Parola dopo parola, rigo dopo rigo, dispiegando una calligrafia fitta, minuta, distesa su ogni centimetro quadrato, pagina dopo pagina, stilando lettere di decine, a volte finanche settanta pagine, una dopo l’altra, Howard Phillips Lovecraft ha eretto nel corso dei suoi quarantasette anni di vita un epistolario di dimensioni ciclopiche, stimato in circa centomila lettere, scritte ad amici, ammiratori, letterati, discepoli, nuovi talenti da lui intravisti per primo e di rado, eccezionalmente, qualche interlocutrice. Corrispondenze epistolari che, una volta salvate dall’azione del tempo, si sono rivelate un giacimento inesauribile di scoperte e di conferme, capaci di spostare lo sguardo sull’opera, sulla vita di Lovecraft e sul loro intreccio.
Gli argomenti affrontati, sviscerati, accennati, ora divagando, ora approfondendo, svelano la vastità e l’eterogeneità della sua cultura. Lovecraft discettava di astronomia, di letteratura, di storia, di architettura, di psicologia, di mitologia e così via. Ricorda a tal proposito Samuel Loveman, l’uomo che in sogno rivestì il ruolo che poi divenne quello dello sventurato Warren in La testimonianza di Randolph Carter:
“Erano davvero lettere stupende: si facevano leggere d’un fiato, rivelavano un’erudizione prodigiosa e una profonda umanità. La gamma di argomenti che toccavano era, a dir poco, monumentale: astronomia, stregoneria, archeologia, letteratura inglese, la New York dell’epoca della Compagnia olandese, la poesia del XVIII secolo, Alexander Pope, la scultura romana, i vasi greci, la decadenza dell’età alessandrina, le Terme di Caracalla, T. S. Eliot, Hart Crane – e dio solo sa quant’altro! È impossibile enumerare la sterminata varietà di argomenti toccati da quelle lettere” (AA.VV., 2007).
Questo autentico patrimonio ha molti eredi ideali, perché nel tempo la fama e l’influenza dell’autore delle storie di Cthulhu e di altri Esseri maligni, e delle teorizzazioni più profonde sulla letteratura dell’orrore, si è estesa oltre misura, dopo la sua progressiva riscoperta in quella che apparentemente era una stagione solare come poche: l’estate del 1967, la Summer of Love. Fu qui che alla fine di quell’anno d’amore, pace e sesso, si fecero notare gli H. P. Lovecraft, quartetto che arrivava da Chicago e che inopinatamente preferì il lato oscuro che si apriva oltre le porte della percezione. Fu allora che iniziò per Lovecraft, trent’anni dopo la sua morte, il passaggio da una dimensione letteraria oggetto di culto ristretto a quella di venerazione di massa, anche discutibile per certi versi.
Tra i meriti però sicuramente c’è quello di aver dato ulteriore impulso alla riscoperta e valorizzazione della sua opera; anche le lettere di Lovecraft sono diventate oggetto di studio, scrutate in ogni angolo ed entrate a far parte della sua leggenda oltre che del suo lascito intellettuale, oggi riassunto nei cinque volumi delle Selected Letters, pubblicate dalla Arkham House. Magnum opus dal quale discendono una serie di edizioni di epistolari più ristretti, circoscritti a uno o più destinatari, come per esempio i volumi comprendenti tutte le lettere inviate a August Derleth o a Loveman e Vincent Starrett.
La ricostruzione epistolare di storie memorabili
La selezione approntata in un volume curatissimo pubblicato da Bietti nella collana l’Archeometro e intestato allo stesso Lovecraft, Oniricon. Sogni, incubi & fantasticherie a cura di Pietro Guarriello ha più di un merito, includendo tutte le lettere nelle quali Lovecraft confida i sogni che avrebbe poi trasformato in racconti.
