Con Gli animali che amiamo (2017a), pubblicato circa un anno e mezzo fa da 66thand2nd, i lettori italiani di Volodine avevano trascorso ore di intenso godimento letterario grazie alle angosciose vicende, raccontate con gustosa e profonda ironia, di ominidi zoomorfi e bestie pensanti e senzienti abitatrici di mondi post-apocalittici o pre-mitici, in cui l’esplosione della temporalità in una costellazione di nuclei indipendenti dava ragione alla pratica carceraria della scrittura post-esotica, corrente letteraria che gli stessi lettori italiani avevano avuto modo di codificare (quantomeno in minima ma decisiva parte) grazie all’inquadramento generale fattone in un altro libro a firma di Volodine: Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima (2017b).
Il post-esotismo di Volodine: letteratura che dall’altrove procede verso l’altrove
Post-esotismo (è bene ripeterlo a costo di sembrare didascalici): ossia una corrente/architettura letteraria fondata dallo stesso Antoine Volodine e dai suoi numerosi eteronomi, personaggi ed eteronomi/personaggi residui di un tempo di aspre lotte rivoluzionarie che fu; autori sconfitti e soggiogati dal potere che volevano sconfiggere e che invece ha evidentemente avuto la meglio; scrittori costretti nell’angustia cellulare di in un gigantesco carcere grande quanto il mondo; un carcere dal quale continuare a scrivere, profondendosi in una continua generazione di opere sterminata e confusa, tesa alla trasmissione di messaggi nascosti a chissà chi e chissà perché, ancora; una produzione politico-letteraria il cui autore è un noi fatto da io separati che, come per coalescenza, incapaci di farsi soluzione in un mare di fallimento, si uniscono nelle regioni immateriali delle lettere, della rivoluzione e dell’incessante resistenza (che per molti sarebbe dire lo stesso).
Post-esotismo: in altre parole letteratura dell’altrove diretta verso l’altrove, in cui spazio e tempo seguono regole caotiche, se di regole si tratta.
Fallimento e ritualismo: ovvero la fine del tempo
Ma torniamo tra noi, dopo questa strumentale ripresa del post-esotismo utile a introdurre quanto segue. Si diceva del godimento del lettore italiano purtroppo interrottosi alla fine del 2017, grazie all’uscita del già citato Gli animali che amiamo e di Lisbona, l’ultima frontiera (Volodine, 2017c). Godimento che oggi può favorevolmente ricominciare a seguito della pubblicazione del cupo romanzo Sogni di Mevlidò, ancora per 66thand2nd: romanzo che, quantomeno fino alle ultime battute, esibisce una struttura riconoscibile e familiare anche a chi non padroneggi le regole del post-esotismo (motivo per cui, si suppone, potrebbe risultare assai godibile anche a chi è totalmente all’asciutto di Volodine).
Siamo da qualche parte nel posto che noi chiamiamo Mongolia. Siamo chissà quando: tre parti di futuro e una di passato, ma non importa tanto. L’amministrazione che governa le faccende del mondo o di quanto ne resta, e che stavolta prende il nome di “Organi”, decide di infiltrare un suo uomo, Mevlidò, in una sorta di enorme e lercio sobborgo/sottomondo che risponde al nome di Pollaio Quattro, in cui oltre agli ominidi vivono ragni più o meno reali e soprattutto pennuti degenerati: giganteschi gabbiani obesi, polli mutanti, cornacchie mostruose. La missione di Mevlidò? Vigilare sull’operato degli ominidi che popolano Pollaio Quattro, candidati dagli Organi all’estinzione definitiva e totale a causa di crimini potenziali. La loro colpa? Non una sola, ma varie, e tutte grossomodo indefinite. Prima di tutto, per alcuni di loro, continuare a combattere per organizzazioni sovversive senza conoscerne le regole, i princìpi né gli obiettivi; per altri, aver preso parte nel passato a mattanze indiscriminate; per altri ancora, semplicemente continuare a esistere, trascinandosi in un’esistenza di memoria distorta e di allucinazioni del presente.
Sogni di Mevlidò è così il racconto della missione di un infiltrato sotto copertura: una missione lunga quanto una vita e sulle cui sorti si dubita già dapprincipio. E sembra nel senso descritto ricalcare il nucleo attorno al quale sono costruite tutte le altre opere che abbiamo letto di Volodine, un nucleo generato dalla fusione di due elementi concettuali intimamente correlati:
a) Il fallimento: ovvero il precipitare di eventi, aneliti e speranze verso una continua e generale assenza di soluzioni che si fossilizza in una sorta di eterna attualità (come quella del carcere in cui vivono gli scrittori post-esotici) fluida e frastagliata (come quella delle lettere di cui si servono gli stessi). Il pervertimento di quell’attimo da cui la pre-Storia sarebbe dovuta diventare Storia, diventando invece non-più-Storia, esplosione di possibilità spaziotemporali che mutano infine in narrazioni e destituiscono della sua supposta validità la linearità (o la ciclicità) del tempo.
b) Il ritualismo: ovvero l’unica strategia per condurre la propria esistenza concessa a chi ha esperito la totalità del fallimento, trovandosi poi suo malgrado a occupare senza scopo il proprio spaziotempo dopo la frantumazione non solo della Storia, ma anche dell’Idea: da Karl Marx a Georg Wilhelm Friedrich Hegel il passo è breve e ritroso. Strategia già riscontrata, tra gli altri, nei personaggi inutilmente abnegati verso la procedura di Terminus radioso, l’altro romanzo volodiniano “quasi canonico” o come tale leggibile di cui disponiamo in traduzione (Volodine 2016a), e in quelli di Angeli minori (Volodine 2016b), raccolta di micronarrazioni (i narrat, secondo il lessico post-esotico, ovvero narrazioni brevissime che vivono del conflitto tra memoria e realtà) in cui un uomo nato dagli stracci per mano di un politburo di anziane immortali, Will Scheidmann, ritarda la sua condanna raccontando storie apocalittiche ambientate nel disastro.
