Quando apparve nel 1977 il primo disco realizzato in collaborazione tra Brian Eno e i Cluster (Dieter Moebius e Hans-Joachim Roedelius), a colpire, prima ancora della musica, fu la copertina: un microfono sorretto dal suo supporto in primo piano, sullo sfondo un campo in fiore. Quel gambo con il suo fiore elettrico, sorto dalla terra alla pari degli altri suoi figli, era un’icona perfetta per fare da sintesi ai concetti di tradizione, naturalità, artificio e modernità, che ispiravano i suoni contenuti dall’album e anche della storia degli artisti che ne erano gli autori. Non necessitando d’altri chiarimenti, il disco si intitolava semplicemente Cluster & Eno e oggi ritorna in un box che contiene gli otto album ufficiali, rimasterizzati, realizzati con la sigla Cluster nell’arco di un decennio a partire dal 1971. La scatola l’ha realizzata l’etichetta Bureau B, da anni impegnata a ricostruire parte del complesso mosaico della musica elettronica tedesca degli anni Settanta e Ottanta in particolare. L’etichetta aveva già ristampato sei di questi dischi: Cluster 71, Sowiesoso, Cluster & Eno, After The Heat, Grosses Wasser e Continuum, mentre Cluster II e Zuckerzeit mancavano all’appello, pur avendo già visto luce in compact disc per altre label. Nel box è stato anche incluso un nono cd (o long playing, l’edizione è nei due formati, come è ormai uso) contenente registrazioni live inedite risalenti al 1972 e al 1977. Operazione dunque degna di nota, ma discutibile, tra tanto merito, appare la scelta di relegare nel booklet le copertine originali degli album, preferendo colorare le singole confezioni con sfumature progressive dal giallo pieno al rosso mattone (una porzione di pantone in compendio, si potrebbe dire). Motivo di tale scelta grafica è stato quello di lavorare sui colori predominanti nella copertina del primo album, Cluster 71 e arriva da lì, infatti, anche il blu scelto per il box.
Cromatismi a parte, la storia che questo box racconta è di quelle che appartengono al ceto nobile della musica nata negli anni Settanta, una vicenda che non nacque dal nulla, né piovve dal cielo, ma iniziò a muovere i suoi primi passi sul finire del decennio precedente, quando lo svizzero Dieter Moebius trasferitosi a Berlino e Hans-Joachim Roedelius, che a Berlino era nato, iniziarono ad agire in trio con il nome di Kluster. Il terzo membro della band era Conrad Schnitzler, allievo alla Fine Arts Academy di Düsseldorf dell’artista concettuale Joseph Beuys. Membro di Fluxus, fautore di un’arte totale e di una sovrapposizione tra questa e la vita stessa, tra performance e happening, Beuys si era imposto come un autentico sciamano sulla scena artistica internazionale già a metà anni Sessanta e per Schnitzler fu un’esperienza formativa fondamentale. Trasferitosi a Berlino creò lo Zodiak Free Arts Lab insieme a Roedelius, tra gli altri, con cui aveva iniziato a fare musica in oscure formazioni (i Plus Minus, gli Human Being e i Noise). Sperimentalismi ingenui ma che lasciavano capire di che pasta fossero fatti i due. Lo stesso spirito del tempo, in fondo beuysiano, animava anche lo Zodiak Free Arts Lab, dove si azzardavano intrecci tra diverse discipline artistiche. Nell’orbita di Schnitzler entrò presto anche Moebius, allora studente all’Akademie Grafik di Berlino. Ruvida, a tratti tribale, la musica elettronica dei Kluster era nel segno del caos creativo, un laboratorio sonoro acerbo documentato da tre album ufficiali (Klopfzeichen, Zwei-Osterei ed Eruption), ai quali vanno sommati diversi dischi, contenenti registrazioni inedite, pubblicati in questi ultimi anni. Il 1970 segnò la fine del sodalizio con Schnitzler. Irrequieto, nomade e visionario, questi si unì a un altro giovane musicista, Edgar Froese, a capo di un gruppo in cerca d’identità: i Tangerine Dream. Anche qui in trio, Schnitzler battezzò il primo disco dei futuri corrieri cosmici, insieme a Klaus Schulze, all’epoca batterista, prima di intraprendere nuove avventure. A loro volta, Moebius e Roedelius modificarono il nome in Cluster, dando inizio al nuovo corso. I primi due album sistematizzarono il lavoro di ricerca dei due anni precedenti in virtù di un maggiore equilibrio, pur conservando il carattere astratto della loro elettronica delle origini. In realtà, spunta un nuovo terzo uomo sin da questi primi lavori: Conny Planck, ingegnere del suono che ne accompagnerà le gesta per lungo tempo. Nel suo Star-Musik Studio di Amburgo i Cluster confezionano i tre brani che compongono Cluster 71 (uscito su etichetta Philips). È una musica senza inizio e senza fine, con i tempi di durata a fare da titolo dei brani, che fluttua in ogni direzione, dove rumore e suono sono strutturati in modo da mantenere costante l’equilibrio tra la natura colta e quella pop della musica, e sono assenti ritmi e armonie. Tutti fattori oggi piuttosto ovvi, ma non così in quell’inizio degli anni Settanta. Impropriamente etichettata come krautrock all’epoca, la musica solo a tratti ricordava le esplorazioni dei coevi Tangerine Dream, per il resto una new thing autentica. La seconda uscita, l’altrettanto dissonante Cluster II (su etichetta Brain) si muove sulla medesima lunghezza d’onda. Registrato sempre ad Amburgo, include del materiale proveniente da un concerto tenuto alla Fabrik di Amburgo; è il concerto da cui arriva anche la porzione datata 1972 del nono disco contenuto nel box.
