I mandala, nella tradizione buddista, sono dei disegni di sabbia colorata i cui granelli sono disposti in modo da formare figure geometriche complesse. Per creare questi artefatti, il cui significato rinvia all’armonia universale, i monaci tibetani lavorano per diversi giorni, a volte per intere settimane. Si tratta di un lungo esercizio di pazienza, controllo e introspezione, il cui frutto è un suggestivo insieme di forme e colori sempre diverso. Tuttavia, ogni mandala è accomunato dallo stesso destino: poco dopo esser stato completato, la sabbia viene infatti spazzata via per riaffermare la caducità della vita e la certezza della morte. Da qualche anno, qualcosa di apparentemente simile si sta affermando anche nella nostra società digitalizzata: gli utenti stanno infatti sempre più familiarizzando con una messaggistica temporanea, oltreché istantanea, la cui peculiarità è appunto l’auto-distruzione del contenuto veicolato.
Un monaco buddista rifinisce un mandala. Al termine di questo lungo esercizio di meditazione e precisione l’artefatto verrà inesorabilmente distrutto.
Ad aprire le danze è stata Snapchat, applicazione lanciata nel 2011 e che per prima ha reso possibile inviare contenuti visualizzabili solo per un breve lasso di tempo. Ben presto questa funzione è stata però adottata anche da altre piattaforme: Instagram, Facebook e Whatsapp hanno fatto delle cosiddette “storie”, intese come contenuti disponibili solo per ventiquattro ore, una delle modalità più utilizzate e apprezzate dagli utenti. L’evoluzione, apparentemente banale, dei social media permanenti in temporanei cela delle importanti implicazioni sul nostro rapportarci alle tecnologie, sul modo in cui ci raccontiamo online, nonché sulle nostre idee di tempo, memoria e identità.
In principio era Facebook. Il social permanente come museo
“Abbandono la lotta: che ci sia una fine, un ritiro, un angolo oscuro tutto per me, voglio essere dimenticato persino da Dio.” (Browning, 1927)
In realtà, già la diffusione e l’utilizzo quotidiano dei social network permanenti hanno profondamente influenzato e modificato la nostra idea di temporalità, trasformandola in un intreccio esplosivo in cui ci è permesso di archiviare un presente cristallizzato in immagini, parole o suoni su una pagina web facilmente accessibile in futuro per ripercorrere il passato. Il social media permanente è, in altri termini, il museo digitale in cui ogni utente si racconta. Ma ricordare il passato può essere tanto un piacere quanto una dannazione, e l’ambivalenza di questa situazione non ha tardato a farsi sentire. La funzione “ricordi” di Facebook, riproponendo contenuti condivisi esattamente un anno fa o più, incarna questa contraddizione che ha entusiasmato qualcuno e infastidito molti altri. È il caso di quando spunta qualche vecchia foto imbarazzante o un post scritto di getto che ora appare stupido o inattuale.
Questo inconveniente, un vero e proprio effetto collaterale dell’attività online in cui si contrappongono la staticità dei contenuti stratificati nel web alla dinamicità della vita offline, si è ben presto palesato in tutta la sua potenza, arrivando a penetrare certi elementi della cultura popolare, come il tormentone estivo Vorrei ma non posto:
“E come faranno i figli a prenderci sul serio con le prove che negli anni abbiamo lasciato su Facebook papà che ogni weekend era ubriaco perso e mamma che lanciava il reggiseno a ogni concerto”
(J-Ax, Fedez, 2016).
Non a caso, con il passare del tempo e l’accumularsi di contenuti immobili che non rispecchiano i cambiamenti verificatisi nel frattempo, gli utenti hanno iniziato a ristrutturare le proprie identità digitali, ripulendo i loro profili e cancellando contenuti non più graditi (cfr. Boyd, Marwick, 2011).
Il singolo del duo rap J-Ax\Fedez incentrato sulle “sindromi” da social.
Tuttavia, rimuovere dai social permanenti il materiale non più desiderato, pur essendo sempre stato possibile, non ha mai rappresentato una vera soluzione: oltre a essere conservato in qualche server d’oltreoceano, è possibile che sia stato salvato sui dispositivi di altri utenti che potranno rimetterlo in circolazione. Casi del genere si sono più volte verificati in tutta la loro drammaticità, radicalizzandosi in episodi di suicidio dovuti al continuo e inesorabile circolare di materiale compromettente sfuggito al controllo degli utenti.
Nel museo digitale delle proprie vite l’oblio può dunque diventare un desiderio, come in un Paracelso di Robert Browning reinterpretato alla Black Mirror (come nel film Anon di Andrew Niccol, 2018).
