Una scrittura abbacinante
per costruire la nostalgia

Clarice Lispector
La città assediata
Traduzione

di Roberto Francavilla,
Elena Manzato
Adelphi, Milano, 2024
pp. 186, € 18,00

Clarice Lispector
La città assediata
Traduzione

di Roberto Francavilla,
Elena Manzato
Adelphi, Milano, 2024
pp. 186, € 18,00


Immaginiamo un mondo prima del linguaggio, prima quindi che abbia senso dire “mondo” e “immagine”, ma anche prima che abbia senso dire e basta – prima di ogni prima articolato tramite la parola. Jacques Lacan lo chiama Reale, ciò che semplicemente precede ed eccede l’articolazione linguistica, e da cui questa, in qualche modo, emerge. Un bambino neonato è introdotto subito al mondo dei simboli. Il suo pianto è prontamente interpretato – ha fame, ha sete, ha freddo. Eppure, il bambino piange e basta, e ogni decisione sul significato di quel pianto ricade sul mondo simbolico dei genitori. Sono loro a creare, retroattivamente, le cause del pianto: se ogni disagio verrà interpretato come richiesta di cibo, il disagio stesso andrà legandosi indissolubilmente al nutrimento come modalità di compensazione. Il bambino è introdotto così, molto presto, alla realtà: il Reale simbolizzato nel linguaggio. E questa simbolizzazione non è che un cifrario attraverso cui le pulsioni del bambino vengono piano piano canalizzate e regolamentate. Ogni cifrario, ogni codice, implica una serie di norme sintattiche: alcune lettere non possono seguire ad altre, alcune parole devono accompagnarne altre, le frasi devono strutturarsi in un certo modo. Il Reale di partenza, attraverso la mediazione del linguaggio, ritorna come un Reale secondo nella forma dello scarto, ovvero ciò che, nella strutturazione del codice e della sua regola, viene lasciato fuori. Il linguaggio opera chirurgicamente: taglia e ricuce, apre e sutura, decide. Nel linguaggio, il Reale singhiozza segmentato: il mondo conosce la venuta degli oggetti.

Clarice Lispector (Čečel’nyk, 10 dicembre 1920 – Rio de Janeiro, 9 dicembre 1977). L’immagine è stata realizzata da Waldryano.

L’introduzione del bambino al linguaggio è perciò affine alla possessione demoniaca, o all’infestazione parassitaria. I genitori, o comunque l’ambiente che lo circonda, emettono suoni e operano gesti che prenderanno lentamente possesso del bambino come esalazioni spettrali. Abitante un mondo di istinti e pulsioni immediate e confusionarie, il bambino sarà catturato dal codice che aleggia nell’aria: il discorso dell’Altro, come lo chiama Lacan, è ciò che darà una regola al suo sentire. Se tutto proseguirà bene, il bambino imparerà ad abitare il linguaggio e il simbolico, a desiderare, cioè a vivere la necessaria mancanza che lo costituisce – la mancanza che origina dall’essere posseduto dal linguaggio e dal lasciarsi il Reale primigenio alle spalle. Non che possa fare diversamente: per Jacques Lacan questa è la condizione umana, il senso perenne di un assedio da parte di ultracorpi (le lettere, le parole), l’insoddisfazione costante di un’alienità.

Un corpo estraneo
Aliena è Clarice Lispector a Berna. Ha 25 anni, ed è sposata con un diplomatico brasiliano, Maury Gurgel Valente. Già reduce da due pubblicazioni di spessore – Vicino al cuore selvaggio e Il lampadario, il primo assai meglio accolto del secondo – Lispector è un corpo estraneo fra le montagne svizzere, abbandonata a un nomadismo forzato dal lavoro del marito. Rimane a Berna due anni, dove La città assediata prende forma. Lispector sogna Rio de Janeiro, sogna di lasciare le verdi vallate silenziose e sonnolente delle Alpi. È colta da una malinconia insistente quanto sottile, come indica Roberto Francavilla, il principale traduttore in italiano dell’opera della scrittrice brasiliana, qui affiancato da Elena Manzato per l’edizione de La città assediata. Quando Francavilla parla del lavoro di traduzione di Lispector, lo fa in termini quasi mistici: usa il termine iniziazione per descrivere l’immersione nel e la comprensione del linguaggio della scrittrice, un linguaggio denso, che viaggia sulle strade del territorio interiore, dove i confini sono tracciati con troppa sottigliezza, troppo offuscati, per poter restituire la chiarezza delle immagini che l’intelletto si aspetta di ricevere. Lo è per il traduttore, un’iniziazione, ma lo è ugualmente per il lettore: Clarice Lispector è, come tutti i grandi scrittori, un’esperienza totale e peculiare del linguaggio e di quello che esso può fare attraverso i modi in cui ci possiede.