Si tratta di una versione italiana (ideata da Gianfranco De Turris con Guarriello) molto ampliata di un volume pubblicato dallo studioso statunitense S.T. Joshi, autore della più completa biografia sull’uomo di Providence, il monumentale H.P. Lovecraft. A Life. Rispetto all’edizione curata da Joshi, di cui viene proposta l’introduzione, il materiale incluso qui è all’incirca il doppio e la genesi della raccolta è riassunta a dovere da De Turris nel saggio introduttivo, Il prigioniero dei sogni. Sono incluse quarantuno lettere, di cui oltre metà finora inedite in Italia.
L’insieme fornisce ragguagli esaurienti sulla fertile e inesauribile collaborazione tra il Solitario di Providence autore di storie e il Sognatore di Providence fornitore della materia prima, perché delle storie di Lovecraft si può davvero dire che sono fatte della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, quelli scurissimi, naturalmente.
In altre parole, le lettere selezionate per Oniricon sono quelle in cui Lovecraft racconta i sogni da cui sono poi nate alcune delle sue storie più terribili, a iniziare dal citato La testimonianza di Randolph Carter, il magistrale racconto che Lovecraft prima sognò e poi riportò in una lettera datata 11 dicembre 1919, applicando alla perfezione quanto teorizzato in un’altra lettera inviata a Robert E. Howard il 4 ottobre 1930: “Lo scrittore preparato e che conosce bene il suo mestiere sa che alludere all’orrore risulta spesso più convincente che descriverlo apertamente” (Lovecraft, 2011).
Corrispondenze, vezzi e giochi letterari
La lettera sull’orrenda esperienza di Carter (nel sogno lo stesso Lovecraft) la inviò agli altri due membri del circolo di corrispondenza chiamato Gallomo e costituito da Alfred Galpin e Maurice Winter Moe, oltre che dallo stesso Lovecraft.
Il nome era costruito utilizzando la prima sillaba di ognuno dei tre cognomi. Galpin era un docente di letteratura francese e italiana, considerato da Lovecraft uno dei suoi migliori pupilli. Moe, a sua volta, era un giornalista dilettante e insegnante di inglese (Galpin era stato suo allievo), che Lovecraft trasformò in Joel Manton nel racconto L’innominabile (scritto nel 1923) una delle storie che vedono protagonista Carter. Il Gallomo in fondo era un gioco letterario, erede di un precedente club a quattro che includeva oltre a Moe e Lovecraft Reinhart Kleiner e Ira J. Cole: il Kleicomolo.
Inoltre, negli interstizi di queste missive che fornivano resoconti spesso angoscianti, Lovecraft poneva un ulteriore accento ludico nelle intestazioni e nella scelta delle parole di commiato, nonché nelle firme vezzose, (era solito ricorre a nomignoli di sapore romano, come Theobaldus, o M. LOLLIVS. TIBALDUS, oppure nonno, nonnetto), oltre a manifestare nel suo periodare la sua ostinata rivendicazione d’appartenenza al diciottesimo secolo nei panni di un classico gentiluomo inglese di quei tempi.
Non è tutto. Lovecraft scriveva da Providence, ma spesso dalle regioni dei suoi mondi fantastici, dal “bosco Maledetto dal Demone di Yoth – Flagellato dal Vento mormorante” (lettera a Clark Ashton Smith del 22 ottobre 1933), oppure dalle “Caverne di K’n-yan” (lettera a Robert H. Barlow dell’11 maggio 1935). Lettere che chiudeva con espressioni come “Tuo, per il Nero Catechismo della Primeva Averonia” (ad Ashton Smith il 13 dicembre 1933), o “Per la tuttora sommersa R’lyeh, il Vostro Nonno Cthulhu” ad Harry O. Fischer nel tardo febbraio 1937.
