È una storia breve quella dei Colosseum. I fatti che davvero contano accaddero tra la fine del 1968 e il 1971, quando la band irruppe al centro della scena musicale inglese. Catturò subito l’attenzione grazie a una miscela di suoni sorprendente, messa a punto in virtù di un mestiere imparato nelle botteghe del blues e del jazz d’oltremanica. Fu un azzardo, probabilmente non il primo, ma di sicuro la mossa più convincente nell’amalgamare generi apparentemente incompatibili: il blues e il barocco, il jazz e il rock. Talora agitando, talaltra mescolando tutto insieme, di fatto avventurandosi in quella terra di mezzo che venne chiamata progressive rock, un genere vocato agli sconfinamenti, pratica ai tempi ritenuta sconsiderata. Forse non il tentativo più riuscito, ma il progressive rock fu di sicuro quello più discusso: dapprima acclamato fino all’eccesso, in seguito fustigato con severità esemplare.
Tuttora il genere conta cultori e appassionati; si prova a rinverdirne i fasti con formazioni di giovani musicisti e di riunioni delle vecchie glorie, salute permettendo, ma di fatto i giochi si erano già conclusi a metà anni Settanta. Non furono i Colosseum a inventarne la formula e neppure ne sancirono la fine. Tuttora si discute su chi commise il misfatto e i principali imputati sono i Moody Blues, i Procol Harum e i Nice, ma probabilmente, come nella celebre storia di Agatha Christie, furono tutti insieme ad agire. I Colosseum si limitarono a metterne a punto una miscela tra le più equilibrate, sufficiente per porli tra i creatori del genere. Eppure, i loro brani e quelli presi a prestito poggiavano certo su una scrittura non banale, anche sofisticata, ma in fondo la band suonava un robusto rock/blues tinteggiato jazz.
Tutta la loro storia si svolse nell’arco di appena tre album in studio (in addenda, vanno considerate le differenti versioni allestite per il mercato statunitense) e Colosseum Live, un ultimo botto prima di cessare il fuoco e frutto di una selezione da concerti tenuti a Manchester, Brighton e Bristol nel 1971. Una discografia scarna, completata da una antologia con qualche inedito, Collectors Colosseum, risalente sempre al 1971. In seguito, vennero riportati in vita dal leader e co-fondatore della band, Jon Hiseman. La seconda edizione (Colosseum II) esordì discograficamente nel 1976 e durò un paio d’anni; la band tornata a chiamarsi semplicemente Colosseum resuscitò per le inevitabili reunion, prima a metà degli anni Novanta e poi all’inizio degli anni Duemila. Infine la scomparsa dello storico sassofonista Dick Heckstall-Smith nel 2004 e soprattutto quella di Hiseman nel 2018 ne hanno decretato la fine.
Ritrovati e restaurati
Non quella discografica, però, perché nel 2020 si è assistito a un ritorno a dir poco ingente. Tutto merito dell’etichetta Repertoire che ha pubblicato un mucchio di altre registrazioni, a iniziare da altre provenienti dal medesimo mini tour britannico del 1971 dal quale proveniva il materiale impiegato per compilare il succitato Colosseum Live. Ne è scaturito un doppio album intitolato altrettanto didascalicamente Colosseum Live ’71 e composto in realtà solo per metà da inediti, un ennesimo rimescolamento di carte toccato alla discografia della band. L’etichetta tedesca ha però voluto fare le cose in grande e ha anche pubblicato altri quattro live album, tutti già noti in edizione pirata o bootleg che dir si voglia (qualcosa anche in antologie ufficiali), rimessi per quanto possibile a nuovo e autorizzati dagli ex componenti del gruppo.
Si tratta dei concerti tenuti nel 1969 a Boston (Live at the Boston Tea Party) e a Montreux (Festival International De Jazz Montreux Suisse 18 – 22 Juin 1969), nel 1970 a Turku (Live at Ruisrock Festival, Turku, Finland, 1970) e nel 1971 a Roma (Live at the Piper Club, Rome, Italy 1971).