L’epifania come fil rouge
Se si vuole cercare un fil rouge nella produzione letteraria di Lispector, molti critici indicano, oltre alla centralità della figura femminile e la sua esplorazione, l’epifania come punto nodale. I suoi personaggi sperimentano la sorpresa a un certo punto della loro storia – la sorpresa come comprensione, flebile illuminazione, quella che Sigmund Freud definisce come la traccia dell’inconscio, e Lacan appaia alla scoperta. I personaggi di Clarice Lispector, quasi tutti, sono definiti da questo momento di fruttuosa e brillante discontinuità. L’epifania è, in fondo, una discontinuità nella storia del soggetto – positiva, se ricostituisce la coerenza narrativa all’individuo; negativa, se la spezza. Tutto questo non vale nel minimo modo per Lucrécia Neves, la protagonista de La città assediata. Come nota Elena Manzato, Lispector “non le attribuisce quella sensibilità epifanica che destina alle altre” (Manzato, 2024), e anzi le dona una certa e dichiarata stupidità – nella forma di una superficialità letterale – e le strappa la facoltà dell’immaginazione. Con Lucrécia, Clarice sembra molto severa, come se rivolgesse un certo astio verso un modo di percepire il mondo. La superficialità in questione, nella sua letteralità, è quella dell’apparire proprio della superficie degli oggetti. Lucrécia Neves desidera ardentemente che le cose siano semplicemente come appaiono, e che tutto possa esaurirsi sulla superficie che le tratteggia e le contorna – “tutto ciò che esisteva era perfetto – le cose iniziavano a esistere solo quando erano perfette”. Perché complicare oltre? “Quando una cosa non pensava, il suo pensiero era la forma che possedeva. Il pesce era l’unico pensiero del pesce”, le fa dire Lispector in mezzo al testo, e non in un dialogo o in un passaggio virgolettato. Lo dice proprio in un punto in cui l’autore e il suo personaggio si riversano l’uno nell’altro. Quella di Lucrécia è pura insiemistica. Ogni oggetto è l’insieme di sé stesso, e afferisce a un insieme più ampio di oggetti che condividono caratteristiche comuni, come lo spazio che occupano. Il tutto corre sulla superficie piana e orizzontale di un foglio di carta dove gli insiemi sono disegnati attraverso cerchi:

“Sono tuoi… [i soprammobili del salotto]” chiese indicando con il viso [Perseu].
“Del salotto”.
Lui la guardò con sorpresa e gioia:
“Che scemenza! Le cose sono delle persone!”
“Del salotto”, borbottò Lucrécia Neves.
“E il salotto, mia cara?”
“è della casa, e la casa di Sao Geraldo, non mi scocciare”.

Lucrécia Neves, dividuo o individuo?
La psicoanalista Melanie Klein teorizzerà con la relazione oggettuale qualcosa che va al di là dello sviluppo psicobiologico delineato da Freud. Secondo Klein, il bambino possiede già il germe di un Io, una funzione quasi esclusivamente biologica, che però rimane ancora indifferenziato dal suo intorno; l’Io del bambino si riversa sugli oggetti, sulle rappresentazioni intrapsichiche, e con essi si identifica. La totale identificazione però è sempre neutralizzata da un’angoscia di fondo, che lo spinge a investire energie psichiche su oggetti sempre nuovi. La prima fase di sviluppo psichico è definita come fase dell’oggetto parziale: ogni oggetto rappresentato psichicamente è una parte di sé, un prolungamento, e autonomo rispetto a ciò a cui afferisce. È un mondo di parti senza intero, di distribuzioni. Ma la sintesi unitaria di un Io che si riconosce autonomo e indipendente dal mondo, e riconosce gli oggetti come autonomi e indipendenti, è decisamente – ce lo mostrano gli antropologi ormai da decenni – un mito dell’Occidente. E non ci sarebbe nulla di male nell’abitare un mito, quando si è consci che esso non è l’unico in circolazione.