Di nuovo tutto il suono sembra live e di studio al tempo stesso per immediatezza e cura dei dettagli. Una rhythm machine di fresco inclusa nell’equipaggiamento del duo illuminava nuove strade da percorrere, donando al tutto un’energia ineguagliabile, ed è sufficiente la partenza a razzo di Plas per rendere l’idea. Rimarchevole poi la scelta fatta sulla lunghezza, o meglio la brevità dei brani, che non superano i quindici minuti (il Live in der Fabrik), ma si scende anche sotto i tre minuti, in un periodo in cui si tendeva a proporre sequenze interminabili, jam elettriche o voli elettronici, suite e improvvisazioni che a stento venivano contenute sulla facciata di un ellepì o sull’intero disco. Non è un semplice dato numerico: i Cluster iniziano a mettere a fuoco la loro ricerca dell’essenziale. Bordoni elettronici taglienti, sequenze minimali reiterate che scorrono in virtù di un falso movimento. La svolta arriva con il disco successivo, che inaugura una nuova era, zuccherosa: Zuckerzeit, datato 1974 (sempre per l’etichetta Brain). Ancor prima di cambiare musica i due cambiano vita, lasciando la complessità metropolitana di Berlino preferendo la quiete di una località agreste, Forst, nei pressi del fiume Weser, in Bassa Sassonia. Qui si mettono in proprio, con uno studio di registrazione con il quale agire in totale autonomia, una scelta comune ad altre band tedesche dell’epoca, i Can a Colonia e i Faust a Wumme, ma anche la comune anarco-freak di Colonia nota come Amon Düül. Dal caos metropolitano sfuggì nello stesso periodo anche un altro musicista, Michael Rother da Amburgo, che con Klaus Dinger aveva dato a vita a una formazione destinata ad avere grande influenza sulle generazioni successive: i Neu!, i primi a fare del ritmo la spina dorsale della musica elettronica. Significativa ma breve avventura la loro. Sciolto il sodalizio, Rother si unì ai due Cluster dando vita a una formazione più orientata al pop, dove l’accento è sempre forte sul ritmo, che agì in parallelo per qualche anno: gli Harmonia. La svolta si avverte subito anche nella produzione targata Cluster, proprio a partire da Zuckerzeit, al quale contribuirà ancora Planck, dove il cesello, la miniatura (ormai i brani non sorpassano i sei minuti) diventano la cifra estetica del gruppo. Si innervano melodie e ritmi prima assenti, tutto è fuorviante, fintamente fragile, dall’iniziale marcetta di Hollywood al ricamo di Rosa al sentimentalismo di Marzapan, oppure si accenna al danzabile (Caramel, Caramba, per esempio), dando conforto a quanto scrive, nelle note del booklet, Asmus Tietchens, musicista tedesco della generazione successiva ai Cluster: che in realtà Zuckerzeit è composto da due mini ellepì, attribuibili uno a Moebius e uno a Roedelius. I dischi dei Cluster iniziano da qui a essere sognanti oltre che ipnotici. La sintesi arriverà con forma più stabile e omogenea nel successivo Sowiesoso (1976, su etichetta Sky), album elettroacustico di insostenibile leggerezza, incompreso in un’epoca che stava per dare vita all’ondata rumoristico- industriale e ancora celebrava i fasti dei gruppi, più o meno sensatamente, indicati come corrieri cosmici o krautrocker. Il brano eponimo è leggiadro e ritmato, velato di malinconia proprio quando il ritmo si fa più deciso, Zum Wohl è il preludio ai due dischi successivi con Eno. In quell’anno, Brian Eno, alle prese con i dischi berlinesi di David Bowie (Low, Heroes e Lodger) e che aveva sviluppato al massimo grado il tocco da re Mida del pop, iniziò una collaborazione con i succitati Harmonia che avevano già pubblicato all’epoca due album (Musik von Harmonia e Deleuxe).
