Rintocchi cupi, eppure familiari, espansi fino a impadronirsi della notte. Scandiscono la geometria verticale di un campanile conficcato nell’oscurità. Misurano il tempo di un viaggio senza ritorno, verso un principio perso tra memoria e illusione, desiderio e angoscia. Una coppia di fari segna il percorso, mentre un grumo di sofferenza passata preme contro il derma del presente e cicatrizza tra loro immagini vorticosamente violente. Uno sparo; due ragazze identiche, l’una di fronte all’altra; una donna freddata a terra, un corpo immobile, disteso obliquo tra la luce di due lampade, anch’esse perfettamente uguali ai margini di un mobile, come poggiate su uno stabile baldacchino di morte. C’è un vincolo insuperabile tra quello che è stato e quello che è. Lo dicono due occhi, che si aprono in separata sequenza: l’uno ha tatuata nell’iride la sagoma della giovane adolescente; l’altro fa precipitare nel buio della pupilla un tracciato in movimento. È lo sguardo di Anna, che torna a rileggere la propria storia.
Sullo sfondo scorrono le note di Zombies dell’eclettico Childish Gambino, profetico e criptico presagio cantato nelle pieghe del futuro: “They come to take your life / They want your soul” (“Vengono a prendere la tua vita / Vogliono la tua anima”). Poi lo schermo si colora di acqua; una goccia cade e gemma il suo doppio, due circoli perfetti e incatenati, due “o” indivisibili, segno di origine, omega di morte.
È così, attraverso l’immersione in una intersezione figurale e ontologica, che si entra in Curon.
Poetica dello spazio. Tra pietra e acqua, ottanio e nero notte
Curon, la serie Netflix completamente italiana, diretta da Fabio Mollo e Lydia Patitucci, si snoda come una seducente partitura iconica e sonora in cui il reale sfuma nell’onirico, la scansione ritmata di note rap, techno e house si dissolve nella metafisica classica, o si distende nel minimalismo ipnotico di bordoni elettronici.
La chiave che posiziona percezioni visive e uditive è il minuscolo paese di montagna, esistente e storico, realtà di confine non solo geografico, ma anche esperienziale. Curon entra da protagonista nella successione degli eventi e s’impadronisce di racconti, vite, proiezioni, fantasie: è il teatro privilegiato per un incontro viscerale tra personaggi di scena e spettatori.
Al centro di sguardi e azioni, punto di pausa e insieme legatura feroce, sempre riappare il campanile romanico, possente costruzione che fa possibile l’impossibile. Quella robusta figura di pietra continua a parlare, anche se non ha più campane; non smette di osservare con la forza del giudizio, anche se gli occhi sono bifore cave; segna le ore di un tempo senza tempo, anche se l’orologio dipinto sul frontone è sprovvisto di lancette.
Il campanile non è solo simbolo. È sineddoche, oscura parte di un tutto che vive sommerso. È ferita perpendicolare che fende la linearità piatta del lago su cui si ostina a galleggiare; immobile motore di una infinita rigenerazione ricorsiva; stele caparbia a cui è aggrappata dal profondo una promessa di ritorno.
Il suo profilo, privilegiato dalle numerose riprese angolari, diviene spartiacque tra un prima e un dopo, un’identità e un’altra, una storia compiuta e una respinta, inabissata. Il ricordo dei fatti che hanno affossato la chiesa, portando in superficie quella sorta di miracolo diabolico, diventa un’ossessione narrativa che serpeggia nei discorsi di abitanti e visitatori. Occupa le parole iniziali rivolte da Anna ai propri figli, Daria e Mauro, coinvolti, insieme a lei, in un itinerario fisico e interiore sospeso tra risentimento e incomprensione. Si colora nel dialogo tra ragazzi, quando i locali somministrano ai nuovi arrivati un misto di leggenda e verità; si definisce nelle battute in cui l’insicura pulsione di Lukas incontra la riflessiva affettività di Mauro; giunge al proprio epilogo nelle parole sussurrate da Thomas, padre di Anna e regista di uno svelamento progressivo.