Questi drammatici eventi hanno posto all’attenzione del pubblico gli effetti collaterali della datificazione, dell’imperativo della trasparenza e della fine della privacy, riabilitando l’importanza della relazione tra online e offline e declinandola dall’uso responsabile delle tecnologie all’identità digitale, passando per il cyberbullismo e il diritto all’oblio, arrivando persino a rendere necessari diversi aggiornamenti dell’ordinamento giuridico per garantire una maggiore tutela degli utenti, perché “il peso del nostro passato digitale si sta affermando come la principale sfida alla privacy del nostro tempo” (Rosen, 2013). Tuttavia, a causa di un sistema legislativo infinitamente più lento dei flussi comunicativi in rete, la soluzione più veloce è provenuta dal mercato e dal rapido adeguamento degli utenti, che hanno accolto con entusiasmo l’idea di poter continuare a raccontarsi online senza per questo lasciare tracce pubblicamente visibili a distanza di tempo.
Un domani non ci sarà: le “storie” come mostra temporanea
Come sottolineato da Nathan Jurgenson, ricercatore e teorico dei social media, l’introduzione di contenuti temporanei destinati a scomparire dopo un certo tempo è sintomatico di un passaggio che va dal diritto a dimenticare all’abrogazione dell’obbligo di ricordare (cfr. Jurgenson, 2013).
Sebbene resti la possibilità di catturare alcuni elementi tramite screenshot o altri sotterfugi, la caducità dei contenuti temporanei rappresenta per molti utenti una fonte di sicurezza e tranquillità che permette loro di usare con maggiore leggerezza i social, senza doversi preoccupare delle possibili conseguenze. Il modello della collezione museale permanente cede il passo a quello della mostra temporanea.
È così che le “storie” di Instagram sono divenute la modalità di condivisione largamente preferita dai giovani, che invece considerano Facebook, non a torto, come un social “per vecchi”.
La piattaforma di Mark Zuckerberg, che ha spopolato in Italia a partire dal 2008, ha infatti già abbondantemente passato la soglia dei dieci anni: un intervallo di tempo molto più che sufficiente per archiviare compleanni, lauree, matrimoni, gravidanze e altri momenti di passaggio alla vita adulta per utenti iscrittisi da giovani ma invecchiati in diretta, un selfie dopo l’altro. Per non parlare dei casi di decesso che si sono verificati nel frattempo, trasformando Facebook in una sorta di cimitero digitale, comprensivo di profili commemorativi come lapidi (cfr. Il Post, 2015). Per contrastare questo processo di mummificazione poco appetibile per i giovani, alla già citata funzione “ricordi” è stata dunque affiancata l’antitetica modalità “storie”, nel tentativo di svecchiare e rendere nuovamente appetibile un social network in caduta tendenziale del saggio di interesse.
Annalisa e Mr. Rain nel video della canzone Un domani.
La “storia”, sparendo dopo ventiquattro ore, permette infatti di continuare a raccontarsi in un eterno presente che non lascia tracce di sé. Questa modalità risparmia gli utenti dalla museificazione del passato per proiettarli sul presente e sulla possibilità di condividerlo in diretta con gli altri, piuttosto che con sé stessi in futuro. Il rifiuto del passato, però, è anche indicativo dell’incapacità di fare i conti con esso, sia ora che in futuro. La musica leggera torna in aiuto anche qui, mostrando come l’a-temporalità sia il risultato di questa tendenza. Nella canzone Un domani, per esempio, la cantante Annalisa dice, riferendosi all’interruzione di una relazione:
“mi spiace ma un domani non ci sarà, un po’ come le storie su Instagram… con te soltanto tempo che se ne va, che se ne va, che non torna più. E dovevamo chiudere il mondo fuori ci siamo tatuati, abbiamo fatto errori con te soltanto tempo che se ne va che se ne va, che non torna più…”
(Annalisa, 2018).
È un’ottima testimonianza di come il passato e le sue cristallizzazioni siano intese al pari di errori, mentre l’effimero e il caduco siano nuove chiavi di lettura, tanto nell’uso dei social quanto nelle relazioni sentimentali, a fronte di una realtà sempre più indecifrabile, fragile e a breve termine.
Nei social permanenti, dunque, l’identità dell’utente e il modo in cui essa cambia nel corso del tempo possono diventare un problema, un motivo di vergogna o semplicemente di non-orgoglio. Con il contenuto temporaneo, invece, ci si mostra per quel che si è in un dato momento e senza paragoni col passato, eliminando alla radice il problema del tempo e dei suoi segni, favorendo così quel lavoro di vetrinizzazione della propria immagine (cfr. Codeluppi, 2015) e quella compulsiva ricerca estetica della perfezione che caratterizza molti utenti. Non a caso, nelle “storie” l’audio-visivo prevale sul testuale ancor più che nei comuni post permanenti.
Archivi e serialità: il caso Saolini
Ma la temporaneità dei contenuti non pone solo questioni di storia e identità. I social network permanenti sono infatti anche delle piattaforme editoriali, archivi di documenti e depositi di materiale culturale. Da questa prospettiva, la temporaneità dei nuovi social assume le sembianze di una perdita: se autori, produttori ed editori adottassero in futuro le “storie” come modalità standard, il web diventerebbe un luogo più sicuro in materia di copyright, ma anche decisamente più vuoto.
