Osservare, associare, osservare di nuovo e ancora. Il punto di vista del voyeur e quello del detective coincidono, sostenne Alfred Hitchcock in La finestra sul cortile (1954). Circa dieci anni dopo questa disquisizione su vicini di casa omicidi, sospetti e immobilità forzata di un testimone semi-oculare, apparve Cosmo, romanzo che ne condivideva la tesi. L’autore era uno scrittore polacco di fresco ri/scoperto in tutta Europa: Witold Gombrowicz e Cosmo è il suo ultimo romanzo, che ritorna in Italia nella nuova traduzione di Vera Verdiani in un volume pubblicato da il Saggiatore a cura di Francesco M. Cataluccio.
Un romanzo che è diverse cose in apparenza e che altrettante ne cela dietro le quinte. Ne avvertiamo la presenza, eppure restano sempre un passo avanti, oppure di lato, o alle nostre spalle, finendo per circondarci nel corso della lettura, incitandoci alla rilettura, perché Witold Gombrowicz è assolutamente inclassificabile. L’intera sua vicenda letteraria e personale è stata anomala, svoltasi ai margini della cultura internazionale. Gombrowicz è stato associato un po’ a tutto: al surrealismo, al teatro dell’assurdo, al nouveau roman, all’esistenzialismo. Tuttora, però, restiamo ancorati a quanto confessò Bruno Schulz nel 1937: “Tutti i tentativi di classificarlo deludono” (in Ripellino, 1991). Sono trascorsi ottant’anni e nulla è cambiato. In Cosmo questa irriducibilità a qualsivoglia classificazione si fa addirittura sfrontata. Il romanzo è un manifesto definitivo delle sue ossessioni, ciascuna delle quali ci conduce sulla soglia di un abisso: gioventù e bellezza, voyeurismo e feticismo, forma e creazione.
Lo strano caso del signor Gombrowicz
Ma chi è Gombrowicz? Prima di tutto un super egocentrico, litigioso, provocatore, solitario, che esagerava su tutto, a iniziare dai suoi nobili natali (in realtà era un signorotto di campagna). Iniziò con dei racconti, Memorie del periodo dell’immaturità (1933), male accolti dalla critica locale. In seguito, con aggiunte e sostituzioni, la raccolta sarà ripubblicata come Bacacay (1957). Scrisse una commedia che sembra anticipare di trent’anni il teatro dell’assurdo, Iwona principessa di Borgogna (1935) e di seguito Ferdydurke (1937), storia di un trentenne, Gingio, che precipita una mattina nell’immaturità adolescenziale. Da Gregor a Gingio, dall’insetto alla pubertà. È la Metamorfosi kafkiana (1915) secondo Gombrowicz, che qui mette in scena uno dei suoi temi privilegiati: la giovinezza. Lo fa prendendosi burla del romanzo di formazione, anzi parodiando di tutto e di più.
Sarà così anche nelle opere successive: “La mia letteratura è tutta basata su modelli classici. Ferdydurke è un po’ la parodia di un racconto filosofico alla Voltaire; Trans-Atlantico la parodia della vecchia gawęda di una volta; Pornografia si rifà al buon vecchio «romanzo campestre polacco»; Cosmo ha qualcosa del romanzo poliziesco. Il mio teatro è una parodia di Shakespeare e la mia ultima pièce è composta sul modello di un’operetta” (Gombrowicz, 2004). Arruolò anche il gotico per un romanzo pubblicato con uno pseudonimo e pubblicato postumo nel 1973: Schiavi delle tenebre. Ferdydurke intanto accende i riflettori su di lui (e stupì Schulz). Si fa concreta la possibilità di una carriera letteraria. A poche settimane dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale va in Argentina imbarcandosi per la crociera inaugurale di una nuova linea navale. Il conflitto bellico lo trasformerà in un esiliato per caso. Racconterà tutto, a modo suo nel successivo romanzo, Trans-Atlantico (1953). Resterà in Argentina per quasi un quarto di secolo arrangiandosi. Scriverà ancora due commedie, altrettanto paradossali: Il matrimonio (1953) e Operetta (1967), poi metterà mano al romanzo Pornografia (1960), dove intrecciò le sue magnifiche fissazioni, privilegiando la giovinezza e la forma. Infine, Cosmo, per il quale prese a prestito il meccanismo del giallo. Nel Diario, nel 1962, annotava: “Che cos’è un romanzo giallo? Un tentativo di organizzare il caos. Per questo il mio Cosmo, che mi piace chiamare «un romanzo sulla formazione della realtà» sarà una specie di racconto giallo” (Gombrowicz, 1990). Cosicché, mentre Friedrich Dürrenmatt qualche anno prima aveva celebrato con La Promessa (1958) un Requiem per il romanzo giallo, come recitava il sottotitolo del romanzo, Gombrowicz lo rianimò, dandogli movenze grottesche. “Le mie opere si mettono a testa in giù per far ridere, io sono il circo, il lirismo, la poesia, l’orrore, la lotta, il gioco…” (Gombrowicz, 2004).
