Un’ondata di psicosi collettiva aveva scaraventato Torino nel caos per venti giorni e venti notti, nel cuore di un’estate caldissima. Dieci anni dopo, l’anonimo narratore s’intestardisce a ricostruire gli eventi di quelle folli venti giornate, ma la sua si palesa fin da subito per la sfida impari che è: la reticenza dei suoi concittadini nel rievocare l’accaduto si salda con un clima di paranoia di cui finisce presto per essere vittima egli stesso, mentre sullo sfondo si vanno addensando le nuvole e le ombre di una cospirazione sopravvissuta al tempo, che forse si accinge a colpire di nuovo. Al protagonista non resterà che affidarsi ai suoi ricordi e all’aiuto insperato di un altro testimone, come lui ossessionato dalla reale natura dei fenomeni che ora sembra che tutti pretendano di aver rimosso.
Gli insonni, l’aria irrespirabile, le morti violente rimaste inspiegate, le apparizioni sovrannaturali, le statue che prendevano vita seminando il terrore in città riemergono così dal passato in un turbine di angosce e inquietudini catalizzate, oggi come allora, dal ruolo di quella misteriosa istituzione che solo a nominarla ispira un brivido alla gente di Torino: la Biblioteca.
Si fa presto a perdere il conto dei paragoni illustri scomodati per accompagnare l’encomiabile operazione di riscoperta condotta da Frassinelli: Le venti giornate di Torino, pubblicato nel 1977 dalle edizioni Il Formichiere, passò pressoché inosservato all’uscita, finì fuori circolazione e, malgrado la venerazione di alcuni fortunati lettori che ne fecero un oggetto di culto, fu presto dimenticato, condividendo questo oblio immeritato con il suo autore.
Giorgio De Maria, nato a Torino nel 1924, critico teatrale, pianista (membro del gruppo musicale di avanguardia dei Cantacronache), commediografo (sua la commedia in tre atti Apocalisse su misura, per il Teatro Stabile di Torino), sceneggiatore per la televisione, traduttore e insegnante di lettere, tra le altre cose, nonché autore di altri tre romanzi prima de Le venti giornate di Torino, dopo l’indifferenza riservata a questo libro avrebbe smesso di scrivere, non producendo più nulla fino alla sua morte, avvenuta nel 2009. Il suo nome è tornato inaspettatamente alla ribalta quest’anno, quando la Norton ha annunciato a sorpresa l’edizione in lingua inglese di questo libro che in effetti è un oggetto misterioso, capitato per caso all’attenzione del giornalista australiano Ramon Glazov, rimastone affascinato al punto da spendersi in prima persona per il suo recupero. E nella sua traduzione Norton lo ha proposto in America, facendo di De Maria il secondo autore italiano del suo catalogo dopo Primo Levi.
Confronti, paragoni, suggestioni
Sono stati citati Edgar Allan Poe e Italo Calvino, José Saramago e Howard P. Lovecraft, William Hope Hodgson, Jorge Luis Borges e Tommaso Landolfi, come anche i registi Roman Polanski, Dario Argento e Pupi Avati, per rendere giustizia a questo romanzo. E con tutti loro sono innegabili dei punti di contatto, ma in alcuni casi gli accostamenti risultano anche fuorvianti.
Due casi per tutti: l’orrore cosmico lovecraftiano, richiamato a più riprese, sembra avere ben poco in comune con “l’inchiesta di fine secolo” di De Maria, che invece, per quanto fatta risalire a una perversione della Natura, trova pur sempre un’importante e decisiva mediazione nell’umanità, laddove in Lovecraft erano proprio forze antiche ed estranee, che trascendono la comprensione stessa degli uomini, a scaraventare i protagonisti nell’abisso della follia; così come la Biblioteca del Cottolengo non ha niente a che spartire con la Biblioteca di Borges, ma sembra invece piuttosto evocare i timori che si accompagnavano alla paranoia degli anni di piombo, non ultima le interferenze delle autorità nella sfera privata, qui trasposte in chiave satirica in una consapevole condivisione da parte dei cittadini dei propri sogni e desideri più segreti, per cui si è parlato, non proprio a proposito, di un ruolo profetico del romanzo, che avrebbe in questo modo anticipato i nostri social network.
In tutta onestà, non crediamo che risieda in questi aspetti la grandezza e l’importanza di un’opera come Le venti giornate di Torino. In un’intervista rilasciata alla Stampa nel 1978, De Maria non faceva mistero dei suoi debiti di riconoscenza nei confronti de Il processo di Franz Kafka, e più volte nella lettura si avverte il richiamo alla stessa atmosfera di implacabile alienazione, così come anche il senso di una congiura non meno vasta ordita ai danni del singolo, la cui resistenza o ribellione a un cifrario di regole imperscrutabili è inesorabilmente destinata al fallimento. Motivo per cui, insieme allo stile ricercato, sembra di scorgere una certa attinenza anche con la più originale e autorevole voce dell’horror contemporaneo, l’americano Thomas Ligotti. Ma forse il parallelo più interessante è con un’opera coeva, partorita dall’ingegno di quello che forse è stato il più raffinato e letterario autore di fantasy e fantascienza della sua generazione.
L’affinità che si ritrova nelle tenebre
Nel 1977, mentre il romanzo di De Maria veniva dato alle stampe, dall’altra parte dell’oceano vedeva la luce Our Lady of Darkness (pubblicato in italiano con il titolo di Nostra Signora delle Tenebre) di Fritz Leiber, che andava ad ampliare una novella (The Pale Brown Thing) apparsa nel 1971 sulle pagine della rivista The Magazine of Fantasy and Science Fiction. Insignito l’anno dopo del World Fantasy Award, il romanzo di Leiber rappresenta una pietra miliare dell’urban fantasy, avendo contribuito a definirne le caratteristiche in netto anticipo sui tempi della sua diffusione.