Se per certe piattaforme di intrattenimento e streaming come Netflix la temporaneità del catalogo è già lo standard, applicarla ai video di Youtube o agli articoli online significherebbe cambiare radicalmente Internet.
I social temporanei, inoltre, privano l’utente della possibilità di collezionare contenuti e confrontarli in una visione di insieme, eliminando la possibilità di dare e trovare un senso alla serialità. Per comprendere meglio questo passaggio si può citare il caso di Gianmarco Saolini, un blogger/troll che carica quotidianamente sulla sua pagina Facebook video-bufale in cui interpreta improbabili personaggi in possesso di scandalose verità. I suoi video sono stati spesso fraintesi e presi sul serio proprio perché fruiti nel quadro decontestualizzato e temporaneo della news feed, destando clamore mediatico e portando molti commentatori ad accusarlo di essere un disseminatore di fake news.
Gianmarco Saolini in tre delle sue performance social mediatiche.
Gli utenti appena più attenti, tuttavia, hanno facilmente colto il senso complessivo (per quanto discutibile, cfr. Bianchi, 2018) dell’operazione Saolini scorrendo la sua pagina Facebook personale, dove si susseguono e stratificano i suoi diversi eteronimi e personaggi. Se il blogger avesse invece optato per una narrazione temporanea attraverso le “storie”, la stessa temporaneità dei contenuti avrebbe reso ancor più difficile la già confusa distinzione tra vero e falso.
I social media temporanei permettono dunque una condivisione multimediale meno vincolata allo scorrere del tempo, presentando però il rischio che essa diventi ancora più distratta, incauta, banale, effimera, vuota e compulsiva. Occorre quindi considerare la possibilità che questi strumenti, piuttosto che responsabilizzare verso l’utilizzo delle nuove tecnologie, complichino ulteriormente la questione.
Una distruzione creatrice da consumarsi preferibilmente entro…
Insomma, nella differenza tra social permanente e temporaneo si giocano diverse partite importanti, con punteggi favorevoli alle volte per l’uno e alle volte per l’altro. Non c’è dubbio, tuttavia, che nella partita tra piattaforme e utenti, i primi siano quasi sempre vincitori e i secondi vinti. Quale che sia la forma di condivisione più adatta alle esigenze degli utenti, resta infatti incontrastata la sempre più diffusa tendenza al mettere in esposizione, che sia per sempre o per qualche ora poco importa. A essere sacrificata è la qualità di ciò che è condiviso, mentre a guadagnarci sono la quantità e le strategie di marketing. Da questa prospettiva, i social temporanei rappresentano un ulteriore passo in avanti verso la valorizzazione commerciale già avviata dai social permanenti: una durata minore, infatti, significa più valore, e questo lo sanno bene le aziende che hanno imparato a usare le “storie” per aumentare e affrettare il coinvolgimento della loro potenziale clientela sui social.
Nei social temporanei il vecchio va dunque distrutto per fare spazio al nuovo. È la versione digitale della “distruzione creatrice” di Joseph Schumpeter, con la differenza che la creazione innovativa cui si riferiva l’economista austriaco cede il passo alla riproduzione di un mondo sempre uguale a sé stesso e a scadenza determinata.
Per concludere tornando all’immagine iniziale, l’auto-distruzione dei contenuti sui social temporanei sembra il riflesso negativo del mandala tibetano. Il lungo e dispendioso esercizio di meditazione dei monaci buddisti, a cui segue una distruzione che riafferma consapevolmente l’ineluttabilità della morte, si contrappone infatti alla condivisione istantanea di momenti poi distrutti per far spazio all’illusione di un eterno presente.
- Annalisa, Un domani, Warner Music Italy, 2018.
- Caparezza, Migliora la tua memoria con un click, Warner, Chappell Music, 2017.
- J-AX, Fedez, Vorrei ma non posto, Newtopia, Sony Music, 2016.
- Leonardo Bianchi, Questi video ‘troll’ sui migranti fanno più danni che altro?, in Vice, 18 giugno 2018.
- Danah Boyd, Alice E. Marwick, Social Privacy in Networked Publics: Teens’ Attitudes, Practices, and Strategies, in A Decade in Internet Time: Symposium on the Dynamics of the Internet and Society, 2011.
- Robert Browning, Paracelso, Carabba, Lanciano, 1927.
- Vanni Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano, 2015.
- Il Post, Il tuo account Facebook quando sei morto, 12 febbraio 2015.
- Nathan Jungerson, Pics and it didn’t happen, in The new inquiry, 2013.
- Jeffrey Rosen, Christine Rosen, Temporary Social Media. Messages that quickly self-destruct could enhance the privacy of online communication and make people feel freer to be spontaneous, in MIT Technological Review, 2013.
- Andrew Niccol, Anon, K5Film, Netflix, 2018.