Infine, il piatto forte: un box di ben sei compact disc intitolato eloquentemente Transmissions – Live At The BBC. Una ricostruzione delle loro incursioni in varie trasmissioni radiofoniche incluse quelle celeberrime condotte da John Peel: Top Gear e Sounds of the 70s’.
In massima parte è materiale proveniente dagli archivi della BBC ma sono presenti anche rare registrazioni effettuate all’epoca da fan del gruppo recuperate in qualche modo e restaurate insieme al resto dallo staff della Repertoire con la collaborazione della figlia di Hiseman, Ana Gracey, a sua volta una cantante di blues e jazz dalla voce non trascurabile. Anche in questo caso, si tratta di registrazioni parzialmente circolate su bootleg e qualcosa in edizione ufficiale. Nell’insieme la qualità audio è altalenante. È sufficiente ascoltare il quinto disco per prenderne atto del tutto. In scaletta ci sono quattro registrazioni risalenti al 21 luglio 1970, dall’audio appena sufficiente perché il suono d’insieme è purtroppo a tratti impastato, mentre le altre quattro registrate il 19 febbraio dell’anno dopo sono al contrario di buona qualità con un fronte sonoro piuttosto nitido.
Il rammarico è ancora maggiore se si tiene conto che il primo blocco vede i Colosseum affiancati dalla New Jazz Orchestra diretta da Neil Ardley, uno dei piccoli grandi geni del jazz britannico e per giunta alle prese con una sua composizione, la cristallina Shades of Blue e tra gli altri con un brano divenuto già allora quasi un anthem delle nuove musiche del tempo. Si tratta di Tanglewood ’63, firmata da un altro protagonista storico di quella scena, ovvero Mike Gibbs, a indicare una volta di più i legami di parentela dei Colosseum con il nuovo jazz britannico nonostante la svolta rock. La composizione di Gibbs rimase stabilmente nel repertorio della band, in scaletta nei loro concerti di allora e anche nelle riunioni degli anni successivi. Prova ne siano l’esecuzione a Canterbury inclusa in Colosseum ’71 al Piper, oltre a quella presente nel classico Colosseum Live.
Riassumendo, sono ben dodici dischi quelli immessi sul mercato dall’etichetta tedesca per documentare l’attività concertistica dal 1969 al 1971 della band sui palchi e negli studi radiofonici. Una mole eccessiva, se si considera l’esiguità del repertorio (solo tre gli album in studio) e anche la qualità audio non sempre soddisfacente. In generale, però, il tempo ha scalfito poco la bellezza di queste scorribande sul palco, non ne ha attenuato l’energia e la potenza di fuoco della band. Si arriva fino al settembre 1971, in pratica l’addio perché a novembre di quell’anno la band nei fatti non esisteva più.
Una storia londinese
Si chiudeva così una storia iniziata da tre ragazzi ai tempi del liceo. Cresciuti a tea, bacon, scrambled eggs… skiffle, rock‘n’roll, beat e rhythm and blues, Dave Greenslade, Tony Reeves e Jon Hiseman, di età tra i quattordici e quindici anni, si ritrovavano ogni tanto “nel diciottesimo secolo” come scherzosamente ricorda Greenslade (cfr. Wells, 2009) a suonare nel South East di Londra. Si esibivano in una sala di una chiesa adibita a spazio concerti per tornei di quartiere tra giovani musicisti, competizione che vinsero non tanto per meriti propri, quanto per la scarsa qualità delle proposte, come modestamente ebbe a precisare Reeves (cfr. ibidem). Questi all’epoca suonava il contrabbasso e solo successivamente approdò al basso elettrico. Hiseman completava la sezione ritmica alla batteria, mentre Greenslade suonava l’organo. Gli studentelli si fecero poi le ossa in oscure formazioni. Hiseman e Reeves nei Wes Minster Five, Greenslade nei Thunderbirds che avevano come voce solista Chris Farlowe. Insieme a lui Greenslade fece parecchie cose, suonando in diversi album e singoli, ma paradossalmente non nell’unico hit che Farlowe mise a segno, la cover di Out of Time dei Rolling Stones, contenuto in Aftermath (1966), che piazzò in cima alle classifiche nell’estate del 1966, spuntandola su Hollies, Troggs, Elvis Presley e Petula Clark e la meteora Los Bravos.