Una specie di trama per un romanzo impossibile
Ebbene che cosa racconta questa “storia deforme come un feto abortito”? Siamo in Polonia. A condurre le danze sono due sedicenti investigatori (per caso) del caos: Witold, un giovanotto che arriva dalla capitale sfuggendo a genitori che a suo dire lo assillano e tale Fuks, impiegatuccio a sua volta tartassato dal principale. Sono in vacanza nel bel mezzo di una estate caldissima. Afa e noia, quella tipica dei vacanzieri, sembrano essere i veri mandanti di tutte le azioni che seguiranno. “Quando ci si annoia si immagina Dio sa cosa”, dirà a un certo punto Witold. Qual è l’oggetto delle loro indagini? Il molteplice nel suo rivelarsi, verrebbe da dire. Epifanie di cui soltanto attuando un gioco d’associazioni vertiginose è possibile modificarne lo statuto. Come? Incasellando indizi su indizi, segni su segni, sequenze che si diramano sempre più vertiginosamente, che si accavallano, si sovrappongono, si intrecciano, si confondono e confondono. È questo che Witold fa.
La coppia si forma per caso e altrettanto casualmente trova alloggio in una casa di campagna dove si affittano camere. La trovano dopo aver fatto un’altra scoperta, che darà il via alla quest: un passero morto e sospeso come un impiccato con un fil di ferro. Non hanno il tempo di mettere del tutto a fuoco il misterioso ritrovamento. Il destino li conduce alla pensione dove li riceve una governante, Katasia, che folgora Witold in virtù di una cicatrice che le estroflette il labbro superiore, donandole un’oscena, invitante quanto disgustosa forma. Fanno conoscenza con Lena, la figlia dei due proprietari, giovanissima e amabile nonché già sposata con Ludwik, un uomo con più anni di lei. La bocca di lei, invece, immacolata, e prima ancora la gamba poggiata sulla rete metallica di un lettino, accendono la fantasia di Witold, ne risvegliano l’indole voyeuristica, oltre che quella investigativa, lo conducono ad associare ossessivamente le due bocche, e di seguito a snocciolare congetture su congetture sulla base di indizi associati con il medesimo criterio: uno stecco che penzola da un muretto con il passero impiccato, una limetta da unghie conficcata in una scatoletta di cartone con un ago conficcato sul piano di un tavolo e via di questo passo.
Slittamenti progressivi degli sguardi
Witold, a un certo punto, farà convergere completamente i due punti di vista, quello del detective e quello del voyeur, anzi vi aggiungerà anche quello dell’omicida, uccidendo il gatto di Lena, dopo averla spiata mentre partecipa a un insolito triangolo, osservandola seminuda con il marito e una teiera. Il quadro con le figure principali è completato dai genitori di Lena: Leon Wojtys (il padre) e sua moglie (nonché zia di Katasia) che Leon chiama Pallina, ma il cui vero nome è forse Maria, perché gli capiterà di rivolgersi a lei con il diminutivo Mańcia. La lingua vulcanica di Leon ribattezza continuamente la moglie: Mimmina, Pallina, Pallucci, Piccipalli, Puntino, ma non si tratta di banali affettuosità nei confronti della consorte. Questo ex impiegato di banca, teorico dell’onanismo assoluto e integerrimo praticante militante, seguace dell’arte dell’estro e del contrasto, una singolare variante della ricetta del bastone e la carota, inventa di continuo buffe espressioni in un esuberante latino ultra maccheronico e soprattutto è il creatore di una parolina magica, un meccanismo riproduttivo, capace di generare intere costruzioni di senso: berg. L’uso che Leon fa di berg è fondato sul medesimo principio che consente ai Puffi di utilizzare liberamente il loro infinito puffare. Quando tutti (a esclusione di Katasia) andranno in gita unendosi a due coppie di giovani sposi, conoscenti di Lena e Ludwik, Leon salirà in cattedra e con lui il berg, avviando un’indagine parallela sulla lingua. Alla ricerca dei colpevoli si affianca così quella dei significati, forse lo stesso oscuro oggetto della trama. Congetture a mezzo di congetture per una vera opera aperta, come ben comprese Andrzej Żuławski, che osò tradurlo cinematograficamente, facendone, a sua volta, il proprio testamento: ben tre i finali del film, per quella che è anche per lui è stata l’ultima creazione.
Non è però Cosmo l’opera a cui Gombrowicz tenne di più, se acconsentiamo a credergli, bensì il citato il Diario che tenne dal 1953 al 1966. Dentro c’è di tutto: riflessioni filosofiche, annotazioni quotidiane, polemiche a più non posso contro vizi pubblici e privati dei polacchi, critiche letterarie, una grande solitudine e il suo ego sempre prepotentemente al centro. Ne riparlerà in Testamento, pseudo/intervista pazientemente raccolta da Dominique de Roux. I primi quattro giorni del 1953, l’avvio del Diario, sono annotati così:
“Lunedì: Io.
Martedì: Io.
Mercoledì: Io.
Giovedì: Io”
(Gombrowicz, 2004).
Quattro buoni motivi per leggere Gombrowicz.
- Witold Gombrowicz, Diario Vol. I (1953-1958), Feltrinelli, Milano, 2004.
- Witold Gombrowicz, Pagine del mio diario nelle quali si parla di Cosmo, in Cosmo, Feltrinelli Milano, 1990.
- Witold Gombrowicz, Testamento, Feltrinelli Milano, 2004.
- Angelo Maria Ripellino, Introduzione, in Bruno Schulz, Le botteghe color cannella, Einaudi, Torino, 1991.
- Andrzej Żuławski, Cosmos, Alfama Films, Leopardo Filmes, 2015.