La difficoltà ormai incistata che affligge la vendita dei supporti fisici, sia nel settore discografico che in quello cinematografico, a esclusione della vigoria senile a cui è soggetto il vinile, ha reso i concerti la principale fonte di reddito delle case discografiche, è per questo che nel mondo della musica l’evento Covid ha rappresentato quanto di peggio si poteva immaginare. Tour annullati e problematiche al limite del fallimento per promoter, società di gestione degli impianti e quant’altro. La punta dell’iceberg di questo dramma nel dramma, una delle poche situazioni che si è meritata la citazione sui giornali, ha riguardato il tour di Paul McCartney, con conseguente strascico di polemiche per il mancato rimborso dei biglietti prenotati con mesi di anticipo.
Nascosta sotto queste big news che riescono a raggiungere il grande pubblico non specialista, vi è una triste catena di serate annullate, di spettacoli online, di concerti senza pubblico e di tutto ciò che l’inventiva artistica ha provato a realizzare nei brevissimi tempi a disposizione. A tutt’oggi, purtroppo, non si vede la luce alla fine del tunnel, e il settore è costretto ad affrontare un ripensamento sia formale che sostanziale, e che oggettivamente riguarda la sua stessa esistenza, con tutte le implicazioni del caso. È possibile pensare a concerti dove si mantiene la distanza? Oppure ad attori e cantanti costretti a portare la mascherina sul palco? Come si può pensare una sezione fiati in questo contesto? C’è un musicista che forse più di ogni altro sta vivendo in modo psicosomatico questa ricerca di nuove forme che la musica sta cercando: è Bruce Springsteen, musicista che come pochi altri ha trasformato i suoi concerti in una sorta di cerimonia religiosa, in un rito collettivo di festa e passione.
Quando, dopo la fine di febbraio 2020, la diffusione del virus ha raggiunto l’Europa, e di conseguenza nell’arco di poche settimane è stato evidente che l’intera stagione estiva sarebbe stata irrimediabilmente compromessa, Springsteen si è ritrovato nella condizione di dover reimpostare i progetti in corso, situazione drammaticamente peggiorata con l’esplosione del Covid anche negli USA. In quel momento il musicista del New Jersey si trovava in una situazione lavorativa molto particolare, avendo appena concluso il lungo periodo dedicato alla pubblicazione e alla diffusione di Western Stars, il suo ultimo album di brani inediti. Questo aveva comportato un lavoro a 360°, a partire dai diversi account social che a lui fanno riferimento, includendo quindi sia quelli a carattere familiare (la moglie Patti Scialfa e la figlia Jessica) sia quelli più strettamente lavorativi (il produttore Ron Aniello, i membri della E Street Band e alcune figure di riferimento dell’area musicale del New Jersey). A partire quindi da alcune immagini centellinate su Instagram nella primavera 2019, fino ad arrivare all’album del giugno dello stesso anno e al film omonimo uscito a dicembre, l’intero staff di Springsteen si è speso per ottenere il massimo da un album che si preannunciava di difficile gestione da parte di un pubblico di fan che agognava sin dal 2016 il ritorno ai concerti dal vivo, e che voleva assolutamente leggere ogni sua attività in questa prospettiva.
Bersaglio centrato e gestione più che salda
Con grande sorpresa di Springsteen stesso, il risultato è stato eccellente e l’operazione è riuscita perfettamente sia dal punto di vista commerciale che da quello artistico, se si escludono voci sparute e isolate di pochi critici. All’inizio del nuovo anno, lo stesso procedimento – squadra che vince non si cambia – era in corso a proposito del nuovo, annunciato, album con l’intera band, a cui avrebbe dovuto seguire, così si mormorava, una qualche forma di promozione dal vivo, quando la comparsa del virus ha di fatto bloccato ogni tipo di possibilità. Certamente niente stadi, ma a questo punto nemmeno teatri, nemmeno un tour. Certamente lo stop forzato ha creato molte perplessità nello staff, come si è visto nelle dichiarazioni rilasciate in alcune interviste o sui profili social, spesso contradditorie e poco chiare. I ranghi però sono stati serrati rapidamente e Springsteen ha preso nettamente in mano il controllo di tutto quanto concerne la comunicazione e le sue future attività.
Raccontata così sembrerebbe una questione sostanzialmente commerciale, ma per Springsteen la separazione tra queste e gli aspetti invece artistici è sempre sfumata. Porsi la domanda su quale sia il modo migliore per raggiungere chi ama il tuo lavoro, non è solo una questione di vendite, ma è soprattutto un continuo interrogarsi sul valore di ciò che fai, e sui canali aperti con chi ti ascolta. E così ha fermato la crescita dell’hype intorno all’album, ci sarebbe stato tempo per parlarne, e si è girato, guardandosi alle spalle, per tornare alla musica ed al perché la ascoltiamo. C’è una totale continuità tra lo spirito con cui Springsteen si è rivolto ai suoi ascoltatori in questi ultimi mesi e il messaggio intorno a cui si è svolta la sua ricerca per Western Stars. In quei personaggi si incarna una storia musicale, che per Springsteen equivale alla storia della sua vita. Così è andato in radio e ha iniziato a trasmettere canzoni, e a raccontare perché quella musica era importante.