I tempi stringono, la scena musicale è cangiante come non mai, Reeves lasciati i Wes Minster Five si fa le ossa alla Decca all’ufficio qualità dove sente di tutto, dai canti gregoriani a Chubby Checker (il paladino del twist) e le grandi orchestre come quella di Paolo Mantovani. Passa a lavorare con l’etichetta Pye (in scuderie la Clark, Sandie Shaw, i Searchers e i Kinks), finendo tra i session men degli Orchestral Sounds guidati da John Schroeder, che mandarono in classifica il brano Cast Your Fate to the Wind (1964). Partecipa poi alle sedute di registrazione dell’Alan Bown Set (dove militava la futura pop star, Robert Palmer) e degli Episode Six, il nucleo da cui scaturirono i Deep Purple.
Quanto a Hiseman, che sarebbe diventato il vero leader dei Colosseum, il suo è il percorso più vicino al jazz: suona nel trio di una promessa come il pianista Mick Taylor, la cui vita si spense troppo presto, inizia a lavorare con Ardley e la sua New Jazz Orchestra, e con il fenomenale Georgie Fame e i suoi Blue Flames, mattatore della beat era (con l’irresistibile versione di Yeh Yeh interruppe nel 1965 il dominio dei Beatles in cima alle classifiche inglesi). Infine, entra a far parte di una ennesima nuova formazione dei Bluesbreakers, la bottega eccellente del british blues, scuola di formazione di talenti come Eric Clapton (poi nei Cream), Peter Green (in seguito nei primi Fleetwood Mac) e Mick Taylor, futuro sostituto di Brian Jones nei Rolling Stones.
John Mayall, il maestro artigiano aveva aperto le attività sin dal 1963 e a lui, così come ad Alexis Korner e ai suoi Blues Incorporated, si deve la prepotente traduzione del blues in lingua inglese. Quello che i tre hanno alle spalle è una sorta di grande magazzino fornito di tutti i generi di prima necessità, ammucchiati senza grande ordine, in attesa di trasformarsi in nuova materia prima. Un giro di boa fondamentale è proprio l’arrivo di Hiseman nei nuovi Bluesbreakers. Mayall guarda oltre l’orizzonte, pensa di sconfinare definitivamente dalla tradizione e inizia a concepire l’album Bare Wires, visionario rock blues intriso di psichedelia. Gli occorre un nuovo bassista e Hiseman gli suggerisce Reeves. I due si ritrovano in una band nella quale è stato ingaggiato anche un valente sassofonista, l’occhialuto Dick Heckstall-Smith. Lui ha trascorsi in un combo, quello dell’organista Graham Bond, mai rivalutata appieno: la Graham Bond Organization. Heckstall-Smith e Bond si frequentavano sin dal 1962, quando suonavano nel quintetto jazz di Don Rendell. Nella Organization suonò anche Hiseman che qui conobbe Heckstall-Smith, prima di entrare insieme a far parte dei nuovi Bluesbreakers.
Storia sventurata quella di Bond, travolto da un treno della metropolitana londinese nel 1974, complice forse la poca lucidità per eccesso di sostanze varie. Non a caso, Heckstall-Smith ricordò in seguito che già ai tempi della Organization, lui e Hiseman pensavano a una nuova band, dove non circolassero droghe e altre distrazioni di cui non ne potevano più (cfr. Wells, 2009). Insieme a Bond avevano suonato non poco anche Jack Bruce e Ginger Baker, gli altri due futuri Cream, e con tutti loro il chitarrista John McLaughlin, protagonista, anni dopo, del fondamentale Bitches Brew (1969) di Miles Davis.