Dentro queste cornici, Lovecraft stendeva anche i resoconti dei suoi sogni, riportandoli con una ricchezza di dettagli che lascia sbigottiti. È ragionevole pensare che i suoi fossero dei sogni lucidi, ovvero quelli in cui il sognatore ha un discreto controllo sul sogno e in qualche modo ne ha la regia. È la tesi (più che condivisibile) sostenuta da Guarriello:
“Non sappiamo quanto Lovecraft fosse cosciente di questa sua capacità, ma sono esperienze di lucid dreams a prendere forma nelle lettere, cristallizzandosi nei racconti. Non è quindi azzardato definirlo una specie di onironauta della letteratura, proprio per questa preponderante capacità di esplorare e plasmare a proprio piacimento l’esperienza onirica, trasformandola in parola scritta”.
Sogni lucidi e memoria fotografica degli stessi, perché nei suoi resoconti epistolari Lovecraft ci informa di un numero impressionante di particolari. Il più famoso dei suoi sogni, il cosiddetto “sogno romano” (Roma era l’altra passione/infatuazione dopo l’Inghilterra settecentesca) è la testimonianza di gran lunga più rilevante in tal senso. Lovecraft ne parla in ben tre lettere e sarà proprio uno dei destinatari, uno dei suoi migliori allievi, Frank Belknap Long, a trasformare l’incubo che sognò in romanzo. Lovecraft non andò oltre le tre versioni epistolari, accordando a Long il permesso di utilizzarlo nel suo romanzo The Horror from the Hill. Spesso la versione più lunga, quella inviata a Donald Wandrei è antologizzata (in italiano come L’antica gente dei monti). In Oniricon sono riportate tutte, compresa la terza a Bernard Dwyer.
Quella antica gente sembra anche riapparire in una storia per altri versi lontana dai mondi di Lovecraft: I mangiatori di morte (1977) di Michael Crichton, da cui venne tratto il film Il tredicesimo guerriero (1999) di John McTiernan. Quel popolo, i mostruosi wendol, rinviano manifestamente all’orrore che vive su quelle altre colline sognate da Lovecraft.
A margine va annotato che una fonte dichiarata di I mangiatori di morte è il Beowulf, ma anche in questa storia c’è un immaginario cronista arabo (Ahmed Ibn Fahdlan) e il suo manoscritto di cui Crichton garantisce la veridicità con l’ausilio di una bibliografia che include il Necronomicon di Abdul Alhazred, ovvero il grimonio più celebre tra quelli nati dalla fantasia dell’uomo di Providence. È solo un microscopico esempio di quanto estesa sia la sua l’influenza sui contemporanei, al di là di quelli che sono i dichiarati omaggi, le riprese, le riscritture e i rifacimenti sulla base di tutte le sue storie.
I racconti concepiti in sogno
Nella seconda parte di Oniricon, invece, sono stati inclusi tutti i racconti nati direttamente da sogni e appositamente ritradotti: Nyarlathotep, Polaris, Celephaїs, Sotto il chiarore lunare, La “cosa” sul campanile, I sogni di Yith (questi ultimi due appaiono per la prima volta in italiano) e il citato La testimonianza di Randolph Carter.
Esclusi, quindi, quelli in cui semplicemente il sogno e/o un sognatore sono parte della storia. Questo avrebbe ampliato la selezione, perché in altri racconti di Lovecraft si sogna e si scivola in una dimensione altra, senza che a far da base alla vicenda ci sia stato in precedenza un sogno.
Ancor più ampia sarebbe la selezione al punto di coincidere con l’intera opera lovecraftiana se accettiamo ancora una volta una verità profonda quanto ovvia: i sogni che Lovecraft faceva lo impaurivano, lo terrorizzavano, lo ritrovavano sveglio, madido di sudore, sconvolto. La paura e l’orrore, sono queste le chiavi di volta di tutta la vicenda. Lovecraft scrive di orrore e di paura, teorizza di orrore e di paura, sogna di orrore e di paura, perché aveva orrore e paura che avevano mille volti, mille apparizioni, mille forme nel suo stato di veglia e di sonno, indifferentemente. Il suo razionalismo che pure faceva da buon argine a questa oscurità non era sufficiente, e lui ne era cosciente.
