Fra l’Ulisse di Omero e l’esercito di uomini qualsiasi c’è sempre stato di mezzo il mare. Prima sfondo e confine dell’enciclopedia tribale (cfr. Havelock, 2006), poi regno del fantastico e dell’insondabile, poi ancora luogo eletto alla contemplazione malinconica e all’incontro con le Muse, l’oceano non ha mai cessato di ricordare all’umano i termini della sua finitezza. Di fronte a lui, dove “Dio […] ha rispecchiato il cielo” (Pessoa, 2007), l’uomo vive la contraddizione dell’essere piccola parte di una grandezza immensa. Il portato simbolico del mare schiaccia e al contempo entusiasma ogni presenza. Fra le sue onde pulsa la memoria di una purezza atavica che non è più (in fondo non è mai del tutto stata) e che prende forma fra le pagine dei classici o nei fotogrammi di storie disegnate come quella de La tartaruga rossa.
Il film scritto e diretto dall’animatore Michaël Dudok de Wit non è certo il primo dello Studio Ghibli a fare del grand bleu il proprio sfondo privilegiato. Rappresenta però la prima produzione non completamente nipponica, nata da una collaborazione fra Giappone, Belgio e Francia, il cui tratto assolutamente peculiare contribuisce ad allungare le distanze con le altre creazioni nate in seno al marchio reso popolare da Hayao Miyazaki. Di quest’ultimo bisogna dimenticare le atmosfere giocose, le creature magiche e i volti infantili e rotondi: se c’è magia ne La tartaruga rossa è qualcosa che si avvicina più al misticismo e al viaggio dello spirito che alle maschere della superstizione.
De Wit ripropone il tipico trinomio oceano-uomo-solitudine avvolgendo il protagonista della sua storia tra i flutti in tempesta: un naufrago animato che rievoca il Tom Hanks di Cast Away (2000) discostandosene per il totale mutismo e l’assenza di elementi positivi equivalenti a Wilson. Presente è invece un antagonista: la tartaruga rossa. Questo grosso esemplare color ruggine, abitante dell’isola cui è approdato l’omino dagli occhi a spillo, sembra più che risoluto ad arrestarne i tentativi di fuga via mare caricando e distruggendo la sua zattera. Così, fra suoni gutturali, urla di rabbia verso un cielo impassibile ed esplorazioni, vissute o sognate, di paesaggi allo stato brado, va in scena tutta l’indecifrabilità del primitivo. L’effetto perturbante dei toni onirici usati da de Wit resiste anche all’inatteso cambio di rotta del racconto che, pur mutando in parabola, riesce a trattenere fra le sue maglie un pervasivo senso di mistero. Dal momento in cui l’uomo smette di essere solo o nell’esclusiva compagnia degli animali isolani, anche la natura si sveste delle sue apparenze ostili e angoscianti tornando a costituire l’habitat umano ideale, a significare casa.
Allo stesso modo il mare cede il ruolo di esemplare scappatoia per tornare a vestire quello di immobile e calmante argine, quando non di luogo (vasca) capace di accogliere e integrare la presenza umana al pari della terraferma. Trova così compiuta espressione quella dialettica fra chiusura e apertura, paura del rischio e necessità di correrlo, da sempre alla base delle interazioni della specie con e attraverso il mezzo acquatico (cfr. Abruzzese, Borrelli, 2000). È quindi lecito dire che La tartaruga rossa, oltre a comporre una vivida metafora intorno al concetto esteso di esistenza, dal plot twist in avanti non fa che porre sempre più l’accento sull’effettiva “incapacità dell’uomo a vivere da solo” (Gandolfi, 2016). L’animale sociale per antonomasia è qui letteralmente spogliato nel proprio divenire primario, un rito di passaggio dopo l’altro. Come la Venere botticelliana, a sua volta ispirata ai miti antichi di cui sopra, nasce dalle acque e ne emerge per compiere i primi passi su suoli sconosciuti, relazionarsi con l’altro da sé, conoscerlo fino a respingerlo, accettarlo e stabilire con esso una convivenza: in una parola, adattarsi.
Ecco che allora, nell’intrinseca essenzialità che dimostra, La tartaruga rossa rivela la natura prima di tutto strutturale della sua opera di recupero del premoderno. Non solo gli scenari, la mancanza di comunicazione verbale e di una vera e propria società all’interno del racconto, ma il racconto stesso, in quanto forma, viaggia all’indietro verso le sue origini scarne, evocative e necessariamente allegoriche. Nel mostrarci l’uomo, la donna e il bambino lanciati in un mondo governato da leggi imperscrutabili e incontrovertibili insieme, de Wit ripropone il carattere oracolare dei miti religiosi, la loro semplicità contraddetta da dettagli secondari soltanto all’apparenza, in quanto costruiti ad hoc al fine di instillare la fascinazione del dubbio e spalancarsi alla molteplicità del processo interpretativo. Ed è proprio la tartaruga color ruggine a farsi tramite di una sacralità fuori dal tempo (dal nostro, soprattutto) e dell’eco ancestrale delle narrazioni fondative. Mistero della vita come della storia che prova a restituirne il succo, questo simbolo di morte e silenziosa rinascita esprime il proprio significato nel momento in cui ne nasconde una parte: è ciò che appare ma in egual misura è lo spazio di ciò che di lei resta indefinito. Un essere inafferrabile che ritorna, com’è giusto che sia, all’incommensurabilità dell’oceano. E vi si perde come vi si perdono da sempre i nostri occhi.
- Alberto Abruzzese, Davide Borrelli, L’industria culturale. Tracce e immagini di un privilegio, Carocci, Roma, 2000.
- Marzia Gandolfi, http://www.mymovies.it/film/2016/theredturtle/
- Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Bari, 2006.
- Fernando Pessoa, Mare del Portogallo, Via del Vento Edizioni, Pistoia, 2007.
- Robert Zemeckis, Cast Away, Universal Pictures Italia, 2007 (home video).