Sciamanismo dell’oggetto
Clarice Lispector nasce in Ucraina come Chaja Lispektor, nel 1920. L’impero russo cade, e la famiglia emigra in Brasile a causa dei pogrom – la famiglia Lispektor è ebrea – nel 1922. È la cultura brasiliana e il suo sincretismo che, in un modo o nell’altro, la nutre. Se quel Brasile era fortemente Occidentale, attraversato da influenze di vario registro del vecchio continente, esso comunque si incuneava nel groviglio di discorsi indigeni e autoctoni che non potevano che produrre un contesto particolare e unico. Il Sud America rimaneva una terra coloniale e colonizzata, capace di dare alla luce intellettualità come Lispector, Lùcio Cardoso, Jorge Luis Borges, Carlos Castaneda. Sciamani di ordini diversi. Quello di Clarice Lispector è uno sciamanismo dell’oggetto; da Vicino il cuore selvaggio, fino a La passione secondo GH e passando per La città assediata, è la relazione oggettuale a percorrere la linea, o a tracciarla. Quando l’antropologa Marylin Strathern si accorge, frustrata, che nessuna delle categorie proprie della nostra scatola degli attrezzi concettuale è utile in alcun modo a descrivere la parentela, l’economia del dono, l’idea di persona dei popoli della Papua Nuova Guinea, ella si lancia in un affronto totale: la persona, in Papua Nuova Guinea, è composta da connessioni parziali – parti autonome che strutturano una rete. Non individuo ma dividuo. Scordatevi l’unità dell’Io e della sua storia; come il gatto di Schroedinger, l’esperienza della personalità di quei popoli è strutturata su stati sovrapposti, indipendenti, e validi anche se contraddittori fra loro.

Il concetto di prospettivismo amerindio
In Brasile, il collega Eduardo Viveiros de Castro si allineerà su queste posizioni e svilupperà il concetto di prospettivismo amerindio: la cosmologia amerindia non concepisce la realtà come un insieme di oggetti con proprietà fisse, ma come il risultato di una pluralità di prospettive, e le prospettive non sono semplicemente soggettive, ma esprimono realtà ontologiche diverse. L’antropologo inglese Alfred Gell, commentando la relazione con gli oggetti degli abitanti delle isole Trobriand, parla di personalità distribuita: la persona è composta dalla rete di relazioni oggettuali che intrattiene, che siano con altre persone, con gli animali (per quanto riguarda un cacciatore), con le patate dolci (se si parla di un coltivatore), con le statue votive – che infatti trattengono una parte dello spirito del proprietario o del costruttore, che può essere tramandata ai discendenti. In questo senso, le famiglie, i villaggi, le alleanze – tutto è persona. È il principio dello scambio intensivo, quello fra l’ape e il fiore, che non da alla luce un ibrido mostruoso fra i due, ma una catena di produzioni e diffusioni – il miele, i pollini sparsi su terreni nuovi.

Una scrittura vertiginosa e densa
Quello messo in scena da Clarice Lispector, proprio in una Berna estranea e in cui non riesce a proiettarsi, è la rappresentazione di una lotta, o proprio di un fallimento, interiori. Lucrécia Neves si affanna a cercarsi sulla superficie degli oggetti, sul loro mero apparire – poiché, in effetti, se tale fosse la regola allora varrebbe anche per lei: io, Lucrécia, sono semplicemente ciò che sono. Ogni mattina, una volta ridestata dai sogni grotteschi che Lispector descrive con scrittura vertiginosa e densa, la città fuori dalla stanza da letto dev’essere ricostruita continuamente. La città cambia, e Lucrécia dal cambiamento si sente intrappolata, quanto si sente allo stesso tempo intrappolata dalla piccola Sao Geraldo. L’autrice le affida un carattere arrivista, delineato dal desiderio di sposarsi e diventare una piccolo borghese, adornata da belle vesti, e abitante una vera e propria metropoli. Nel tentativo di distribuirsi fra gli oggetti, di dare agli oggetti la loro purezza e semplicità – per darla a sé stessa –, Lucrécia continua a farseli scivolare dalle mani (e soprattutto dagli occhi). Intrattiene relazioni mistiche con le statue, che trova esistano nella migliore delle condizioni: l’essere ignorate al centro di una piazza data la loro eterna e immutabile, quasi noiosa presenza. Pensa con amarezza alla fortuna dei cavalli, liberi dal pericolo dell’immaginazione, e fondamentali simboli di una città. Il cavallo e la sua scomparsa: elementi cruciali per costruire un paese, ed esattamente ciò che viene sostituito dalle ferrovie e dalle strade una volta che il paese si fa città.

