Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale è l’ultimo saggio di Byung-Chul Han ed espone in maniera interessante l’origine di molte delle solitudini contemporanee. Il controverso filosofo tedesco di origini coreane è abile nel far affiorare lo stordimento di fronte al progressivo scivolare delle tecnologie per comunicare al centro delle nostre vite. Uno sguardo estremamente critico si posa in particolare su quella che Alvin Toffler ha chiamato “infosfera”: una stratificazione di costrutti immateriali che ormai da decenni sta fasciando il concetto di reale lavorando al cambiamento della nostra presa sul mondo. Lontani dall’epoca delle grandi ricerche della verità e della fede, a quanto pare siamo ora in balia delle informazioni usa e getta.
Il delicato passaggio dagli atomi ai bit
Oggi il senso comune tende a inquadrare l’affermazione del digitale come il passaggio da un paradigma analogico, fatto di atomi e materialità, a uno immateriale, fatto di bit e numeri. Byung-Chul Han abbraccia pienamente questa visione binaria e ci mostra come stiamo vivendo il mondo delle informazioni e dei dati perdendo il riferimento alla materialità delle cose e quindi, in una certa misura, anche alla fisicità dei nostri corpi. Viviamo di “infomi”, nodi e terminali della infosfera, che per Han sono equivalenti a “non cose”. Qui Han utilizza l’accezione “non cosa” parafrasando l’eclettico filosofo boemo Vilém Flusser, ma evitando di impegnarsi in discorsi mediologici. Il ragionamento di Han parte dalle tinte utopiche con cui studiosi come Flusser immaginavano il futuro digitale alla fine del Novecento:
“L’essere umano del futuro disinteressato alle cose non è un operaio (homo faber), bensì un giocatore (homo ludens). Non deve superare faticosamente, col lavoro, le resistenze della realtà materiale. “Gli apparecchi da lui programmati si fanno carico del lavoro. Gli uomini del futuro sono senza mani”.
Proprio in quella resistenza del materiale Han vede invece un valore, qualcosa da recuperare in qualche modo. Per Han l’uomo “senza mani” del futuro utilizza solo le dita grazie allo smartphone. Esso sceglie di agire e “non vuole nemmeno possedere nulla, solo esperire e divertirsi”. Il filosofo arriva a Giovenale e al motto “panem et circenses” per chiudere il cerchio intorno al capitalismo digitale che, elaborando nuove forme di partecipazione non necessariamente vincolate al mondo fisico, tende a toglierci l’uso delle mani. Han rimpiange l’umorismo dei primi cartoon Disney e delle comiche di Charlie Chaplin oggi improponibile: quelle gag con oggetti riottosi e animati di vita propria che mostrano intelligentemente come anche la catena di montaggio industriale, nonostante il portato di alienazione contenuto nel lavoro, possa produrre qualcosa con un’anima:
“In Charlot usuraio, Chaplin «visita» una sveglia come se fosse un corpo umano, armato di stetoscopio e martelletto, e finisce per aprirla con un trapano manuale e un apriscatole. Gli ingranaggi della sveglia fatta a pezzi diventano autonomi e si mettono in moto. Sembrano vivi”.
Han non esalta l’idealità del mondo delle cose tangibili solo perché basato sulla materia in sé. La sua proposta lavora sul filo dell’alternanza tra vicinanza e lontananza rispetto alla cosa. Gli aspetti benefici della cosità passano soprattutto per il rapporto con l’invisibile, con l’immaginazione e con la memoria. Desiderio, attesa, mistero, preghiera, in certi casi anche conflitto con l’oggetto: tutto ciò e non la disponibilità immediata garantita dai servizi digitali costituisce la strada da percorrere per raggiungere la meta di un senso duraturo.
Possesso e memoria
Ma di cosa parliamo quando parliamo di cose? Anche nel discorso di Han gli oggetti sono fondamentalmente depositari di memoria (e della sua controparte, l’oblio). Il loro permanere si lega quindi a un atto intenzionale, una scelta di radicamento. Le porzioni più interessanti del saggio sono proprio quelle che ragionano su questo vincolo, questa scelta individuale. Quando collochiamo i nostri ricordi o il nostro momento vivente sui server e nel cloud, pensando di recuperare queste “non cose” in un secondo momento, ci illudiamo sulla qualità della conservazione. Nel contesto di una mente biologica, i ricordi sono basati su tracce mnemoniche sottoposte a riordino e a continui spostamenti. Filamenti di narrazione che vibrano e si intrecciano tra loro ogni volta che ricordiamo, raccontandoci una storia che non è mai esattamente la stessa. Han afferma che il possesso fisico “viene interiorizzato e caricato di contenuti psichici”. Le “cose del cuore” sono “contenitori di emozioni e ricordi” e su queste cose si fonda la storia individuale. Interessante soprattutto il riferimento al tempo: quel “lungo utilizzo” che finisce per “animare gli oggetti”. Per Han dunque il ricordo, distinto dalla sua accezione inventariale, non sembra possibile senza contatto fisico. Se il dato è freddo e volatile, il ricordo risuona, prende tempo e resiste soprattutto perché si lega a degli oggetti.