È colpa della diga se tutto si è trasformato. Come un’eco che lega le diverse voci, l’immagine di un argine divisivo si appropria della memoria storica della collettività e ne diviene sedimento comune. Voluta per creare un bacino artificiale che alimentasse di energia la valle, la barriera invisibile ha portato nell’oscurità acquea il vecchio paese, che ora giace come fondale di una nuova realtà, sottosuolo del palco grottesco in cui gli uomini di oggi inscenano nella carne la riunione di vita e di morte.
In modo autenticamente poetico, un trauma nella storia salda l’azione di una magnetica serie televisiva con la rappresentazione offerta da una garbata prosa scritta: Curon di Ezio Abbate (head writer con Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano) si lega a Resto qui di Marco Balzano (cfr. Balzano, 2018). Per quanto, infatti, le pagine penetranti e al contempo delicate del romanzo parlino di altre famiglie e di altri tempi, la metamorfosi del territorio, tutta giocata in perdita, è dolorosamente preannunciata fin dai primi capitoli, per poi essere descritta nel suo concreto accadere alla fine, quando tutto sarà conclusivamente deciso.
“I nostri paesi sarebbero scomparsi sotto una tomba d’acqua. I masi la chiesa, le botteghe, i campi dove pascolavano le bestie: tutto sommerso. Con la diga avremmo perduto le case, gli animali, il lavoro”.
Così racconta Trina, la protagonista narrante, che attribuisce all’intreccio del libro una profondità intimistica di rara espressività. La previsione, ad anni di distanza, è confermata. Gli occhi di Trina, ormai adulta, registrano sequenza dopo sequenza; lo sguardo, come quello a tutto schermo che introduce i primi fotogrammi di Curon, diviene coestensivo al farsi vedere della cosa e rimane, come scomodo testimone del proprio sgomento, quasi ad accogliere nei propri condotti tutta quell’acqua e quell’umido, densificati in un pianto solido.
“Abbiamo guardato dal nostro pertugio l’esecuzione. Erich (il marito di Trina, ndr) senza respirare. Alla distruzione delle prime case mi sono stretta al suo fianco, poi ho guardato cadere le altre senza nemmeno trattenere il respiro. Finché è rimasta solo la torre del campanile, che la Sovrintendenza da Roma aveva dato ordine di risparmiare. L’acqua ci ha messo quasi un anno a ricoprire tutto. È salita lentamente, incessantemente, fino a metà della torre, che da allora svetta come il busto di un naufrago sull’acqua increspata”.
Così, lungo la costa reale e simbolica del lago, Trina si avvicina a Anna e a ogni altro interprete di un mistero che pare non conoscere resa, ma torna con diverse consistenze e tutto ingloba, oltre le profondità, oltre le apparenze.
Il mistero scivola, infatti, e colora ogni ambiente, si insinua e alita le sue propaggini. Lo dimostrano le diverse gradazioni di blu e verde che saturano ogni scena della serie televisiva, divenendo tessuto corticale comune tra interni ed esterni. Lo si nota subito, quando si entra nell’Hotel Raina, di cui Thomas (padre di Anna e nonno di Daria e Mauro) è proprietario, un insieme di stanze e corridoi che portano nel liquore acqueo il rosso sanguigno del proprio archetipo disegnato in Shining (cfr. Stephen King, 2017).
Una planimetria squadrata si definisce per via di ottanio, che scorre dalle pareti ai divani, fino a impadronirsi di tazze e suppellettili. Lo stesso accade all’intonaco di casa Asper, la famiglia intrecciata ai Raina per relazione di figli, nel passato così come nel presente. E poi ancora, un contagio tonale si sviluppa e si estende, occupando lo spazio delle giovani generazioni, impadronendosi dei loro ambienti, dalla scuola agli spogliatoi dell’unica palestra. Esiste un lago in superficie, una tomba in vita, potrebbe dire Trina in commento. Una perfetta scenografia restituisce una visione originale dello spazio, costruendo una sorta di dimensionale doppelgänger, come se potessimo vedere nel blu chiaroscuro del sopra quello che ancora esiste nella notte blu-nero del sotto.
