti che riguardano valori e messaggi, il mondo di contenuti che emerge dal cyberpunk.
Anticipazioni del futuro quotidiano
L’idea di rete è uno dei due poli ideali intorno a cui il cyberpunk si è costruito. Parlare di network, di internet, per noi oggi è quotidianità spicciola, ma nel 1985 era un qualcosa completamente da inventare, e non solo banalmente in termini tecnici. Ciò che identifica la rete oggi è una presenza costante del soggetto nel cyberspazio, dove si muove in modo incessante, e in cui è totalmente integrato, sia per i motivi più futili come per i temi più profondi. Il fulcro di quella particolare esperienza che proviamo mentre siamo connessi continuamente è la trasformazione della relazione tra il soggetto e gli enti, così come risulta dallo slittamento di questo legame dal piano percettivo al piano del virtuale, dove l’individuo ha delle modalità di presenza che non sono le stesse del reale. Ma se in Neuromante erano dei soggetti particolari ad avere la capacità di connettersi, e lo status epistemologico e ontologico di Case era assolutamente individuale e unico, oggi anche un bambino di tre anni, banalmente attivando un profilo kids su Netflix e scegliendosi un avatar, può manipolare la sua realtà, ampliarla e costruirne degli aspetti più consoni agli obiettivi che si prefigge.
Il mondo virtuale in cui nasce il cyberpunk è un embrione di ciò che il mondo reale ci offre ininterrottamente in quanto utenti odierni. Anche se l’immersione totale del soggetto nella rete descrittaci in molti romanzi resta ancora lontana, fa parte del vissuto di ogni giorno il disincanto della coscienza, sentimento che riscontriamo quando il dato di realtà ci obbliga a riemergere, strappandoci dal virtuale in cui siamo affondati. Il mondo nato dalla fine del cyberpunk ha perciò ampiamente realizzato le ipotesi che lo avevano reso pensabile.
Corpo in mutazione: il tema del cyborg
Secondo polo dell’ellissoide cyberpunk è senza esitazioni il cyborg, e l’idea che ne consegue, ovvero la possibilità di modificare il corpo anche adattandolo alla sua mescolanza con la macchina, mentre ciò che si genera è sempre qualcosa di nuovo rispetto alle parti, e dove queste non possono mai tornare allo stato precedente l’evento. Si tratta di un ambito molto complesso, e autori come il già citato Caronia, Donna Haraway o Rosi Braidotti hanno lungamente e dettagliatamente approfondito questo tema. Tuttavia, si può intendere anche, ma non solo, come parte della teoria della complessità, della cibernetica, di ogni teoria sistemica, di ogni processo di autopoiesi, della robotica, dello studio delle reti neurali. Ciò che apprendiamo immediatamente dal cyberpunk è che il meccanismo per cui l’interazione con la macchina ci cambia è più subdolo di quello per cui noi siamo spinti verso la stessa, ma è altrettanto inevitabile.
Ogni volta che la nostra mente decide di interagire con la macchina, anche solo connettendo il soggetto alla rete, avviene un feedback, la macchina risponde alla sollecitazione e il nostro corpo ne esce diverso. Al nostro occhio di individui mentali queste dinamiche sono meno evidenti dell’immersione vissuta nella rete, ma continuamente subiamo un ritorno profondo che agisce sul nostro corpo e sul vissuto che ne abbiamo. Ovviamente non è questa la sede per approfondire tali temi, ma per restare alla fantascienza, che è qui oggetto di analisi, La Matrice Spezzata di Bruce Sterling, secondo dei romanzi contenuti nell’antologia, dimostra una capacità profetica e immaginativa senza pari proprio in merito alle infinite percezioni del corpo futuro.
