Siamo nel 1927 e in tutta l’Unione Sovietica fervono i preparativi per i festeggiamenti del decennale della Rivoluzione d’Ottobre. Denni è una ragazza dal passato misterioso che arriva a Mosca dalle sperdute regioni del sud. Sta seguendo le tracce di un padre scomparso e, quando si presenta alla porta dell’Istituto Trasfusionale, per il direttore Aleksandr Bogdanov (figura storica realmente esistita), che già si sta misurando con gli esiti frustranti della rivoluzione, comincia la sfida più incredibile della sua carriera che lo porterà a fare i conti sia con il suo ruolo personale nella Storia che con un caso medico che da subito rivela caratteri straordinari.
Il personaggio immaginario di Leonid Voloch, il padre che Denni non ha mai conosciuto, è stato delegato al soviet di San Pietroburgo, militante irriducibile e compagno di lotta di Bogdanov: scomparso nel 1907 dopo una rapina a Tbilisi a cui prendeva parte lo stesso Stalin, sarebbe riapparso solo a distanza di diversi mesi, sottoposto a giudizio dai compagni in esilio a Capri per sospetto tradimento e graziato da Bogdanov, che aveva riconosciuto nel suo comportamento i segni di un disturbo post-traumatico riconducibile alla conclusione violenta proprio di quella rapina. La ragazza versa in condizioni di salute precarie e, dagli accertamenti condotti all’istituto, risulta portatrice di un batterio apparentemente legato a una forma sconosciuta di tubercolosi. Trovare Voloch diventa così una corsa contro il tempo, non solo per permetterle di ricongiungersi con quello che resta della sua famiglia, ma anche per salvarle la vita.
“Bogdanov resta in silenzio. Quella sfida lo affascina. Un elemento sconosciuto è giunto a turbare le loro certezze. Ora li attende un periodo eccitante, fatto di disordini e divergenze, di contraddizioni e aggiustamenti, finché il sistema non troverà una nuova stabilità. Crisi, differenziazione, equilibrio. La dialettica in versione tectologica, che muove ogni progresso”
(Wu Ming, 2018).
È da queste premesse che muove l’ultimo romanzo di Wu Ming, quanto mai atteso dopo il cambio di assetto compiutosi tra il 2015 e il 2016, con l’uscita di scena di Riccardo Pedrini (cfr. Wu Ming, 2016) che come Wu Ming 5 aveva firmato alcune delle incursioni soliste più fantascientifiche del collettivo bolognese (Libera Baku ora, Havana Glam, Free Karma Food). Messo da parte il progetto del Trittico Atlantico (Manituana, L’armata dei sonnambuli), annunciata addirittura la chiusura della fase del romanzo storico in cui il gruppo artistico-militante si era mosso fin dall’acclamato esordio con Q (quando ancora si riconosce nel progetto Luther Blissett), Wu Ming torna adesso con quello che è al momento il più fantascientifico dei romanzi a firma comune:
“Si potrebbe forse descriverlo come una pozione magica o una ricetta da Pellegrino Artusi: prendete due misure di Victor Serge; una di Walter Tevis; una di Ursula K. LeGuin; un pizzico di Boris Pasternak (senza esagerare, ché quello è un Nobel) e annaffiate il tutto con uno scritto filosofico di Lenin. Qualcuno potrebbe definirlo un crossover. Ma chissà poi cosa vuole dire. Per noi è soltanto il romanzo che stiamo scrivendo. Il prossimo. Che parlerà di genitori scomparsi e di figli che riappaiono, di rapine, trasfusioni di sangue, partite a scacchi, comunismo e viaggi interplanetari”
(Wu Ming, 2017).
La cosa non deve comunque stupire. Nei loro progetti solisti i tre reduci del collettivo (Wu Ming 1, 2 e 4, al secolo Roberto Bui, Giovanni Cattabriga e Federico Guglielmi) hanno spesso dialogato con l’immaginario fantastico. Ma con Proletkult, se possibile, mettono a segno un ulteriore salto di qualità rispetto alla loro precedente esperienza.
Ogni tempo ha le sue verità
Come sempre quando un libro reca in copertina la firma di Wu Ming, ci troviamo davanti a un’opera politica ma si commetterebbe un errore grossolano a ridurre questa dimensione alla ricostruzione storica della Rivoluzione d’Ottobre. Anzi, i preparativi e le celebrazioni vengono presentati con occhio estremamente critico tanto verso la fazione dominante quanto verso gli oppositori interni del PCUS. Nel decennale esplodono tutte le contraddizioni di una rivoluzione incompiuta, morta prima ancora di nascere, allo stesso tempo reperto fossile e specchio distorto di un sogno di parità e fratellanza. L’annientamento di ogni dialettica interna sfociata nel “fratellicidio” e il conformismo mettono allo scoperto tutte le sue contraddizioni:
“Non può fare una colpa ai vecchi compagni di essere sopravvissuti alla propria giovinezza. Tanto meno può accusare sé stesso. A turbarlo è piuttosto il paradosso in cui vivono. Profeti del collettivismo, oggi si ritrovano dispersi, ognuno impegnato nel proprio lavoro; ognuno con la propria visione delle cose”.