Sogni di Mevlidò: incubi di cinema
È proprio nell’intreccio di fallimento e ritualismo che anche Sogni di Mevlidò dipana le sue linee narrative, facendosi forte (più delle altre opere post-esotiche già lette) di un’inclinazione piuttosto fantascientifica (la sci-fi è d’altronde l’ambito da cui Volodine scrittore proviene). Inclinazione che traspare e riluce nel romanzo anche sottoforma di ritmo e sguardo, entrambi debitori al cinema e alla fotografia, secondo una tendenza già viva nella narrativa di Volodine: la sua “fascinazione per il singolo fotogramma, i piani sequenza, la composizione visiva, lo zoom […] la creazione di uno spazio scenico dove far muovere personaggi e parole […]”, come ci ricorda Anna D’Elia (2019) traduttrice italiana del nostro per 66thand2nd. In tal senso, si prendano a titolo esemplificativo due passaggi di Sogni di Mevlidò in cui l’incedere narrativo sembra giungerci tramite tecniche di post-produzione á la Marvel (il primo) o con classiche panoramiche ascendenti (il secondo):
“Non si muoveva più niente, tranne Sonia Wolguelane che correva all’impazzata a un metro da Melvidò, una smorfia da psicotica sulla faccia e degli occhi che sembravano pieni di lacrime […]. La pioggia non produceva più il minimo suono, riecheggiava unicamente il rapido sguazzare dei piedi della fuggiasca. Gli spruzzi che sollevava non ricadevano giù”.
“Era come se una lercia schiuma avesse preso a trasudare dalla terra nel ridicolo intento di imitare l’alba. A poco a poco si svelava così un panorama fatto di colline e boschetti, imbruttito da fattorie devastate e cavalli di frisia. Sicché spuntò la luce, e dopo cinque minuti smise di cangiare e lì stagnò, in quel suo stadio di crepuscolo sottomarino, comunque sufficiente perché dinanzi agli occhi si mostrasse, per chilometri intorno, un campo di battaglia abbandonato, vecchio di molte generazioni, dove rimanevano impressi, nella medesima argilla, argillosi ricordi di una prima carneficina mondiale, di assassinii all’esplosivo e di mutilazioni”.
Oppure, si faccia riferimento ad alcuni passaggi in cui le metafore cinematografiche e fotografiche appartengono all’esperienza dei personaggi:
“Sicché la trascinavamo anche nel mezzo di immagini brutali e animalesche […]. Sicché si ritrovava ad essere attrice involontaria delle nostre rappresentazioni”.
“I protagonisti si muovono con sovrannaturale scioltezza, l’ambientazione è quella di una fotografia in cui i curiosi rimangono provvisoriamente inerti […]. Sotto gli occhi di Mevlidò tutto si svolgeva adesso all’interno di un tempo compatto”.
“Lasciò che la scena venisse a lui, che i personaggi facessero la loro comparsa. L’immagine diventava sempre più netta. Ignorava dove l’avrebbe condotto, ma gli sembrava che partendo da lì avrebbe potuto zigzagare senza rischi.
Il film onirico si fece più vicino, ma, come spesso accade, all’ultimo momento si strappò, bloccandosi in un’unica visione che non svelava né un prima né un poi”.
Per non parlare dell’esplicito capitolo 22, in cui sono i personaggi stessi a guardare uno schermo. D’altronde, com’è stato già sottolineato, il debito con il cinema di Sogni di Mevlidò sta nella sua “eco principale […] quella del cinema di Alfred Hitchcock, in particolare Vertigo, ovvero La donna che visse due volte. Una suggestione acuita dalla presenza, essa pure hitchcockiana, di innumerevoli uccellacci (in alcuni casi parlanti) a ogni angolo di strada” (Santoni, 2019).
L’eterna contemporaneità della fine dopo la “prima carneficina mondiale”
Tecniche di narrativa cinematografica; memoria sci-fi; abbattimento del tempo e confusione del prima e del dopo; non-più-Storia; continuo e mutevole scambio tra sogno e realtà; onnipresenza dell’angoscia e del fallimento; azioni e movimenti ritualistici; degenerazioni dell’universo animale e dell’umano; prolungata fine del mondo; altrove: tutti elementi caratteristici di Sogni di Mevlidò, come delle altre opere di Volodine che abbiamo avuto modo di leggere qui da noi.
Come cifra caratteristica è anche la formidabile ellissi su cui viene inaugurata e sviluppata tutta l’architettura letteraria volodiniana: quella riguardante il momento, vicino o lontano, in cui è venuta la fine; la stessa fine che nella letteratura post-esotica si continua a vivere, commentare e rappresentare. Ovvero l’ellissi sull’evento, a cui si fa talvolta solo marginale cenno (la “prima carneficina mondiale”), che ha generato l’universo post-esotico, rendendolo eternamente contemporaneo al dipanarsi ritualistico della fine.
- Anna D’Elia, Quelle che vanno, quelle che restano: le parole del traduttore, in L’Indice dei libri del mese, n. 4, 2019.
- Vanni Santoni, Uccellacci e uccellini dell’era post-atomica, in Corriere della Sera, 10 marzo 2019.
- Antoine Volodine, Terminus radioso, 66thand2nd, Roma, 2016a.
- Antoine Volodine, Angeli minori, L’orma, Roma, 2016b.
- Antoine Volodine, Gli animali che amiamo, 66thand2nd, Roma, 2017a.
- Antoine Volodine, Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, 66thand2nd, Roma, 2017b.