Nascita di un progetto
In questo girotondo di formazioni, di intrecci, di legami prima sempre più saldi, poi disfatti, prende vita l’idea di Colosseum. Pubblicato Bare Wires (1968), il numero dei componenti dei Bluesbreakers si ridusse per scelta di Mayall. Hiseman per un po’ rimase nel giro in un quartetto e quando la formazione si prese una pausa, si ritrovò con Heckstall-Smith a ipotizzare la creazione di una nuova band. Complice una vacanza romana con la moglie, la sassofonista e flautista Barbara Thompson, altra protagonista del nascente jazz inglese (e collaboratrice a più riprese dei Colosseum stessi), Hiseman cominciò con il trovare il nome della band dall’alto del Palatino, da dove godeva di una vista unica: quella del Colosseo.
Il nome non fu l’unica cosa chiara che Hiseman avesse in mente. Voleva in formazione i vecchi compagni Reeves, Greenslade e Heckstall-Smith, cosicché, chiuso definitivamente il rapporto con Mayall, nell’estate del 1968 nacque il provvisorio quartetto Jon Hiseman’s Colosseum e iniziò la ricerca di un chitarrista e di un cantante. La scelta cadde su James Litherland e Jim Roche, il primo voce e chitarra ritmica, il secondo chitarra solista. È questa la formazione che entrerà in studio per registrare in soli tre giorni il gladiatorio Those Who Are About To Die, Salute You nel novembre del 1968. Provano un po’, Roche non supera l’esame, esce e resta Litherland al quale viene affidata la chitarra solista, rafforzando la ritmica con maggiore aggressività da parte di Reeves e il sostegno di Greenslade.
In quei giorni registrano anche una cover del brano di Quincy Jones, In The Heat of The Night, tema del film di Norman Jewison, noto in Italia come La calda notte dell’ispettore Tibbs con Rod Steiger e Sidney Poitier (1967), brano cantato da Ray Charles nella versione presente nella soundtrack. Se per la parte vocale non c’è storia, né confronto, l’arrangiamento è invece di buona fattura. Il brano uscirà in un box antologico della Sanctuary (sul quale si ritornerà più avanti) intitolato come l’album d’esordio ma nell’originale latino: Morituri Te Salutant (2009).
Per aprire l’album, invece, si scelse un cavallo di battaglia di Graham Bond, Walkin In The Park, dal riff altrettanto poderoso e trascinante, caratterizzato da un solo di chitarra inghirlandata dagli effetti del pedale wah wah. Diede una mano ai fiati la tromba suonata dal jazzista Henry Lowther, anch’egli della partita nel Bare Wires di Mayall. L’album offriva anche del blues reinventato, come il festoso Debut, con brillanti e misurati assoli di Heckstall-Smith, Greenslade e del pirotecnico Hiseman, e soluzioni più canoniche, come il classico Backwater Blues di Leadbelly (l’unico brano registrato con Roche), con il sassofonista ancora in bella evidenza con un affusolato assolo, a mostrare come il collettivo e l’individuale fossero in equilibrio.
Un collaboratore… d’eccezione: Bach
Fulcro del disco è Beware The Ides Of March, con un inizio decisamente simile al mega hit dell’estate ‘67: A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum. In realtà, a essere in comune non era il brano dei Procol Harum, quanto la base di partenza, bachiana. Il brano, infatti, a detta dello stesso Matthew Fisher, organista dei Procol Harum, era direttamente ispirato all’Aria e al corale preludio BWV 645. Non è difficile, infatti, riconoscere nell’attacco del pezzo (prima battuta più 1/4 della seconda) la medesima sequenza armonica dell’Aria, evidenziata dalla successione delle note del basso (dalla tonica alla sottodominante in fase discendente). Allo stesso modo risulta evidente la sovrapposizione della notazione di A Whiter Shade of Pale (seconda e terza battuta, terzo quarto, in entrambi i casi) con le battute 8 e 9 del corale preludio. Il malizioso A Whiter Shade of Powell, registrato il 19 gennaio alla BBC, scopre le carte in due minuti e mezzo. Lo si ascolta nel primo dischetto del box Repertoire.