Tutto iniziò con la morte della nonna. Era il 1896 e Lovecraft aveva cinque anni e mezzo. In casa sua madre e le zie vestivano di nero luttuoso e lui ne era terrorizzato. È allora che inizia a sognare i magri notturni (l’originale è night gaunts, inventato da Lovecreft, la traduzione di Sebastiano Fusco è quella ormai invalsa), malefici e feroci esseri volanti con ali da pipistrello. Vi ritorna in più lettere a iniziare dalla prima inclusa in Oniricon, indirizzata a Rheinhart Kleiner il 16 novembre 1916:
“Mi portavano in volo nello spazio a velocità sorprendente, e nel contempo mi tormentavano pungolandomi coi loro odiosi tridenti […] Questa era la mia unica supplica di ogni notte nel ’96: restare sveglio e tenere lontano i magri notturni”.
Aveva cinque anni e mezzo e questo basta a motivare la scelta di includere in Oniricon un saggio, L’incubo come terapia, di un neuropsichiatra, Giuseppe Magnarapa, che sottolinea la struttura depressiva della personalità di Lovecraft ed evidenzia la prassi terapeutica che in qualche modo adottò trasferendo i suoi sogni (e il loro portato) nelle sue storie.
Terapia o meno, Lovecraft sapeva di aver a che fare con qualcosa di ingombrante. L’11 dicembre 1919, come si è detto, inviò al Gallomo la lettera in cui trascrisse il sogno che poi diventerà La testimonianza di Randolph Carter. In conclusione scrisse: “Mi chiedo, tuttavia, se ho il diritto di rivendicare la paternità delle cose che sogno”. Vengono in mente le parole di un altro visionario, per tantissimi aspetti, distante anni luce da Lovecraft: Philip K. Dick, anch’egli visitato da visioni notturne e premonizioni. Ne L’Esegesi, affermava: “Io non sono la vera e autentica fonte della mia narrativa, e mi sono sempre domandato quale fosse” (Dick, 2015).
Potrà apparire azzardato porre in connessione due autori così differenti, distanti, figure quanto mai dissimili, uno chiuso nel suo personaggio di gentleman inglese del diciottesimo secolo (lo ritrasse magnificamente Virgil Finlay, anch’egli tra i suoi giovani corrispondenti), arroccato in un piccolo centro della East Cost e che periodicamente dava sfogo a un razzismo malcelato, l’altro meticciato con le culture alternative della California lisergica che lo aveva adottato e farcito di letture che comprendevano tutti i testi sacri del mouvement, da Herman Hesse a Herbert Marcuse (ma che arrivava curiosamente da Chicago, come i citati H. P. Lovecraft). Tutti e due però accomunati da una sola abissale paura, che prende forma nei sogni e nelle realtà parallele.
I personaggi creati da questi due visionari infrangono reiteratamente le realtà altre di norma invisibili, riportano in vita o ridanno accesso nel nostro mondo a entità remote e spaventevoli oppure entrano in mondi dove magari non esistono o coabitano affianco ai loro doppi, oppure sono alle prese con i loro cloni. In qualsiasi caso hanno maledettamente paura e l’orrore fonde i loro cervelli. La realtà non è una protezione sufficiente, tra le sue maglie si fanno largo oscurità e inquietudine, le certezze si sfaldano; fuori dall’ombra lunga di Lovecraft e Dick resta poco tra le narrazioni contemporanee e questo, oltre a dare la misura del loro lascito, ci ricorda una volta di più che “il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto” (Lovecraft, 2011).
D’altra parte, nella seconda modernità chi può dormire sogni tranquilli?
- AA.VV., Vita di Lovecraft, Reverdito, Trento, 1987.
- Philip K. Dick, L’Esegesi, Fanucci, Roma, 2015.
- Howard Phillips Lovecraft, L’orrore sovrannaturale nella letteratura, in Teoria dell’orrore, Bietti, Milano, 2011.