Aleksandr Bogdanov, che della trojka dirigenziale dei bolscevichi in esilio aveva fatto parte con Lenin e Krasin, è ormai un uomo sul viale del tramonto. “Eretico tra gli eretici, ha abbandonato il campo di battaglia della politica, poi quello della cultura, per occuparsi solo di scienza”. Dopo avere tradotto per primo Il Capitale di Marx, Bogdanov era stato scomunicato da Georgij Plechanov: “il grande padre del marxismo russo, l’uomo che aveva appreso la dottrina dalle labbra di Engels, come non si stancava mai di ricordare” e si era dedicato all’organizzazione della scuola superiore socialdemocratica di agitazione a Capri (nel 1909) e poi a Bologna (durante l’inverno 1911-12). Da quelle esperienze sarebbe scaturito nel 1917 il Proletkul’t, la popolare abbreviazione che stava a indicare l’Organizzazione Culturale-Educativa Proletaria, un organismo ispirato da Bogdanov per fornire le basi da cui sviluppare una vera arte proletaria, ma subito messa sotto il controllo del Commissariato del popolo per l’istruzione, presieduto da Anatolij Lunačarskij, che con Bogdanov aveva collaborato proprio alle scuole di partito durante il periodo italiano.
Lo scontro che si è consumato con Lenin, per il controllo del cuore e della mente del Partito Operaio Socialdemocratico Russo e quindi della strategia per il compimento della rivoluzione, ha lasciato ferite che sanguinano ancora a distanza di anni. Perché, come viene ricostruito in alcune delle pagine più magistrali di Proletkult, inscenando la disputa ideologica tra Bogdanov e Lenin sullo sfondo di una partita a scacchi, lo scontro era prima di tutto di natura filosofica.
A confrontarsi erano da una parte il materialismo ortodosso di Lenin, presuntuosamente oggettivo, dogmatico e granitico (“Lenin pensa che per capire il mondo bisogna scattargli una fotografia, quanto più precisa possibile. Per me invece la conoscenza è come il cinematografo”, e ancora: “Così lui concepisce una sola verità, fuori dal tempo, indipendente da noi”); e dall’altra l’empiriomonismo di Bogdanov, l’aggiornamento del marxismo alla luce delle scoperte scientifiche (“Io invece penso che ogni tempo ha le sue verità”; “Il mondo non è un bel panorama in attesa di una fotografia. Cambia come cambiamo noi, mentre lo conosciamo e resiste al nostro lavoro”), sconfessato da Lenin in una delle sue opere politiche più citate, Materialismo ed empiriocriticismo (1909), che aveva ribadito la piena e accurata corrispondenza tra il mondo esterno e la sua rappresentazione mediata dalle percezioni umane.
Bogdanov, dal canto suo, è sempre stato convinto che “costruire una nuova cultura fosse il modo migliore di difendere la rivoluzione”, e questa divergenza di vedute porta alla sua progressiva emarginazione.
A partire da quella partita a scacchi che ebbe davvero luogo nell’aprile del 1908 a Villa Blaesus, a Capri, per iniziativa dello scrittore Gor’kij (che così si augurava di ricomporre la frattura tra i due) e fu immortalata in una famosa foto (sopra), Wu Ming racchiude in un volo di una manciata di pagine (il Capitolo 14, che può essere letto come un racconto a sé stante) un riepilogo delle elaborazioni teoriche di Bogdanov, dal sociomorfismo all’empiriomonismo fino alla tectologia (che in anticipo sulla cibernetica congetturò una nuova scienza universale come strumento per l’organizzazione dell’attività collettiva), fornendone una efficace rappresentazione pratica:
“Il gioco consisteva in quello: vedere lo scacco matto prima dell’avversario, soggettivamente, e poi manovrare per renderlo oggettivo”
(Wu Ming, 2018).
Purtroppo, a differenza della partita, dominata e vinta in controllo da Bogdanov, la storia della rivoluzione incoronò Lenin trionfatore, facendosi di fatto racchiudere nella cornice limitata della sua Kodak. Ma “le bestemmie di un’epoca possono diventare le verità di quella successiva”, e l’opera di Wu Ming è qui a offrircene una preziosa testimonianza.
