La scelta della casa editrice Cliquot di accompagnare la recente pubblicazione di un secondo volume, dopo La vita involontaria, questa volta di racconti, di un’autrice rapidamente dimenticata come Brianna Carafa, con dei disegni realizzati dalla stessa è l’ingresso consono al suo mondo. Non solo perché tratteggiano, esclusivamente nei toni del bianco e nero, paesaggi essenziali dove nulla è concesso all’esigenza eventuale di colmare vuoti, alla sovrabbondanza funzionale a un riempimento, ma anche per l’ostinata prevalenza delle linee, quasi ossature, all’interno della dimensione sconfinata della natura, quale appare dalla predilezione paesaggistica declinata in un assolutismo relativo. Si tratta di un effetto visivo che deriva dall’apposizione in essa di sporadiche abitazioni percepite nella loro piccolezza dal punto, evidentemente distante, dell’osservatore.
Nei disegni contenuti nella raccolta Gli angeli personali le case piccine sparse nella vastità di un paesaggio montuoso dominato da cime altissime o arroccate su alture o quasi sospese nel bianco di un’assenza, con l’eccezione di un dettaglio di una via posto al principio del testo e, forse, strumento di facilitazione all’ingresso nell’universo umano delle sue storie, sono l’emblema della modalità di indagine dell’autrice: senza dimenticare l’inserimento della narrazione nell’ampio contesto di una ricerca ostinata di senso nel percorso esistenziale che irrompe attraverso ciò che è fuori di noi, la Carafa rivolge lo sguardo nell’intimo domestico avendo cura di non tralasciare i dettagli che ne rivelano miserie o qualità alchemiche, rinnegando l’evidenza di un umano che non sia quello riconducibile ai potenziali abitanti delle uniche tracce, di stanziamento, visibili e materiali, sparse qua e là.
Qui si assiste a un apparente paradosso: uomini e donne che la scrittrice si prodiga di non ritrarre, nella forma disegnata, sono presenti in ciascuno dei racconti con una forza e un’identità tali per cui risulta alquanto improbabile dimenticarsene. Non è cosa da poco, se si pensa che Gli angeli personali non è un romanzo, ma una raccolta di racconti che deve evidentemente comporsi di storie talmente singolari, con la complice caratterizzazione dei loro protagonisti, da non potere essere archiviata dal lettore con la semplicità con cui avviene il medesimo processo, a lettura ultimata, di fronte a una comune serie di storie brevi. Nonostante in ciascun pezzo della composizione resti almeno un personaggio degno di nota, esposto e nella sua solitudine e nella relazione con l’altro, con un livello di introspezione psicologica di cui nella letteratura contemporanea non esiste quasi traccia, due donne dominano in assoluto il secondo omaggio reso alla scrittrice romana da Cliquot: da un canto, certamente, la figura della nonna, le cui pagine riportano alla mente la celebrazione della irriverenza della propria da parte di Fabrizia Ramondino nel suo capolavoro Althenopis, laddove l’autrice napoletana trovava in essa un ideale femminile alternativo a quello stancamente suggerito dalle dure membra materne, mentre qui lo sguardo volge a livelli di attenzione che non concedono lo spazio per voli funzionali a idealizzazioni salvifiche:
“«Ma nonna, non ti piaceranno mica i briganti!» esclamai turbata. «Non proprio…» ribatté esitando, come combattuta fra la ragione e il cuore «ma un poco, ecco, forse sì». E sorrise compiaciuta, in fondo, d’essere sé stessa e malgrado tutto nostalgicamente fedele all’unico oggetto della sua passione che, sebbene a lei quasi ignoto nella realtà, aveva raccolto una volta per sempre i sogni della sua giovinezza, della grande avventura dei sentimenti, di uno spazio insomma in cui librarsi colmi d’amore, di palpiti e di cattiva coscienza”.
Dall’altro, una governante tedesca rispetto a cui la piccola a lei destinata finirà in parte per soggiacere fino al punto di concepirne la ribellione all’autorità da essa incarnata nei termini di una colpevole infrazione a un sotteso codice di fragile complicità tra anime sole:
“Ogni tanto abbandonavo il libro, i pensieri si dissolvevano e di nuovo l’ultimo punto di riferimento, l’ultima possibilità di rinascita, era lei, la Governante. E di nuovo, facendo appello a tutte le mie forze, ricostruivo ciò che era stato distrutto, finché alla fine, come una terra faticosamente conquistata su cui piantare la propria bandiera, riuscii a essere padrona di quell’ora e di me stessa”.
Nulla è come sembra, le verità possono essere ribaltate da un momento all’altro, perché ciascuno porta dentro di sé un segreto, una crepa, un desiderio, una fatica che rendono spiegabile ogni interazione, in apparenza ingiustificabile, col mondo, di queste creature poste ai margini dell’ovvietà di massa e fuori dalla presunta normalità della vita adulta, dove tutto si muove nel rispetto rigoroso di meccanismi a cui seguono inossidabili conseguenze che non includono l’inaspettato che qui, invece, prevale, domina la scena, svela l’altro capo a cui siamo tutti appesi, tra follia e morte. Dice di loro Ilaria Gaspari nella prefazione al testo:
“Nei disegni mancano le figure umane: un vuoto evidente come l’assenza della madre nel pantheon di questi Angeli personali […] che di angelico hanno poco, ma di personale molto, e sono imperfetti, umanissimi messaggeri di un destino privato, segreto, e insieme, come quello di tutti i grandi autori, aperto alla comprensione dell’umanità intera”.
