Curare la memoria storica
evita il virus dell’oblio

Camillo Brezzi
L’ultimo viaggio
Dalle leggi razziste alla Shoah
La storiografia, le memorie
il Mulino, Bologna, 2020
pp. 176, € 15,00

Camillo Brezzi
L’ultimo viaggio
Dalle leggi razziste alla Shoah
La storiografia, le memorie
il Mulino, Bologna, 2020
pp. 176, € 15,00


Le immagini hanno un potere straordinario: quello di condensare le idee in un unico spazio e di comportarsi come una specie di unità del pensiero, capace di rendere evidente l’efficacia dell’intero discorso. Le immagini, a essere precisi, sanno fare molto altro ancora. Durante la pandemia ne abbiamo vista una che non è sfuggita a chi – scandalizzato – ha reagito proprio contro questo principio di essenzialità. Si tratta dell’immagine del cancello d’ingresso ad Auschwitz con la scritta Arbeit Macht Frei (per noi paradigma del negativo, o metonimia del male assoluto), ritoccata e trasformata con l’hashtag #andràtuttobene, al fine di fare volgari parallelismi. L’autore è Alessandro Meluzzi, personaggio televisivo, psichiatra e parlamentare di Forza Italia: lo si cita anche se costui non meriterebbe neanche di essere nominato.
L’operazione concettuale condotta su quell’immagine invece, pretende una riflessione sull’uso delle immagini e sulla cautela supplementare necessaria per quella che, diffusa sui social, è in grado di legittimare stati d’animo ma anche, in successione, atteggiamenti, procedure e infine condotte collettive di natura avversativa e intimidatoria. Questo tipo di immagini non solo non corredano un discorso ma si sostituiscono totalmente al parlante anche per nascondere balbettii e piccole quantità di contenuto.
Nella confusione pre e post pandemica per esempio, moltissime sono state le immagini ritoccate al limite della fake al punto che è diventato necessario rimetterle al loro giusto posto, indicando con un tag quelle ritoccate. Questo è almeno ciò che assicura la rivista Wired per tutelarci dalle cattive interpretazioni e dagli slogan (cfr. Barbera, 2020). Con quella foto che ritocca il cancello di Auschwitz, abbiamo capito che non solo le parole ma anche le immagini possono essere pietre in grado di produrre un discorso politico vero e proprio.

Discorso amplificato dalla diffusione di questa “sfera pubblica” molto discutibile, che è il web. Al contrario, il libro di Camillo Brezzi, L’ ultimo viaggio. Dalle leggi razziste alla Shoah. La storiografia, le memorie, è un libro di memorie che non nasconde i problemi controversi che stanno dietro alla Shoah. L’autore infatti, non tralascia le questioni difficili, l’altra faccia delle memorie non condivise e lo fa avvalendosi di sette testimonianze di alto livello. Storico di mestiere ed ex professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Siena, l’autore si tutela dal rischio di farne una lettura rassicurante, consolatoria o peggio, semplificata, dando voce ai suoi testimoni e dichiarando da subito di aver concepito questo libro proprio in risposta ai banali e pericolosi parallelismi pubblici in piena pandemia tra il Covid e la guerra. Ciò che scorre lungo queste pagine è piuttosto una specie di invito a leggere il presente. Un invito che non può non accogliere volentieri chi si occupa di immagini, perché anche tramite le storie strutturate dall’autore secondo una regia precisa, si può maturare la seguente certezza: il cancello di Auschwitz e la sua scritta, non sono in alcun modo proprietà di qualcuno. Non lo sono né singolarmente né collettivamente. Ancor meno lo sono come immagine da modificare o ritoccare a proprio piacimento.
Quell’immagine in bianco e nero – esattamente come le poche altre scattate dentro al campo di cui ci parla mirabilmente lo storico dell’arte e filosofo Georges Didi-Huberman (2005) – è invece il prodotto del trascorrere del tempo, segno difficilissimo da studiare e oggetto d’analisi per ciò che definiamo “storia”. La tradizione di quell’immagine cioè, riposa non solo nel nucleo di significati ma nell’infinita ricerca, nello sforzo di interpretarne i contenuti e nell’impegno (spesso sfibrante) di coglierne la persistenza nell’età contemporanea.