L’umore acqueo invade capillarmente la stanza in cui dorme Mauro, nell’albergo di famiglia da tempo chiuso per gli avventori, ma da sempre popolato da una ben più pervasiva presenza. Le pareti sono attraversate da una ragnatela fitta di alberi dipinti, che dal pavimento raggiungono il soffitto, corpi di comunicazione tra due piani opposti. In questa potente immagine metaforica, l’abisso in terra spetta al ragazzo cercatore di verità, mentre il livello alto, oltre la linea dell’orizzonte visibile, è occupato da un corpo che proviene dal fondo del lago, dall’altra dimensione dell’esistere. “Nessuno può capire cosa c’è sotto le cose”, direbbe Trina. Eppure, un certo grado di consapevolezza emerge, di quadro in quadro. Sotto ci sono ancora radici, prati, case, un ordine naturale preservato nella bolla di un bacino. C’è un mondo-caverna, in cui matrici e ombre rispondono a un unico richiamo.
La profondità, nella cui oscurità la morte diviene nuova vita e la vita presente si converte in morte futura, non è solo verticale, perpendicolare, ma anche orizzontale e labirintica, come i meandri avviluppati dei bunker disseminati per la montagna dimostrano, dedali e anfratti che dicono di un tempo di guerra, nel passato pubblica e politica, ora privata e carnale, comunque e sempre armata. Il rifugio blindato, apparso in principio come posto segreto di ritrovo per celebrare un divertimento ribelle che intende ammutinare l’ovatta misterica di Curon, si trasforma, in ultimo, in luogo di tortura, perdizione, dannazione. È il buco tortuoso che inghiotte e segue dai propri recessi l’imperativo battuto periodicamente dal campanile. Si sentono le campane a Pian dei Morti.
Forme e ontologie del doppio. Tra gemelli, ombre e maschere
Curon si sviluppa attraverso un crescendo di duplicazione. È il teatro perfetto nella cui cornice scenica ha luogo una rappresentazione iconica e coinvolgente, fino alla totale compartecipazione, di una pluralità di forme del doppio. Gemelli, ombre, maschere, corrispondenze reali e simboliche, luoghi del passato in egual modo agiti nel presente, segmenti interrotti di frasi che trovano ora il proprio completamento, tutto si declina al duale. Il due si fa uno; l’uno è, insieme, l’altro e lo stesso (cfr. Fusillo, 2014).
Il tema è assorbente. Mentre gli occhi dell’inizio si aprono e chiudono per indicare la via verso Curon, Daria e Mauro scherzano sulla consistenza del cordone ombelicale, quel legame fisico e viscerale che li tiene uniti e li rende parti vive di una stessa storia. L’idea della replicazione naturale torna nelle parole di Mauro, quando spiega Giulio Asper (uno dei coetanei e compagni di scuola che incontra nel nuovo ambiente) le ragioni della propria somiglianza e diversità rispetto a Daria. Se Mauro è taciturno e sensibile, a tratti fragile e istintivamente premuroso, mentre Daria è spavalda, dura e resistente, fino ad apparire cinica, ostinatamente combattiva, è perché i due sono sì gemelli, ma eterozigoti, uguali per geni, ma complementari per indole e carattere.
La prevalente personalità della ragazza sul fratello si può forse giustificare con il fatto che Daria è nata per prima, ma questo suo venir prima alla luce ha permesso a Mauro di rimanere più vicino al cuore della madre (come pure, con un tono sommesso di voce, il giovane ha modo di dichiarare). Infatti, è Mauro a sentire per primo, nonostante sia affetto da sordità (per un tragico episodio di cui viene a conoscenza proprio a Curon), la vibrazione del cellulare di Anna, che giace come un resto nella tasca della giacca del nonno, quando Anna è come scomparsa e pare aver fatto perdere le sue tracce. Una metonimia sonora, un richiamo, come un S.O.S. lanciato da lontano che il figlio immediatamente coglie. Ugualmente è Mauro a capire, unico tra gli altri, che c’è qualcosa di deviante o distonico in quella figura uguale alla madre improvvisamente riapparsa dopo giorni, tanto da trattenersi nelle parole e nei gesti, da sottrarsi a ogni contatto fisico, ritraendosi da carezze che non hanno per lui la consueta tattilità materna. È il fratello che stimola al dubbio la sorella, sovvertendone l’altrimenti incontestato ruolo di guida. È uno dei punti di debolezza di Mauro, una congenita allergia alimentare alle nocciole, a divenire punto di forza, un infallibile asso nella manica buttato sul tavolo di famiglia per comporre il poker della rivelazione, per dire che quella donna uguale non è la Anna che già si conosce. Ancora, è Mauro a credere, testardo e inflessibile, che la madre sia ancora in vita, quando ogni indizio parrebbe far propendere per l’opposta conclusione.