Siamo quindi, anche dopo aver affrontato i contenuti, in una condizione difficile, e non riusciamo a dare risposte alle domande che caratterizzano un volume come questo. Come dice Francesco Guglieri nella postfazione al nuovo volume Mondadori:
“[…] ecco il paradosso: il cyberpunk viene visto con nostalgia, estetizzato – e quindi reso innocuo – come malinconico futuro mai realizzato. Questa vera e propria rimozione credo sia il nostro modo per esorcizzare una paura, per non fare i conti con la realtà: e cioè che quel mondo brutale, violento, «quell’esperimento deragliato di darwinismo sociale concepito da un ricercatore annoiato che tenesse un pollice in permanenza sul pulsante dell’avanti-veloce» (è Gibson in Neuromante) dei romanzi cyberpunk è il mondo in cui siamo immersi. È il nostro mondo”.
Poche righe dopo aggiunge:
“Allora come mai il cyberpunk […] continua a parlarci? Come mai quelle storie, quella volontà, quell’eccitata tensione continuano a interrogarci? Quale turbamento provocano, al punto da doverlo rimuovere e disinnescare dietro una nebbia di nostalgia retromaniaca?”.
La critica postmoderna risponde collegando tutto ciò con la scomparsa della realtà, e con il conseguente inevitabile annichilimento dell’immaginario. Oggi, a quarant’anni di distanza, emergono tutte le difficoltà insite in una tale lettura. Ma allora? Come mai il cyberpunk continua a presentarsi ai nostri occhi come un dirompente spazio di rinnovamento? Sterling, in uno dei passaggi più importanti dell’introduzione, evidenzia come la ricerca linguistica sottesa al cyberpunk avesse fondamenti molto precisi, e come nel gruppo fondatore utilizzassero per scrivere degli schemi (che lui chiama “trucchi”), e ne cita tre: la “crammed prose” (prosa sovraccarica), “eyeball kicks” (sballi ottici) e “inventory of perception” (inventario della percezione).
Nelle pagine successive – e si tratta di una semplificazione estremamente sintetica –Sterling analizza come in un ambito semantico venivano utilizzati questi tre schemi, chiarisce il legame con Burroughs, la visione del linguaggio come virus e l’utilizzo delle tecniche del cut-up, e ricorda come, grazie al matematico del gruppo, Rudy Rucker, tutto questo si collega alla teoria dell’informazione, così come viene esplicitata da Claude Shannon (cfr. Rucker, 2000). Forse Sterling, oggi come quarant’anni fa, si occupa ancora di Cheap Truth, di verità a buon mercato, sottolineando così quanto il loro lavoro sia sempre stato lontano dall’accademismo e dalla commercializzazione fine a sé stessa, perché, se è pur vero che l’esser deboli dei singoli di fronte all’industria culturale, come afferma, “è ingiusto e sleale”, il cyberpunk non è mai stato solo un elemento del racconto, e “a volte è meglio essere che raccontare”.
- Jean Baudrillard, Simulacri e fantascienza in La Fantascienza e la critica, Feltrinelli, Milano, 1980.
- Antonio Caronia, Dal cyborg al postumano, Meltemi, Milano, 2020.
- Donna Haraway, Chthulucene, Nero, Roma, 2019.
- Donna Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, Roma, 2019.
- Larry McCaffery, Una mistica danza di dati, in William Gibson, Bruce Sterling, Parco giochi con pena di morte, Mondadori, Milano, 2001.
- Rudy Rucker, Filosofo cyberpunk, Di Renzo, Roma, 2000.
- Lucius Shepard, Waiting for the Barbarians, Wired, inverno 1989.
- Lewis Shiner, Confession of an Ex-Cyberpunk, New York Times, 7 gennaio 1991.
- Lewis Shiner, Inside the Movement: past, present & future, in Fiction 2000. Cyberpunk and the future of narrative, University of Georgia Press, Athens and London, 1992.
- John Shirley, Beyond Cyberpunk, Science Fiction Eye, 1989.
- Bruce Sterling, Cyberpunk negli anni Novanta, in William Gibson, Bruce Sterling, Parco giochi con pena di morte, Mondadori, Milano, 2001.