Un libro che declina la memoria al plurale
Il libro di Brezzi non parla del cancello in questi termini e al deplorevole post non gli dedica che un secco e sdegnoso giudizio. Come dicevamo questo è un libro di storie che focalizza l’attenzione sulla testimonianza e sulla dimensione del viaggio e questa prospettiva lo conduce a un tema segmentato per nulla secondario nella storia della Shoah che è proprio quello dello sradicamento e dell’umiliazione, condensata nelle condizioni di quel viaggio. Situazioni analizzate con una commozione pacata, ma sincera e con una sorta di identificazione personale che porta lo storico a ricostruire fatti ed eventi alla luce del ricordo personale che della Shoah ci racconta cosa accadde dopo, nella seconda metà del Novecento, quando Primo Levi ci abbandona, ponendo gli altri salvati nella condizione di sentirsi chiamati a ricordare. Questo libro dunque, insieme a quei racconti ci offre il quadro dei gusti, delle opinioni e dei giudizi di un uomo (direttore dell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano) che è senz’altro uno storico ma che racconta questa storia in quanto settantottenne a rischio Covid, ancora stupito del volgare paragone tra il nostro recente problema pandemico e la reclusione nazista. Ed è proprio questa dimensione anche personale che trapela qua e là, ora quando ricostruisce le storie dei libri che hanno avuto bisogno di anni prima di essere tradotti in italiano oppure quando legge i fatti della recente storia israelo-palestinese tramite il filtro della propria posizione di intellettuale impegnato anche nella cosa pubblica. A questo riguardo diventa oltremodo interessante che l’autore parli degli anni Novanta del Novecento come epoca durante la quale finalmente viene alla luce ciò che sappiamo della Shoah, preludio a quel 2000, anno di definitiva celebrazione della Giornata della Memoria in Italia.

Parziale dell’installazione realizzata con dischi di ferro, Shalechet (Foglie cadute), 1997, di Menashe Kadishman, Berlino, Museo ebraico.

Un’occasione giusta, la Giornata della Memoria che proprio a partire da allora offre, oltre al rischio del continuo confronto col presente, anche un’occasione per discutere di memorie e di responsabilità nei confronti di quelle vite. La Giornata della Memoria significa allora provare anche a ragionare di questioni marginali come un post con una fotografia ritoccata. Uno dei sopravvissuti ampiamente citati nel libro, Piero Terracina, afferma che la giornata significa celebrare per conoscere, cioè per trasmettere, ed è interessante che il sondaggio realizzato per Yom Ha Shoah (Giornata del ricordo dell’Olocausto) dal Schoen Consulting, un’azienda di statistica con base a New York ci dica che il 70% degli adulti pensa che l’attenzione intorno ai temi sulla Shoah stia calando. Gli intervistati sono seriamente preoccupati per le conseguenze della perdita della memoria storica, mentre oltre la metà (il 58%), sostiene che un evento simile alla Tragedia ebraica possa ripresentarsi ai giorni nostri (cfr. Castellano, 2019).

Piccolo elenco di microstorie nel loro ultimo viaggio
Il libro di Camillo Brezzi in quanto saggio storico si aggiunge a una produzione vasta che è fatta di studi ampi e approfonditi, evidenziati dagli storici che hanno recensito il libro, ma possiede anche una peculiarità alla quale gli storici non dedicano lo stesso interesse che può avere invece chi si occupa di immagini. Intanto perché la dimensione del viaggio, centrale nel libro, svolge nel nostro caso anche il compito di guida documentale, di punto d’arrivo di queste vite raccontate nel libro (quelle di Liliana Segre, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina, Sami Modiano e lo stesso Primo Levi), le quali si trovano a un certo punto tutte davanti a quel maledetto cancello, svilito e deturpato da quel fotoritocco che dicevamo. Chi si occupa d’immagine sa quanto potente possa essere la ricostruzione che il museo israeliano fa del treno. Un’immagine può concentrare l’attenzione lì come spazio della fine di una vita. Ci mostra come si possa essere catapultati in una “cosa” stretta che non ha un contorno. Le parole dei testimoni ci descrivono treni esclusivamente perimetro, dentro il quale tante vite che fino a un minuto prima avevano fatto delle scelte e si esprimevano nelle loro diversità, vengono improvvisamente schiacciate in uno spazio ristretto. Vite che a partire da quell’istante diventano tutte identiche e dunque tutte anonime. Del resto, il grande storico Raul Hilberg (il primo a parlare di treni negli anni Sessanta convinto che per capire la Shoah fosse doveroso studiare i meccanismi burocratici dello sterminio) aveva studiato principalmente il sistema dei trasporti per collocare quelle vite all’interno dei movimenti di carte, scartoffie e burocrazie che quei treni avevano trasportato con altrettanta efficienza (cfr. Hilberg, 2017). Allora, in quei primi anni Sessanta, ci dice (cfr. Altares, 2005), non si parlava di Shoah e chi ne era interessato doveva ancora attendere trent’anni prima che il libro fosse tradotto in italiano. Dunque era di là da venire la questione della mobilità e del viaggio concepiti dagli storici come punto di svolta.