Certamente la scelta del medium non è casuale, l’affetto di lunga data che lega Springsteen alla radio è noto, e le trasmissioni, che vengono intitolate From my home to yours, hanno iniziato a susseguirsi con cadenza bisettimanale, mentre le playlist compongono un mosaico dove si racconta la storia dell’America e dei suoi conflitti.
Visioni del mondo a confronto
Springsteen cercava un modo per essere incisivo in un ambiente dominato da negazionisti e trumpiani, cercava di convincere la gente a stare a casa quando il presidente diceva esattamente il contrario, cercava di essere solido e concreto mentre ogni cosa si trasformava in immaginario e proiezione. Ma la fantasticheria trumpiana che si riassume nel Make America Great Again, prima ancora che contro il dramma del contagio doveva infrangersi contro l’asfalto di Minneapolis, quella strada dove George Floyd è stato ucciso, dando il via alla più grande e diffusa protesta degli ultimi decenni negli USA. Springsteen rilascia un’intervista importante su The Atlantic (cfr. Brooks, 2020). Serve a definire un confine, tracciare una cornice, inquadrare un orizzonte che deve comprendere entrambe le grandi tragedie che stanno attraversando gli USA. Non nasconde nemmeno per un istante la gravità della situazione, ma – con una capacità davvero rara – rilegge ogni problema come una opportunità.
“Credo che nessuno sappia veramente dove stiamo andando. Dipende da troppe incognite. Non sappiamo dove ci porterà il Covid. In questo momento non sappiamo dove il Black Lives Matter ci porterà e se riusciremo ad avere un vero confronto sulla questione razziale e la polizia e, in definitiva, sulla disuguaglianza economica che è stata una macchia nel nostro contratto sociale. Naturalmente, nessuno sa dove ci porteranno le prossime elezioni. Credo che il nostro attuale presidente sia una minaccia per la nostra democrazia. Semplicemente rende qualsiasi tipo di riforma molto più difficile. Non so se la nostra democrazia potrebbe reggere altri quattro anni della sua carica. Queste sono tutte minacce esistenziali per la nostra democrazia e per il nostro stile di vita americano. Se consideri tutto questo, potresti essere pessimista, ma ci sono aspetti positivi in ognuna di queste circostanze”.*
E così se la quinta trasmissione si concentra su Black Lives Matter e il conflitto razziale, la sesta ritorna sul tema del coronavirus, in una continua oscillazione, che ha come obiettivo quello di dare pari importanza alle due grandi tematiche, concentrando, su entrambi i fronti, l’attacco al presidente Trump. “With all respect, sir, show some consideration and care for your countrymen and your country. Put on a fucking mask”, queste le parole precise. Il giorno precedente alla sesta trasmissione Little Steven aveva scritto:
“Ascoltate il programma di Bruce. È un’ora di preghiera laica che ci dà quel conforto di cui abbiamo tanto bisogno e una catarsi per una nazione fortemente ferita. Bruce sta elevando la radio a quell’alta forma di arte che la radio può rappresentare quando viene fatta correttamente.”*
E Springsteen inizierà la trasmissione chiedendo ai suoi ascoltatori: “Unitevi a noi, […] per un po’ di musica che spero possa alleggerire e guidare, anche solo un po’, la vostra anima.”. Springsteen applica in modo straordinario durante queste trasmissioni (ormai siamo a sette) lo spirito che lo ha sempre guidato: la musica è il cibo dell’anima, è terapia, è cura ed è portatrice di salvezza, in sintesi, può aiutare, e lui è quello che fa, parlando, e continuando a raccontare e raccontarsi. Ascoltare la musica e le parole che provengono dal soul dei molti musicisti che lo accompagnano, da Billie Holiday a Childish Gambino, da Bob Dylan a Kanye West, indica la strada da seguire per compiere le scelte giuste. Sia per ciò che riguarda la pandemia globale che – con un respiro più ampio – per le difficoltà, piccole o grandi che ognuno di noi è chiamato ad affrontare. L’amore e la compassione, la famiglia e l’amicizia, la cura e la fratellanza, sono i valori di un uomo che di fronte alla follia di un presidente continua a citare Martin Luther King.
*Per le traduzioni si ringrazia il Pink Cadillac Fun Club.
- David Brooks, Bruce Springsteen’s Playlist for the Trump Era, The Atlantic, 23 giugno 2020.