De Maria e Leiber presentano entrambi dei casi di irruzione di forze ignote e misteriose in grado di stravolgere la nostra percezione del mondo, e in entrambi i casi il contesto urbano amplifica l’esplosione di irrazionalità e catalizza la propagazione del caos. Bisogna anche notare la profonda affinità tra le due città che non si limitano a fare da sfondo ai loro romanzi, ma pagina dopo pagina assurgono al ruolo di vere e proprie protagoniste: Torino, come San Francisco, è uno di quei luoghi speciali (con Londra, Lione, Ginevra e, ovviamente, Praga) che condividono una solida tradizione di magia e occultismo.
Storie come quelle raccontate da Leiber e da De Maria acquisiscono vigore e personalità soprattutto grazie alla vivida elaborazione dei dettagli della loro ambientazione. Ma è altrettanto stupefacente rilevare come entrambi incapsulino nelle rispettive opere riferimenti letterari che assolvono al duplice scopo di conferire profondità storica al loro racconto e, allo stesso tempo, suggerire una possibile chiave di lettura per interpretare gli eventi.
In Leiber abbiamo un tripudio ipercitazionista, che spazia con eclettismo postmoderno da Jack London a Dashiell Hammett, da Ambrose Bierce a Clark Ashton Smith, fino ad arrivare alle pagine maledette della Megalopolisomanzia: una nuova scienza urbanistica del misterioso Thibaut de Castries, ispirata alla figura storica di Thomas De Quincey; in De Maria sono invece le Pagine postume pubblicate in vita di Robert Musil a guidare il protagonista nella sua indagine. Con lui il lettore precipiterà in una spirale di ossessione e follia, toccando l’apice dell’angoscia nelle pagine che propongono l’ascolto dei fenomeni di psicofonia o transcomunicazione strumentale riconducibili alla classe dei cosiddetti EVP, ovvero Electronic Voice Phenomena. Resi popolari a partire dagli anni Sessanta dagli studi del regista cinematografico svedese Friedrich Jürgenson e del filosofo e romanziere lettone Konstantin Raudive, gli EVP rappresentano una peculiare branca della parapsicologia che ha originato un prospero filone di teorie del complotto. Abbiamo letto di psicofonia nelle pagine di William Peter Blatty (Legion, 1983) e in quelle di William Gibson (Pattern Recognition, 2003), ma quella fornita da Giorgio De Maria si candida seriamente a essere la sua primissima rappresentazione letteraria.
Di trame occulte e di sette oscure
Vero epicentro delle ondate di psicosi, oggi come dieci anni prima, sembra essere il Cottolengo, che nelle leggende metropolitane riportate sul suo conto riesce anche a evocare incubi degni delle più sinistre visioni elaborate da Ray Bradbury.
La Biblioteca che vi ha sede si attesta sulla scena cittadina dapprima come una sorta di esperimento sociale di proporzioni inconcepibili, per poi degenerare, o venire semplicemente smascherata, rivelando le intenzioni taciute dei suoi giovani volontari, cooptati in una sorta di piano eversivo neofascista che tuttavia non viene mai esplicitato del tutto, anche se le pagine finali del romanzo forniscono un affresco politico che non lascia adito a dubbi. E l’eterogenesi di quello che sembrava il proposito originario dell’istituzione si salda anche con una forma raffinata di critica sociale che è anche un caustico attacco a certe tendenze in atto già allora nelle società occidentali, identificate non a caso con la spinta consumistica delle forze di mercato.
Decollata come un programma per permettere alle persone più sole di condividere con gli altri la propria solitudine, la Biblioteca finisce per marcire nell’incomunicabilità, e col tempo la spazzatura diventerà il vettore attraverso il quale i suoi seguaci continueranno a scambiarsi messaggi ormai talmente criptici da risultare incomprensibili e al contempo continuare a monitorare gli utenti. E qualsiasi sforzo di comprendere le dinamiche, di gettare luce su questa setta ramificata dovunque e di fare chiarezza sui suoi veri manipolatori, è destinata a scontrarsi con la verità inappellabile esibita anche dalla stessa spazzatura e dall’interpretazione metaforica che ne suggerisce l’anonimo corrispondente del narratore: non importa quanta fatica si faccia, che si tratti di un’indagine o di una rigorosa esecuzione musicale, alla fine l’entropia espressa dall’illogicità di creature inconcepibili e di dinamiche al di fuori del nostro controllo è comunque destinata a prevalere.
Ecco qualche altra ragione per apprezzare la lungimiranza e il coraggio di un lavoro immeritatamente dimenticato, che Frassinelli giustamente riporta in libreria nella scia del recupero di Norton. Malgrado l’erudita ironia delle sue pagine, Le venti giornate di Torino è un’opera che non offre consolazioni o rassicurazioni al lettore e lo irretisce pagina dopo pagina, ora con il suo andamento onirico, ora con l’immediatezza tipica del taglio di un’inchiesta giornalistica: alla fine non riuscirà a liberarsene. Un lavoro unico nel panorama italiano, un monumentale sforzo dell’intelletto che esalta le qualità del genere e le impone con autorevolezza all’attenzione di tutti.
- Franz Kafka, Il processo, Garzanti Libri, Milano, 2008.
- Fritz Leiber, La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore, Cliquot, Roma, 2015.
- Fritz Leiber, Nostra signora delle tenebre, Urania Mondadori, Milano, 2002.