La donna caduta sulla Terra
Quando lo incontriamo in Proletkult, Bogdanov ha da tempo messo da parte qualsiasi velleità politica e si dedica ormai solo ai suoi studi medici, con un particolare interesse per le tecniche di trasfusione. Ciò che non ha mai accantonato è lo slancio teorico-filosofico: per lui, infatti, le trasfusioni rappresentano un passaggio obbligato per realizzare quella comunità universale, imprescindibile per il successo della rivoluzione socialista. Le trasfusioni, che non rifiuta ai funzionari del Partito che lo hanno relegato ai margini, sono l’ultimo contributo dell’apostata a un processo in cui non ha mai smesso di credere.
Che i tempi gli abbiano voltato le spalle, lo si evince da un’altra delle pagine esemplari del romanzo (nella terza e ultima parte). Dopo una trasfusione di cui ha beneficiato un suo vecchio compagno dei tempi della militanza pre-rivoluzionaria, Bogdanov si trattiene a parlare con lui e con il giovane volontario che gli ha offerto il suo sangue nel nome della causa superiore dell’immortalità. “Bogdanov lo stregone, Bogdanov l’alchimista” cammina sulle uova, cerca di non deludere il ragazzo sedotto dal “solito equivoco”, “il miraggio di vivere per sempre”.
Arseny Zhilyayev, Untitled, Biennale di venezia 2015.
“Grazie a voi, ogni individuo diventerà immortale con il contributo della collettività”, insiste il giovane. E a questo punto Bogdanov non può esimersi oltre, deve sgombrare il campo da ogni dubbio e puntualizza: “Al contrario […] è il collettivo che diventerà immortale grazie al contributo degli individui. La vita eterna si coniuga alla prima persona plurale. Al singolare è ossimoro”, a cui fa seguire una spiegazione scientifica, che potremmo riassumere nella necessità per ogni individuo di una vita di durata limitata al fine di prevenire la noia o peggio la follia (“Il nostro cervello […] ha bisogno di novità”, “l’immortalità individuale è una condanna. A vita”).
Il ragazzo, prima di lasciare la tavola, viene colto da un’illuminazione: “Ci salverà l’oblio”, esclama, e le sue parole arrivano dopo una galoppata che già è andata avanti per oltre 250 pagine, sul filo della memoria, attraverso continui salti temporali che ci hanno permesso di riavvolgere il nastro della Storia e colmare un abisso di vent’anni. A questo punto della storia, quella che altrove sarebbe stata poco più di una battuta, si carica di implicazioni gravose e sinistre.
Il dubbio che la memoria si stinga nel tempo e che la verità sia un bene tanto prezioso quanto facilmente deperibile, Bogdanov ha già avuto modo di sperimentarlo in diverse occasioni. Prima con la sua fama di teorico della rivoluzione e di una nuova cultura collettivista, oscurata dal successo di Lenin e dall’affermazione dell’ortodossia di partito; e quindi con l’estemporanea comparsa di questa ragazza alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto.
I volti nella memoria si fanno confusi, così come i particolari richiedono uno sforzo per essere riportati a galla, specie se i suoi compagni di partito non hanno più nemmeno l’interesse di mantenere il ricordo di quanto accaduto. Troppo sangue, troppi voltafaccia, troppe collusioni. Il decennale della Rivoluzione d’Ottobre è già di per sé una celebrazione dell’oblio, un rito collettivo di rimozione degli ideali traditi.
Bogdanov ormai non è altri che il “marxista marziano” e l’etichetta ribalta in insulto e parodia il successo del suo romanzo utopico Stella rossa, diffuso in Russia dal 1909 fino a superare l’impensabile soglia delle dieci milioni di copie. Finché Denni non riprende i racconti di Leonid che hanno ispirato a Bogdanov quelle pagine fantascientifiche. E allora, se la follia ereditaria non può bastare a giustificare la concordanza di dettagli tra le storie di due persone che non si sono mai incontrate, può esserci davvero, là fuori, un invisibile pianeta Nacun, sede di una civiltà che duecento anni prima ha gettato le basi di un’utopia socialista, sviluppando una superscienza applicata in tutti i settori della società, ma che ora necessita di essere convinta della bontà degli sforzi umani di emancipazione dal capitalismo per abortire un possibile piano di invasione. Per quanto felicemente strutturata sui principi cooperativi e organizzativi illustrati da Bogdanov nella sua fantascienza, la società di Nacun è infatti alle prese con l’imminente esaurimento delle sue risorse naturali e in molti spingono per colonizzare la Terra. Come Leonid prima di lei, Denni è convinta di essere stata mandata tra gli umani per raccogliere le prove necessarie per prevenire lo sbarco delle eteronavi nacuniane.
Se non è solo il frutto di una “pseudologia fantastica”, trovare Leonid fornirà la risposta che serve alla fazione interplanetarista di Denni per evitare la guerra?
Perché abbiamo fallito?