“La ragazza e il cavallo rappresentavano le due razze di costruttori che avevano dato inizio alla tradizione della futura metropoli, entrambi avrebbero potuto figurare come armi per un suo stemma. L’infima funzione della ragazzina all’epoca era una funzione arcaica che rinasce ogni volta che si forma una città, la sua storia aveva formato con fatica lo spirito di una città. Non era possibile sapere quale regno rappresentasse presso la nuova colonia, poiché il suo lavoro era troppo breve e quasi inesplorabile: tutto ciò che lei vedeva era qualcosa.
In lei e in un cavallo l’impressione era l’espressione”.

Pindaro e Lispector: la vista del cielo e il ricordo della terra
Il percorso del romanzo, che segue parallelamente le vicende del sobborgo di Sao Geraldo e di Lucrécia Neves, si annoda attorno alla questione del senso d’appartenenza e della propria casa. Il senso di questa ricerca di riverbero fra gli oggetti e il soggetto, il cercarsi nei segmenti del mondo di modo tale da poter essere un segmento del mondo, se a prima vista può sembrare riprendere temi cari a, per citarne uno, Albert Camus e al suo senso di estraneità, risulta invece ammantato di una superficialità ottusa. La relazione fra il sobborgo di Sao Geraldo, la città in perenne ricostruzione mentale, la metropoli in cui Lucrécia finisce una volta sposata, e Lucrécia stessa non vuole essere un trattato di metafisica sulla condizione umana. In questo romanzo c’è superficialità proprio nella misura in cui il tema rispecchia lo stato dell’autrice, straniera alla Svizzera e alle sue montagne, incapace di riconoscersi nei paesaggi e nell’architettura, fors’anche nelle persone e nel percorso del sole ogni mattina e ogni pomeriggio. Non è – e non va considerato come un difetto – un romanzo sull’universale. Clarice Lispector offre la visione di un personaggio stupido e frivolo, tanto da essere irrimediabilmente poetico, che sperimenta una condizione semplice: l’essere sé stessa nel mezzo dell’irriconoscibile. Al mutare delle cose, al dissolversi della presenza, alla sostituzione degli oggetti con altri, cosa succede a chi osserva? Cosa può significare la scomparsa di campi di grano per far posto a un viadotto? Cosa, allo stesso modo, impone una montagna all’occhio abituato al mare? Lucrécia, personaggio quasi completamente estroflesso, non è che un esperimento. Cosa vuol dire “perdere” sé stessi nella immediata superficie degli oggetti? Può essere abbastanza per mitigare la nostalgia e la paura?

Il personaggio Lucrécia
Il gioco messo in campo nel personaggio di Lucrécia è quello della tensione fra una sofferenza che trascina l’individuo lontano da sé, che ne mostra le discontinuità e la segmentazione – che lo riduce a oggetto fra gli altri –, e la tendenza autoconservativa al senso di individualità. È allo stesso tempo una ribellione, quella contro il fatto che se una parte di sé soffre allora soffre l’intero, e una conversione alla prospettiva della personalità distribuita. Perché cosa si può mai intendere con appartenere a un luogo, o a qualsiasi altra cosa, come agli oggetti e alla città nel caso di Lucrécia? Verso la fine del racconto, nell’ultimo capitolo, Lispector aggiunge una frase per sigillare la posizione della protagonista: “Quel che c’era stato di impersonale nella sua vita la faceva volare”. Spossessata di sé, riversa sulla sua propria superficie che ritorna a essere simile alla relazione con gli oggetti parziali di Klein, Lucrécia assiste alla scomparsa del suo piccolo sobborgo e alla nascita di una città vera e propria, industriale, mercantile, e quindi, forse, alla scomparsa di sé stessa. Sao Geraldo avrebbe addirittura cambiato nome – e i nomi delle cose per Lucrécia sono le cose stesse, tracce inalienabili sulla loro superficie.