Vi è un altro frutto di partogenesi che duplica anime e corpi, terribile e potente, tragicamente distruttivo. Laggiù, dove l’acqua del lago trasforma l’ottanio in nero notte, resistono corpi abitati da intelligenze diaboliche; aspettano feroci, in attesa di essere richiamati in vita dal suono di strumenti metafisici. L’apparentemente inesistente si fa robustamente materico. Squarcia il velo delle acque. Esonda. Sono le ombre, come vengono chiamate dagli abitanti del borgo tra memorie mitiche e rarefatta paura di realtà.
Un abisso in superficie abita Curon. Lo si comprende oltre che dalle potenti scene iniziali, dal racconto allusivo che Klara Asper, madre di Giulio e di Micki, destina agli allievi della propria classe. Si tratta di una storia metaforica, in cui un nonno spiega al proprio nipote, portato appositamente nel bosco, come in ciascun individuo coabitino due lupi, l’uno calmo e gentile, che caccia per i propri cuccioli e difende il proprio branco, l’altro oscuro, rabbioso e spietato. Essi lottano tra loro per il controllo dell’anima. Alla domanda del nipote, curioso di sapere di chi può essere la vittoria, il nonno risponde in modo sospensivo e ipotetico: dipende quale dei due lupi viene alimentato. Thomas, padre e nonno, propina una chiarificatrice ermeneutica della paura e dell’angoscia. I doppi esistono: non sono creature allucinatorie o oniriche, sono materia e volontà. Residuo di vita dopo la sommersione dell’antico paese, giacciono nascosti in agguato, pronti a reimpossessarsi della superficie quando una crepa si apre per inghiottire brandelli di storie individuali.
La vita a Curon è di per sé gemellare: trascorre nell’attesa che la doppia incarnazione si compia. Vale per tutti e a ciascuno può accadere. Due corpi si fronteggiano, totalmente uguali anche per i vestiti che indossano: hanno la stessa identità e rispondono allo stesso nome. L’uno riemerge quando l’altro intende sopraffarlo; l’uno torna per vivere la vita che l’altro gli ha impedito.
Le doppie volontà inscritte nel carattere paradigmatico di William Wilson e replicate nel suo nome (che per due volte ripete la radice will) lasciano la pagina di Edgar Allan Poe (cfr. Poe, 2010) per trasferirsi in un’ambientazione contemporanea tutta italiana, e ancora si trovano a combattere, fino all’ultimo duello. Lo dice espressamente il doppio di Lukas, quello, che tra i ragazzi della medesima comitiva, interpreta il ruolo più penetrante. Trovandosi occhi contro occhi davanti alla propria matrice, che, agghiacciata, gli domanda chi sia, il riemerso risponde: “Hai presente tutto quello che non hai mai avuto il coraggio di essere? Ecco sono io”.
Oltre la vertigine della separazione, torna il tempo del confronto e della resa, nello scacco gnoseologico di ogni percezione. L’esito è disforico, come per Anna e Lukas, giocato tra incubo e vendetta nel primo caso, o tra afflizione e ripugnanza nel secondo; oppure di cedevole remissività, come per l’ultima Klara, che, constatato il fallimento di ogni tentativo di amorevole felicità, vive come propria liberazione il gesto di sopraffazione mortale del proprio doppio.
L’implacabilità e l’apparente invincibilità dei corpi che escono dal lago si profila quando, nella medesima unità temporale, mentre la comunità celebra, come rituale esorcismo, la festa dei fuochi (Scheibenschlagen) per ardere sul rogo una figura impagliata dalle fattezze demoniache, il doppio di Lukas tenta di violare l’incolumità di Micki Asper, che non cede al suo amore. Sul ritmo tribale dei gesti scorrono le note gotiche di Avatar degli Swans, come canto liturgico di possessione:
“Your light is in my hand / Your mind is in my eye / Your eye is in my mind / My mind is in your hand / Your mind is in my mind / Your eye is in my eye”.