Ma se da un lato lo sviluppo di una società socialista è vista dai nacuniani come una misura del livello evolutivo raggiunto dalla civiltà umana, dall’altro la soluzione del rompicapo potrebbe ritorcersi contro la Terra stessa. Lo stesso Bogdanov non ha dubbi che la rivoluzione abbia tradito i suoi stessi principi, non a caso tutto quello che possono fare i suoi ex-compagni ora funzionari del Partito è difendere il risultato ottenuto, anche se non è il meglio che si aspettavano. Una posizione espressa da Aleksandra Kallontaj, altra madre allontanata dalle stanze dei bottoni del comitato centrale, e protagonista come Leonid Voloch delle parentesi più malinconiche di Proletkult. Per uscirne, Bogdanov si getta anima e corpo in una corsa contro il tempo, in una ricerca che è allo stesso tempo: a. nel presente, una ricostruzione delle relazioni spezzate, quei “rapporti tra le persone, rapporti di classe e di genere” che la stessa Kallontaj gli ricorda essere la colla della società; b. nel passato, uno scavo nella memoria per riportare alla luce un volto da associare alle parole che si inseguono nei ricordi di Bogdanov.
“Perché abbiamo fallito?” si ripeteva ossessivamente Leonid nella cella del Carcere delle Croci a San Pietroburgo, in cui erano stati tenuti prigionieri insieme. “Perché abbiamo fallito?”
A vent’anni di distanza, quella che dice di essere sua figlia pone un’altra domanda: ce l’abbiamo fatta? Siamo riusciti a cambiare il mondo davvero in meglio? E Bogdanov le fa eco: “Il sacrificio è valso la pena?”
“A questo puoi rispondere anche tu. Abbiamo intrapreso una strada tortuosa e costellata di sbagli. Alcuni evitabili, altri no. Chi può dire se arriveremo un giorno alla società senza classi… Non c’è modo di scoprirlo se non provare. Conoscere il mondo e cambiarlo sono la stessa cosa. Cambiare il mondo e cambiare noi stessi sono la stessa cosa. Non è quello che hai sempre detto?”
(Wu Ming, 2018).
Una rivoluzione non basta. Ce ne vogliono cento
Come sempre accade con la fantascienza migliore, siamo davanti a un’opera politica e non dovrebbe sorprendere che rechi la firma, sebbene sotto pseudonimo, di autori italiani. Il collettivo Wu Ming, che con il suo attivismo si colloca in una precisa area politica, facilmente identificabile quanto scarsamente rappresentata, non poteva scegliere dimensione migliore per inaugurare il nuovo corso dopo la fase del romanzo storico. Gli omaggi dichiarati a Ursula K. Le Guin e a Walter Tevis (ma anche a David Bowie e al suo Uomo che cadde sulla Terra, alla cui figura il personaggio di Denni è inequivocabilmente ispirato), oltre che alla fantascienza di Aleksandr Bogdanov, impreziosiscono una linea di ascendenza diretta con il filone più politico del genere.
Da sinistra: Locked Hammer and Sickle, 1994di Leonid Sokov, The Russians Send the First Rocket Into Space, 1981 di Peter Fischli e David Weiss.
È inoltre interessante ricordare come le idee di Bogdanov fossero già state intercettate nel 1993 da Kim Stanley Robinson nella sua trilogia marziana, che riportava in vita attraverso un presunto discendente del teorico sovietico l’ideale di una partecipazione attiva al processo del cambiamento come unica strada per la costruzione di una società veramente nuova.
Per un autore, rivoluzionario e scienziato che per decenni sembrava essere stato inghiottito dalle tenebre dell’oblio, questa continuità di omaggi che si va profilando suggerisce un processo di riscoperta tanto doveroso quanto fondamentale. Come Robinson e come Wu Ming, respingiamo con convinzione qualsiasi lettura nostalgica. La fotografia di Lenin è sbiadita, ma nessuno ci impedisce di girare altre bobine e montare il girato secondo il nostro gusto. Una rivoluzione non è bastata. Cento film, cento libri, cento poesie o cento canzoni possono essere un buon inizio per preparare le prossime cento.
- Aleksandr Bogdanov, Stella rossa, Agenzia Alcatraz, Milano, 2018.
- Wu Ming, Q, Einaudi, Torino, 1999.
- Wu Ming, Manituana, Einaudi, Torino, 2007.
- Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Einaudi, Torino, 2014.
- Wu Ming, Zeppo’s Gone. Riccardo / Wu Ming 5 è uscito dal collettivo, Giap, 15 luglio 2016.
- Wu Ming, Stiamo scrivendo un romanzo russo, Giap, 1° agosto 2017.
- Kim Stanley Robinson, Il rosso di Marte, Fanucci, Roma, 2016.
- Nicolas Roeg, L’uomo che cadde sulla Terra, Universal Pictures Italia, 2010 (home video).