L’ombra del Kantor di Lipsia si farà più netta nell’album successivo, il capolavoro dei Colosseum: Valentyne Suite. Il primo album non fu un grande successo da un punto di vista commerciale, compreso il singolo Walking in the Park, che combinò poco. Ancora meno riuscì l’idea di fare un 45 giri da classifica: Tell Me Now. Fu anche registrato, ma venne pubblicato solo tra gli inediti del box Sanctuary. Si ingaggiò per l’occasione un compositore di successo, Tony Hazzard, che aveva scritto per Manfred Mann, Hollies, Cliff Richard, Lulu, Herman’s Hermits e altri campioni delle hit parade dell’epoca, ma non funzionò, anche perché il brano era, a dire il vero, piuttosto brutto, decisamente al di sotto dello standard qualitativo della band. Eppure il gruppo catturò parecchia attenzione. Prova ne sia l’apparizione al Bath Blues Festival del giugno 1969 in gran bella compagnia: Nice, Fleetwood Mac, Chicken Shack, John Mayall, Led Zeppelin. Si fece notare soprattutto Hiseman con un assolo torrenziale, poi divenuto una specie di “obbligo” nelle sue performance dal vivo.
Quello stesso mese, nei giorni 21 e 22, la band si esibì sempre con successo, al prestigioso festival jazz di Montreux, come documenta la nuova edizione delle Repertoire. Dopo Montreux, la band si avventurò in tourneé negli Usa ed è da qui che arriva il sopra citato Live at the Boston Tea Party caratterizzato da una buona qualità di registrazione così come il live svizzero. Al rientro in patria, Litherland lasciò la band per formarne una propria, i Mogul Trash, che si spensero dopo un solo album di buona fattura. Gli subentrò David “Clem” Clempson, cresciuto a blues e psichedelia nei Bakerloo, anch’essi con un solo album all’attivo. Clempson debuttò alla radio, nel programma tenuto da John Peel, Top Gear. Qui, il 22 novembre 1969, i Colosseum eseguono due brani con il nuovo chitarrista: il grintoso e acido Arthur’s Moustache, e Lost Angeles, dove Clempson si assume anche il compito di eseguire la parte vocale e ha modo di mettersi in mostra in un classico assolo dal sapore underground, seguito da un ruggente solo di Heckstall-Smith. I due brani fanno ora parte del box Repertoire.
Un masterpiece dell’epoca
Prima di esibirsi a Montreux, i Colosseum si erano recati negli IBS Studios, dove dal 16 al 18 avevano registrato l’album Valentyne Suite, e proposero la suite in anteprima come piatto forte del concerto. In versione ancor più collaudata e straripante la si ascolta anche nello sfavillante concerto di Boston con il sontuoso drumming di Hiseman che fa quasi dirottare la prima parte (January’s Search) verso il Bolero di Maurice Ravel.
L’album in studio è la summa del bagaglio di esperienze e suggestioni accumulatesi negli anni, oltre a essere un’eccellente messa a fuoco di quella tensione verso il nuovo senza confini, a cui tendeva tutta la scena musicale dell’epoca. Fu quel disco a inaugurare la celeberrima label Vertigo, nata come marchio satellite del gruppo Philips, che subito impose anche il suo look, il vortice (swirl) bianconero che marchiava il centro del vinile, inventato dal cover designer Roger Dean. La scuderia Vertigo divenne prestigiosa in pochi anni, grazie ad artisti come Black Sabbath, Rod Stewart, Uriah Heep, Gentle Giant, Manfred Mann’s Chapter Three, Affinity, Nucleus, Patto, Bob Downes, Vangelis, e Status Quo, per dire dei più celebri, tra cui alcuni campioni del progressive rock. Un’etichetta che dava asilo a suoni fino al giorno prima distanti, non poteva non aprire le danze che con un album come quello dei Colosseum.