Peraltro, è solo in questo modo che s’incomincia a introdurre la differenziazione all’interno dei diversi campi tra quello di sterminio, quello di internamento e quello di lavoro. Del resto, tutto il destino degli ebrei d’Europa è definito dal viaggio. Un paragone col viaggio che per noi fino ad un anno fa (prima del Covid, per intendersi) avrebbe chiarito immediatamente la differenza tra quello e la spinta positiva, la promessa della ricerca e di sperimentazione della vacanza che noi assegniamo al viaggio.
La seconda questione da sottolineare è quella di queste sette vite. Sostenuto dall’interesse dell’autore per la letteratura, per il cinema o per la musica come fonti storiche in grado di precedere il freddo dato statistico, queste sette voci sono dirette dallo storico con l’abilità del regista, cercando di scomporle e ricomporle a seconda delle parti del libro. L’autore realizza così il contrario esatto di ciò che fanno i nazisti: ascolta, cita parole e canzoni e rende vivo il respiro di chi avrebbe dovuto essere un numero sul braccio.

Crisi del ricordo
Il post con l’immagine ritoccata del cancello di cui sopra invece, fa venire in mente l’espressione “crisi della società del ricordo”. Questa espressione nomina un fenomeno vistoso come il divario crescente tra storia e memoria, e fa riecheggiare la questione che Theodor Adorno e i francofortesi avevano posto tra memoria e amnesia della cultura e dell’arte. Proprio in relazione a questo e di fronte a quel fotomontaggio, la riflessione di Adorno: “Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura” (Adorno, 2006), risuona con una drammatica attualità in quel suo non ravvisare alcuna cultura da difendere contro attacchi come questo. Il lavoro di Brezzi invece va in tutt’altra direzione: la sua scelta è quella di partire dalle storie per riconsegnare a queste biografie una loro leggibilità.

Il libro infatti si ispira al principio secondo il quale la storia è sempre da declinare al plurale perché saranno sempre tante e irriducibili le vite e non sarà possibile far esistere una memoria condivisa. Anzi, compito della storia sarà quello di accogliere le memorie diverse perché possono coesistere nella stessa società memorie distinte, finanche antitetiche. È sempre temibile infatti e perfino pericolosa quella versione unica che evoca, vaticina, sollecita simmetrie e condivisioni, ovvero forza la mano e vuole giochi di intercambiabilità, tra storie che ci dicono come interpretare e giudicare i conflitti di cui è costellata l’esistenza umana. Ogni tentativo di banalizzazione o parallelismo decontestualizzato va respinto con fermezza, perché non aiuta la comprensione del passato né tantomeno quella del presente. La Shoah è specifica e secondo l’autore si è dovuto attendere gli anni Novanta del Novecento per capirlo, salvo poi dimenticarlo in questi vent’anni del nuovo millennio, anni nei quali la si vuole utilizzare per veicolare messaggi di altro tipo.

L’oscenità di un fotomontaggio
Il fotomontaggio della scritta che fa da cornice al cancello di Auschwitz sostituita con l’hashtag #andràtuttobene, invita ad andare a cercare una specie di equivalenza etica delle condotte. Ha il sapore della banalizzazione e di uniformazione al conformismo. Il post intende che durante la pandemia siamo stati tutti vittime, dunque, non c’è stata nessuna vittima, per davvero. La banalizzazione, in questi casi, è quindi un male radicale: indica la decontestualizzazione, l’incomprensione totale della profondità di tante tragedie personali e di quel dramma corale che fu la guerra di sterminio nazifascista. Il post gioca una specie di pari e patta avvalendosi di uno strumento sempre più potente come l’immagine. Il ricordo del passato non deve acquietare e sedare. Una memoria vigile non unisce ed affratella per sommi capi. La questione tutta adorniana invece è la verifica della coesistenza tra le diversità. Vedere se c’è o se si sta spegnendo la coesione sociale. E allora, ci sembra chiaro: le immagini e i meme, così come creano partecipazione e commozione (ricordiamoci quello per il personale paramedico al quale abbiamo dedicato gli applausi dal balcone), possono anche distruggere. Questo dovrebbe chiarire una cosa importante: in quel post a interrogarci non è il passato e non è neanche il presente. A interrogare coloro che l’hanno accettata, ripostata e condivisa è stata piuttosto quella paura per il futuro a venire, che nei termini dell’apocalisse di QAnon sta diventando il vero orizzonte di molti dei nostri contemporanei.

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