Verso il dominio della memoria
Se Jacques Lacan insiste così fortemente sul fatto che l’inconscio sia solo e semplicemente linguaggio (e non già significato; pura e semplice relazione fra elementi di un codice che producono regole e impossibilità), Clarice Lispector sembra anticipare qualcosa di questa intuizione così rivoluzionaria. E lo fa in un romanzo semplice, che tratta di cose che paiono quasi banali – e che quindi sono assolutamente fondamentali. Ella apre il romanzo con un esergo, che si può ben dire sia la chiave di decodifica di tutte le pagine che seguono. È una citazione di Pindaro: “In cielo, sapere è vedere; in terra, è ricordare.” Come a dire: scrivo ciò che scrivo perché attorno a questo significante, questo motto vuoto, continuo a ruotare, e allora devo riempirlo. Lucrécia, che vive vedendo e che reputa la vista, lo sguardo, come l’accesso principale e unico all’apparire delle cose, la loro pura verità, dovrà confrontarsi con le sue memorie di una casa, Sao Geraldo, mangiata dal tempo e dal cambiamento. Quella di Lucrécia è una discesa terrena, l’abbandono dei cieli in cui gli dèi sanno semplicemente vedendo, verso il dominio della memoria, in cui gli oggetti, condensati, afferrati, dissolti, finiscono a sbordare in emozioni come la nostalgia. La psicoanalisi, dice Lacan nel Seminario I (Lacan, 2014), ha come obiettivo la ricostruzione e la restituzione della storia del soggetto, laddove questa storia ha incontrato uno o più punti di discontinuità. Lucrécia, persa la visione di Sao Geraldo, ne riconquista il ricordo tramite i soprammobili, le statue, le vie, i cavalli. Riconquista – o conquista – s* stessa. Sono questioni che Cesare Pavese maneggia con sofferta cura:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
(Pavese, 2014).

Ne Il Cacciatore Celeste, Roberto Calasso dedica un breve capitolo alle statue – alle korai, in particolare. Erano statue appartenenti all’età arcaica della Grecia, dal VII al V secolo a.C.: fotografie in pietra dedicate a fanciulle e poste sull’Acropoli di Atene. Le loro fattezze, dice Calasso, sono un mistero: portano i nomi di donne ma rappresentano divinità, o sono affidate alla divinità ma rappresentano queste particolari donne? Erano, a ogni modo, cristallizzazioni in pietra di figure momentanee – oggetti completi, o ricordi? Risponde Calasso: dopo il sacco di Atene da parte dei Persiani, gli Ateniesi decisero di allargare l’Acropoli, e per qualche ragione sotterrarono tutte le korai, nascondendole. Andavano dimenticate, loro e ciò che evocavano. Esse erano segni di una molteplicità della dea, ripetuta in ogni singola kore: la classicità “si distacca da qualsiasi arcaico per la sua riduzione del numero degli elementi” (Calasso, 2016).

Appartenere al cielo o alla terra
Non si doveva venerare la molteplicità, ma un’Idea unitaria e autosufficiente, l’agalma. Atene cambiava, e i suoi oggetti dovevano plasmarsi con lei. Atene non era che la struttura, il numero, la relazione dei suoi propri oggetti: un codice, e nel codice, una persona distribuita. Una Lucrécia ateniese, forse rappresentata in una kore grazie alla venerazione di un qualche uomo o l’interesse della sua famiglia, si sarebbe trovata sotterrata al limitare della nuova Acropoli: divinità momentanea, capace solo di vedere come si vede nel cielo. Al modo di Clarice Lispector, kore straniera ed esotica in una terra di valli e monti. Come fare a rompere la pietra e farsi di nuovo fluida in questo stato di estraniamento malinconico? Attraverso Lucrécia Neves, Clarice Lispector riscopre una cosa fondamentale quanto semplice: lo straniamento, la nostalgia, il trascinamento fuori di sé che impone un senso di perdita è la traccia di ciò che appartiene propriamente, direbbe Pindaro, al sapere terreno, al ricordo. È il dramma delle korai, divise fra l’eternità del divino, e la momentaneità della concreta donna rappresentatavi: la decisione relativa a cosa appartenere, al cielo o alla terra.

Letture
  • Roberto Calasso, Il Cacciatore Celeste, Adelphi, Milano, 2016.
  • Bruce Fink, The Lacanian Subject: Between Language and Juissance, Princeton University Press, New Jersey, USA, 1996.
  • Roberto Francavilla, Elena Manzato, Diario di traduzione del libro La città assediata di Clarice Lispector, 27 maggio 2024.
  • Jacques Lacan, Il Seminario. Libro I, Einaudi, Torino, 2014.
  • Clarice Lispector, Vicino al cuore selvaggio, Adelphi, Milano, 2014.
  • Claire Lispector, La passione secondo GH, Feltrinelli, Milano, 2019.
  • Clarice Lispector, Il lampadario, Adelphi, Milano, 2022.
  • Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino, 2014.