La prima facciata è affine al precedente album, con quattro brani relativamente brevi. Apre il nerboruto rock psichedelico Kettle, con un brillante e tiratissimo assolo di Litherland. Raffinata la successiva Elegy, con gli interventi di un quartetto d’archi arrangiati dal sodale Ardley. Mirabile il ricamo al sassofono soprano di Heckstall-Smith. Il successivo Butty’s Blues è fedele al mandato del titolo e dal vivo divenne un brano tra i più trascinanti del repertorio (ben cinque le versioni recuperate dagli studi della BBC). Il lato A chiudeva con The Machine Demands A Sacrifice, rock-blues lisergicamente speziato, arricchito con un testo scritto da Pete Brown, il paroliere degli ormai disciolti Cream. The Valentyne Suite posta sul secondo lato mostrava al grado massimo la coesione ormai raggiunta dalla band. Suddivisa in tre parti (Theme One – January’s Search, Theme Two – February’s Valentyne, Theme Three – The Grass Is Always Greener…), danzava leggiadra tra i generi, dal blues al barocco, dal jazz al rock più duro. Un capitolo chiave della storia musicale degli anni Settanta.
Si è accennato alla versione statunitense diversa da quella europea. Infatti, l’edizione Usa di Valentyne Suite, simile nella copertina, proponeva nuovi brani, che vedevano già all’opera il nuovo chitarrista, Clempson. In pratica un altro album, che riprendeva incompleto il titolo del terzo movimento della suite: The Grass Is Greener. Includeva la citata Lost Angeles (registrato in studio), il pimpante Jumping Off The Sun dal motivetto beat, un Ravel’s Bolero (rieccolo!) con fuga rock e un brano scritto dal vecchio amico Jack Bruce: l’arzigogolata Rope Ladder To The Moon. Era assente Kettle e mancavano le prime due parti di The Valentyne Suite, perché in buona parte uscita nella versione Usa del precedente Those Who Are About To Die, Salute You. Cambiò anche il titolo, che prese a prestito quasi del tutto quello della terza parte della suite: The Grass Is Greener. In tour agli inizi del 1970 con il nuovo chitarrista, la band accusò l’uscita dello storico bassista Reeves, prima sostituito da Louis Cennamo e poi definitivamente da Mark Clarke.
La nuova voce della band
In giugno, con Cennamo in organico iniziano a registrare il loro terzo e ultimo album in studio: Daughter of Time. Cennamo registrerà quattro dei sette brani (l’ottavo è il consueto assolo di Hiseman, nell’occasione estratto da un concerto alla Royal Albert Hall). Hanno anche un altro problema da risolvere: a chi affidare le parti vocali, poiché Clempson continua a ritenersi soprattutto un chitarrista e non un cantante. L’uomo prescelto arriva dal passato: Chris Farlowe, il cantante solista dei Thunderbirds nei quali aveva militato da giovanissimo Greenslade.
I Colosseum (da sinistra): Dave “Clem” Clempson (in basso), Dave Greenslade (in alto), Chris Farlowe, Mark Clarke, Dick Heckstall-Smith, Jon Hiseman.
L’album non prosegue nella scia delle lunghe storie prog che tutti si danno da fare a confezionare all’epoca e di cui Valentyne Suite aveva fatto da battistrada. Daughter of Time è il disco pop-jazz della band. Farlowe colora non poco con la sua voce tonante e torna all’opera Neil Ardley, che arrangia archi e fiati (parteciparono alle sedute anche Derek Wadsworth al trombone, Harry Beckett alla tromba e Barbara Thompson, flauto e sassofoni) in Time Lament e nel brano eponimo.