La sedimentazione del ricordo ha una struttura che si avvicina a quella della verità, a sua volta ben distinta da quella dell’informazione che ci viene porta dall’infoma. La verità si condensa e permane quando è capace di radicarsi in nessi causali. Ma ciò richiede tempo. Esattamente come nel caso del ricordo che è il prodotto di un lavoro mentale che trasforma informazioni anche banali in coordinate esistenziali e culturali. Per Han la verità e la memoria sono forme narrative che si legano entrambe a un benefico indugio contemplativo, un permanere nel tempo che genera familiarità, presa sicura.
La fine delle cose è davvero la fine del mondo?
Perdere il contatto fisico significa perdere stabilità, se non addirittura radicamento identitario. Il social networking (su cui Han si sofferma molto dedicando capitoli specifici a selfie e smartphone) discende a cascata da questo librarsi in volo lontano dai vincoli fisici e verso il cloud inteso estensivamente come l’orizzonte della digitalizzazione di ogni cosa. Ma Byung-chul Han procede senza ammettere chiaroscuri e bisogna prepararsi a una fastidiosa spia che allerta (con rumorosità auto-evidente e antiscientifica) quanto il nostro serbatoio di “umanità” stia andando gradualmente a secco. Lo stile telegrafico, la mitragliata di sentenze taglienti è molto fruibile, divertente, a tratti commovente (per esempio nella bellissima digressione sul juke-box), ma consegna al lettore una prosa inclusiva, non certo dialogica. Descrive un dilagare di dati che affoga saperi, ricordi e radicamento identitario senza ammettere la minima sfumatura di differenza tra gli “infomi”, trattati alla stregua di cellule cancerogene dall’aspetto benigno:
“Parlando di smartphone, gli infomi ci assediano amorevolmente in quanto sbrigano per noi qualsiasi incombenza. Chi vive con lo smartphone è privo di crucci. Il telos dell’ordine digitale è probabilmente il superamento del cruccio che secondo Heidegger è il tratto fondamentale dell’esistenza umana. L’esserci è cruccio. Oggi l’intelligenza artificiale è in procinto di smaltire l’esistenza umana, crucci compresi, portando avanti un’ottimizzazione della vita ed eliminando il futuro quale fonte di preoccupazioni: essa debella cioè la contingenza del futuro. Un futuro prevedibile in forma di presente ottimizzato non ci preoccupa piú”.
Il quadro concettuale e teorico piuttosto debole, lascia almeno lo spunto della dialettica tra rumore e silenzio, tra azione e contemplazione. E se lasciassimo alle macchine questo mondo delle informazioni che abbiamo costruito? E se fosse possibile trovare un modo per guardare al passato e prendere quanto c’è di buono nel mondo delle cose spazzando via quegli inconvenienti materiali chiamati guerre e carestie? Del resto quando una guerra pungola la nostra attenzione emergendo dalla massa gelatinosa degli infomi, abbiamo davanti un vero e proprio trionfo di cosità: scenari in cui mancano cose perché razionate o in cui cose come le armi sono presenti eccome.
Bomba o non bomba
Per Han il futuro che gioca senza mani è la fine della Storia. L’affermazione chiama in causa Francis Fukuyama. Ma forse si tratta solo della fine della Storia come la conosciamo noi oggi. La propensione umana ad affermare istanze politiche con la forza rilevata da Fukuyama, ha storicamente portato gli squilibri a sfociare in conflitti violenti, in guerre o in terrorismo. Quella Storia è tutt’altro che finita. Forse ha ancora senso provare a spostare almeno parte dei conflitti su un piano diverso da quello materiale cercando nuovi modi per ricomporre interessi contrapposti. Proprio il declino di un certo modo di legarsi al passato descritto da Han potrebbe aprire scenari inediti per il radicamento identitario. Salutiamo dunque senza indugi il mondo degli oggetti se questi oggetti sono le carte della burocrazia, i muri e le recinzioni che proteggono confini o proprietà private, le bombe e le armi la cui cosità è programmata per esploderci in faccia.