I quattro diedero vita a un unico disco, Tracks and Traces, ma il rapporto di Eno con Moebius e Roedelius proseguì. I tre trascorsero insieme buona parte del mese di giugno del 1976 negli studi di Planck e le sedute fruttarono due dischi, il citato Cluster & Eno (1977) e After The Heat (1978) entrambi pubblicati dall’etichetta Sky. Sulla vexata quaestio se furono i Cluster a suonare in due dischi di Eno o viceversa, in mancanza di date precise delle singole registrazioni, si può solo aggiungere che probabilmente nel primo i tre lavorarono di più su materiale originale dei Cluster e sul secondo la materia prima era dell’inglese, come suggeriscono quantomeno i tre brani cantati posti a chiusura dell’album: Broken Head, The Belldog e Tzima N’Arki. Congetture. Nello stesso anno Eno pubblicò il suo Before and After Science (anche qui con l’onnipresente Plank) e vi incluse la deliziosa By The River eseguita in compagna dei Cluster, ma si trattava di un brano su cui Roedelius lavorava da anni, come è stato riportato alla luce da un’altra operazione targata Bureau B, le bozze e gli appunti sonori raccolti sotto il titolo di Tape Archive 1973-1978, dove compaiono ben tre Skizze del brano. Poche note e l’intreccio si chiarisce, svelando quella che in pratica è sempre stata una comunione di vedute, zen elettronico lo si è definito, una sintonia e una sola idea di musica che i tre condividevano, compresa l’incoercibile propensione a non lasciare nulla di inesplorato, percorrendo contemporaneamente strade parallele. Prova ne sia la seconda tranche del bonus disc live incluso nel box, che riporta un estratto dall’esibizione dei Cluster al Festival International De La Science Fiction di Metz del 1977. Nell’occasione, aliena, ricompare, come il monolite kubrickiano, un’elettronica densa, cupa, che riporta al passaggio di consegne tra Kluster e Cluster. Gli intrecci e i ritorni al futuro non finiscono qui. Nel 1979 viene pubblicato dalla Sky l’album Grosses Wasser e ancora una volta è la copertina ad anticipare l’offerta musicale segnata da un minimalismo accentuato: un trampolino e un orizzonte appena tratteggiati da semplici linee.
L’album rappresenta anche una svolta del modo di produrre musica da parte dei Cluster. Fino ad allora infatti, i due registravano nel loro studiolo di Forst e poi si recavano ai Plank Studios per la messa a punto finale. In questo caso invece, registrarono completamente tutto in un solo studio, non il loro e nemmeno quello di Plank, ma al Paragon Studio di Peter Baumann, da anni membro stabile dei Tangerine Dream, che vantava un’attrezzatura più ampia e aggiornata. Altra scelta controtendenza, relativa al brano eponimo, fu quella di ritornare alla lunga durata, tant’è che Grosses Wasser occupava l’intera seconda facciata, brano spiazzante fin dall’inizio con la lunga intro affidata a un pianoforte a coda via via inghiottito da ripetuti segnali elettronici da cui riemerge sul finire. Tra i pezzi forti della side A si ricordano almeno Avanti, saggio di epica minimale e la carezzevole Manchmal. Due anni dopo, nel 1981, i Cluster chiudono l’esperienza con la Sky pubblicando Curiosum, che costituisce anche l’atto finale della prima e più gloriosa stagione del duo. Un disco registrato con povertà di mezzi in Austria dove Roedelius si era nel frattempo trasferito. Operetta essenziale, che rispolvera un po’ le ruvidezze dei vecchi Kluster, specie sulla prima facciata, ma sempre poca cosa al confronto dei rumori assordanti e urticanti dai quali era in un certo senso circondato, l’industrial noise che emanava dalla scena tedesca e da quella inglese su tutte. Il disco si chiude sul sospiro elettronico di Ufer, che soffia malinconico a un passo dal silenzio.
In seguito i due musicisti, intraprese le carriere in proprio, lunghe e belle storie, rispolverarono due volte la sigla Cluster. La prima volta nel 1989 con una manciata di album, chiudendo di nuovo i battenti nel 1997. Ritornarono sui propri passi nel 2007, durando ancore tre anni prima di scrivere definitivamente la parola fine. Ci sarà ancora tempo per un terzo battesimo della sigla, per volontà del solo, tenace Roedelius, oggi ottantaduenne, che rilancia nel 2011, con la sigla Qluster, un progetto pervaso dal medesimo spirito: sei dischi dai suoni leggiadri e tuttora in attività (l’ultima uscita è di quest’anno, Echtzeit, sempre per la Bureau B).
Moebius invece si è fermato per sempre il 20 luglio 2015.
- Brian Eno, Before and After Science, Emi, 2009.
- Harmonia & Eno ‘76, Tracks and Traces, Gronland, 2009.
- Kluster, Zwei-Osterei, Bureau B, 2015.
- Kluster, Klopfzeichen, Bureau B, 2012.
- Kluster, Eruption, Bureau B, 2012.
- Hans-Joacquim Roedelius, Tape Archive 1973-1978, Bureau B, 2015.