Si rivedono anche Jack Bruce e Pete Brown, autori di Theme From an Imaginary Western. Nell’unico brano cantato da Clempson, Take Me Back To Doomsday, questi si destreggia bene per la verità, ma la voce di Farlowe, potente, ruggente e ricca di sfumature si rivelò una scelta azzeccata, specie per la tenuta sui palcoscenici, anche se nei concerti estivi, quell’anno fanno ancora a meno di lui, come testimonia il concerto finlandese di Turku. Farlowe venne messo alla gogna dalla critica musicale italiana che mal sopportava il suo vocione (“terribile”, “melodrammatico”, si disse all’epoca), ma il tempo gli ha reso giustizia. La band decise che il sound necessitava di una dose ulteriore di peso, di essere heavy senza snaturarsi del tutto per affrontare platee sempre più affollate e il vecchio amico fornì il necessario alla bisogna. Basterebbe ascoltare la versione di Downhill and Shadows registrato alla BBC (8 novembre 1970, ora nel cd 5 del box Repertoire) per rendersi conto della funzionalità della sua voce al sound della band, che scommise su un altro azzardo: essere rudi e sofisticati al tempo stesso.
Una formazione da concerto
Eccoli dunque al momento della svolta, in vista della fine. In quel momento ha fatto un bel botto il Live at Leeds (1970) degli Who, capace di rendere conto dell’energia che i quattro sprigionavano dal vivo. I Colosseum decidono di fare altrettanto, di non puntare a un nuovo album in studio, ma di fissare tra i solchi del vinile tutta la forza che sono capaci di esprimere sul palco. Iniziano il 12 febbraio esibendosi all’Università del Kent a Canterbury. Il mese successivo sono due volte all’Università di Manchester (13 e 18 marzo) successivamente il 13 marzo 1971 esibendosi all’Università di Manchester, a Brighton il 27 e a Bristol (data sconosciuta).
Il primo concerto di Manchester venne aperto da un classico che Farlowe aveva addirittura già inciso nel 1965 con lo pseudonimo di Little Joe Cook: Stormy Monday. Il brano non apparve per primo nella selezione che andò a comporre Colosseum Live, perché si scelse di aprire con una esplosiva versione di Rope Ladder To The Moon. Il risultato cercato era già raggiunto dopo poche battute, l’attacco del brano che qui si trasforma in una grido di battaglia lanciato dall’ugola di Farlowe e dalla chitarra di Clempson, rende subito l’idea. L’album rimase sei settimane nelle classifiche raggiungendo il diciassettesimo posto, non male per un doppio album comunque non proprio commestibile.
La band non arrivò alla fine dell’anno, ai primi di novembre venne presa la decisione ufficiale di sciogliersi. Del concerto tenuto a Canterbury non si utilizzò nulla. Tutto sommato si può condividere la selezione realizzata allora forse per via di una maggiore sintesi. Questione di lana caprina, probabilmente, perché anche a Canterbury la band sfoggiò grinta, abilità strumentale, anche un po’ di istrionismo e non solo per via di Farlowe. Ciononostante almeno la versione di Walking in the Park quanto mai turgida avrebbe meritato l’uscita già all’epoca. Notevolissima la rimasterizzazione che fa risplendere tutta la tonante bellezza del suono Colosseum.
Pasticci discografici e fine della storia
Infine, una breve nota sulle vicende discografiche di questi concerti è necessario stenderla. Nell’edizione Esoteric, Colosseum Live è tornato a essere un doppio (stavolta due compact disc), ma non proponendo alcun inedito, dal momento che tutte le bonus track del secondo cd erano state già pubblicate nel 2009 nel sopra citato Morituri te salutant pubblicato dalla Sanctuary. L’intero pacchetto è migrato a sua volta integralmente dal secondo cd dell’edizione Esoteric al secondo del doppio Colosseum ’71 della Repertoire, che invece nel primo cd sistema il concerto tenuto a Canterbury, all’Università del Kent. In sintesi: uno dei quattro dischi è un doppione.