In perfetta circolarità, trova così spiegazione l’immagine riflessa nell’occhio dell’inizio e viene giustificato il blu magnetico, perfidamente ipnotico, degli occhi del nuovo Lukas. Rimane ambiguo, aperto ad ogni potenzialità di sviluppo, lo sguardo di Obert, barcaiolo e persona di spicco nella storia di Curon: un occhio è scuro, l’altro è glauco; uno vede, l’altro è nell’ombra, quasi ad aver introiettato nella stessa carnalità i due dello stesso individuo. Rimane puro, invece, lo sguardo di Mauro, che pare proteggersi inviando in avanscoperta il proprio inseparabile drone, di cui decodifica messaggi e visioni.
Dai muri delle case, perimetrali e interni, osservano immoti gli eventi multiformi crocifissi che, dopo aver dato la morte al Figlio di Dio, dovrebbero poter salvare Curon, e, alternate ai crocifissi, maschere spaventevoli, ai limiti del mostruoso, un doppio di sacro e profano ricongiunti a barriera contro ogni forma di umana trasfigurazione.
Intanto, le famiglie si incrociano attraverso le reciproche strategie di sopravvivenza e prendono consistenza in musica grazie alla colonna sonora appositamente scelta per sottolinearne cadute ed aspirazioni. Se Thomas esce dalla porta del proprio albergo, alla fine del primo episodio, sulla ballata di Yellow Days per cui “Nothing’s going to keep me down”, nella casa degli Asper, dove un doppio è stabilmente divenuto il padrone di casa, suona all’ora di pranzo il mozartiano Ave Verum Corpus, come sacramento di una verità tremenda e preludio di un definitivo sacrificio. La Anna storica entra nel pub di Curon, dove ha passato la giovinezza, sulla dichiarazione “All mine” di Point Bloom; il padre di Lukas, imbevuto di amore per il suo gatto Figaro, sente a ripetizione l’aria di Gioacchino Rossini, che il doppio vendicatore del figlio sarà pronto a trasformare nell’electro remix Figaro Fist Pump dei Mustard Pimp, per accompagnare la preparazione di un cocktail mortifero da somministrare all’ignaro malcapitato.
Le ombre vivono di acqua e di fuoco. Abbandonata la placenta che li ha custoditi, sparano colpi che non perdonano, o appiccano fiamme, come l’incendiaria ombra di Lukas, che cerca la propria affermazione contro Mauro bruciando parte dell’albergo del nonno. La scena si colora di rosso e consacra il prevalere del fuoco sul suo contrario, quasi una rivincita rispetto all’inversione inflitta da Kubrick al testo di King, così che fosse il ghiaccio (e non il fuoco) a freddare Jack Torrance. Un gusto per la macabra ferocia, quello delle ombre, che, forse, mette in guardia anche i lupi più fieri e selvatici, altre misteriose presenze che popolano i monti.
“Sono sempre insieme le ombre. Simili alle persone, ma più eterne”
(Bux, 2020).
- Childish Gambino, Zombies in Awaken, My Love, Glassnote Records, 2016.
- DJ Mustard Pimp, Figaro Fist Pump in Italia Beats, Extreme Music, 2011.
- Wolfgang Amadeus Mozart, Ave Verum Corpus, in The New London Chorale, 25 Jaar, RCA, 2004.
- Point Bloom, All Mine, Extreme Music Library, 2013.
- Gioacchino Rossini, Largo al Factotum, in Rossini vol.1 , Extreme Music Classix.
- Swans, Avatar, in The Seer, Young God/Mute, 2019.
- Yellow Days, Nothing’s Going to Keep Me Down, in Is Everything Ok in Your World?, DoobieMcQueen, 2019
- Marco Balzano, Resto qui, Einaudi, Torino, 2018.
- Antonio Bux, La diga ombra, Nottetempo, Milano, 2020.
- Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, STEM, Modena, 2014.
- Stephen King, Shining, Bompiani, Milano, 2017.
- Edgar Allan Poe, I racconti del terrore, Mondadori, Milano, 2010.