Tornando alle vicende storiche della band, il sestetto fece a tempo anche a rendere omaggio alla sede del Colosseo, con il concerto tenuto al Piper, ma purtroppo è il disco più scadente quanto a qualità della registrazione del poker calato dalla Repertoire, per giunta viziato da una tendenza a strafare con gli assoli (per esempio quello chitarristico di Clempson in Skellington).
Discograficamente la storia si conclude con la partecipazione a Sounds of the 70s il 10 settembre 1971. I quattro brani riportati in Transmissions Live at the BBC accrescono il rammarico. La band non appare affatto svogliata né priva del consueto mordente. La scaletta non è farcita con i soliti classici della band, ma da brani poco eseguiti e per metà mai registrati: Sleepwalker (a tratti il brano dal sound più progressive mai espresso) e la cupa Upon Tomorrow. I restanti due, sono la gioiosa Jumping of the Sun ripescata dall’ellepì statunitense The Grass is Greener e il tesissimo The Pirate’s Dream dal vertiginoso giro di basso e la pirotecnica gincana tra blues e rock, un brano che Heckstall-Smith porterà con sé per il primo album intestato a suo nome. Anche in questo caso, la qualità audio è più che buona. Infine, il 5 novembre 1971, in un pub di Tottenham Court Road la storia si conclude.
Tra i motivi che causarono lo scioglimento, in seguito, proprio Heckstall-Smith indicò l’impossibilità di scrivere nuova musica per mancanza di tempo, dovuto proprio all’attività concertistica (che teneva economicamente in piedi i Colosseum) e l’eccessiva dipendenza dalla leadership di Hiseman.
Andati in pezzi i Colosseum si sparsero in varie formazioni, nessuna del medesimo valore: Tempest, Humble Pie, Greenslade, Atomic Rooster. Aiutato dai vecchi compagni, Heckstall-Smith pubblicò un album a suo nome nel 1972 facendosi dare una mano da Greenslade, Farlow dallo stesso Hiseman e da Graham Bond. Si intitolava A Story Ended, tanto per ribadire come stavano le cose. Nel 1976 Hiseman allestì, come si è detto, una seconda edizione dei Colosseum, ma durò poco senza lasciare alcun segno. Tra varie vicissitudini e altre band formate e disfatte, si arriva alle riunioni nostalgiche della formazione originale, sotto il segno della retromania, che la scomparsa di Heckstall-Smith ha interrotto. Dopo gli ultimi concerti del 2015 tenuti con sua moglie Barbara Thompson al posto di Heckstall-Smith, si è preso cura di alcune magnifiche produzioni del miglior jazz d’oltremanica, come quelle firmate da Mike Westbrook, lasciandoci infine il dodici giugno del 2018. I Colosseum avevano mestiere da vendere, erano âgée ma non bolsi, e gli ultimi concerti hanno regalato ancora emozioni, ma quelle che suscitavano all’epoca, quando scendevano nell’arena, sono irripetibili. Oramai, però, questa è diventata storia. È il destino dei Colosseum.
- Graham Bond, Live At BBC and Other Stories, Repertoire, 2015.
- Colosseum, Those Who Are About To Die, Salute You, Esoteric, 2017.
- Colosseum, Valentyne Suite, Esoteric, 2017.
- Colosseum, Daughter of Time, Esoteric, 2017.
- Colosseum, Colosseum Live, Esoteric, 2016.
- Colosseum, Live at the Boston Tea Party, Repertoire, 2020.
- Colosseum, Festival International De Jazz Montreux Suisse 18 – 22 Juin 1969, Repertoire, 2020.
- Colosseum, Live at Ruisrock Festival,Turku, Finland, 1970, Repertoire, 2020.
- Colosseum, Live at the Piper Club, Rome, Italy 1971, Repertoire, 2020.
- Dick Heckstall-Smith, A Story Ended, Esoteric, 2016.
- John Mayall, Bare Wires, Deram/Universal Music, 2007.
- David Wells, Morituri Te Salutant. Colosseum: 1968-2003 On Stage & In The Studio, booklet, in Morituri Te Salutant, Sanctuary, 2009.