Questo non equivale a dire che l’autrice tinga di benevolenza ogni ritratto. Più correttamente, invece, ciascuno di essi si fa fedele rispecchiamento delle peculiarità psichiche del singolo, in un gioco a incastro in cui all’indissolubilità meccanicistica del procedere di massa si sostituisce l’anomalia della solitudine e della fragilità composita in cui tuttora ci muoviamo senza che, però, a noi si accompagnino uno sguardo attento e una capacità disvelatrice degni di nota.
Il primo dei racconti che compongono Gli angeli personali è, in prima istanza, un chiaro omaggio alla nonna materna, la cui descrizione iniziale è già sufficiente a introdurne non solo il contesto sociale in cui si muoveva con l’apparato di obblighi e formalità che ne faceva seguito (siamo ai primi del Novecento, essendo Carafa nata nel 1924), ma anche il dettaglio di una diversità che sarà la chiave di lettura di un intero percorso umano assolutamente fuori dai canoni consueti:
“Mia nonna era alta, diritta, slanciata, vestita di nero, e aveva occhi a un tempo maliziosi, vivi e diffidenti nel volto rugoso, chiuso in una piccola cuffia nera da cui pendeva sulle spalle una sorta di velo monacale. Intorno al collo portava un nastro anch’esso nero che lo rendeva più lungo e sottile mentre, per il resto, disdegnava qualsiasi ornamento della persona”.
Quasi specchio, in seconda istanza, di un’immagine evangelica declinata al femminile, la nonna della Carafa credeva che le porte della sua casa dovessero rimanere aperte, pronte ad accogliere, nell’eventualità, un viandante sperduto che da quelle parti si fosse imbattuto nell’urgenza di una dimora, mentre nelle parole della nipote riecheggia, più che la derivazione “superiore” del gesto, il probabile gioco di rispecchiamenti che la figura del viandante doveva generare in lei:
“Ma certo quella del viandante sperduto nella nebbia altro non era che l’immagine di sé stessa in un mondo che non riusciva ad afferrare appieno”.
Attenzione bivalente, dunque, quella che la scrittrice riserva a questo, come ad altri aspetti, abitudini, comportamenti, di questa figura fondamentale per la sua esistenza, rilevandone, in più punti, il carattere esemplare di un’identità femminile fuori da ogni stereotipo, anticipatrice di un’emancipazione di pensiero nella relazione con l’altro sesso ancora di là da venire:
“E non senza ragione sogguardava alla sua bella, giovane moglie straniera con un imprecisato seppur costante timore, a volte blandendola teneramente, a volte frenando i suoi slanci con rozza e disperata ragionevolezza”.
E, parallelamente, l’intimità fragile, quasi eco di una scomposizione mai risolta e, per questo, al limite dell’umano comprensibile e, pertanto, accettabile. Al riguardo, persino la sua sfera religiosa era insolitamente combinata, poggiando non solo sui “santi riconosciuti dalla chiesa”, ma anche su quelli “ufficiosi”, “dei profani”, senza alcuna preferenza per gli uni o per gli altri, scalfendo indirettamente quella “solida, ferma, bonaria” del marito. Evidenza chiara, dunque, di uno spirito di ricerca solo in apparenza contenuto dalle forme sonnolenti matrimoniali, all’interno delle quali lei trova il modo di non tradire sé stessa pur nell’obbligo da adempiere verso un uomo lontano anni luce dall’eroico brigante che avrebbe dovuto riscattarla dalle temperature miti di una certa vita borghese.
Irruenta e idealista, testarda e combattente, scarsamente dotata della virtù della prudenza, prepara in qualche modo la strada, pur senza alcuna logica di interesse sottesa che non sia la valutazione del momento presente e delle sue necessità, allo scardinamento di ogni forma di privilegio e, per prima, dialoga, pur nell’austerità parziale che porta con sé fino alla fine, quasi un sigillo di nascita, con chiunque sia in grado di ampliarle gli orizzonti o, quantomeno, di dibattere con lei circa la limitazione di una prospettiva che evidentemente lei stessa è già pronta a mettere in discussione e a mutare in caso il duellante adduca solide argomentazioni.
Come ben si evince, Carafa fornisce al lettore tutti gli strumenti utili per entrare negli illogici meccanismi della complessità umana e femminile in particolare, senza tralasciare il momento della fine che entra nella vita della donna sotto forma di distacco pensieroso, lontananza, paura dell’inferno. Pur nella capacità introspettiva di rendercene il senso che supera ogni logica, l’autrice si mantiene, e qui in relazione al coinvolgimento emotivo il passaggio è più chiaro, in un equilibrio compositivo di rara perfezione, dove l’attenzione rivolta all’altro, in questo caso all’altra, è tale per cui la compassione di un osservatore benevolo e vicino cede volentieri il passo a un motivo allegro moderato quale quello offerto dall’osservato, dalla sua dignità, quella di chi sceglie in estrema coerenza a sé, noncurante delle conseguenze che non siano quelle strettamente legate a una forma scarna, essenziale di decoro.
Se certamente questa è una figura estremamente difficile da dimenticare, come lo è quella della governante, quasi due assi portanti dell’intera raccolta, per densità espositiva e sviluppo temporale, le anime che popolano gli altri racconti non rinunciano a lasciare il segno e si candidano a rimanere altrettanti buoni alleati nel processo della memoria che involge questo testo. Così Luisa, “quella signora alta, sottile e diritta come una canna, dal malinconico viso equino chiuso fra due bande di capelli scuri, gli occhi rotondi, lustri, intensi, le magre dita affusolate e una voce acuta da canto, un po’ crinata, resa dolce dalla lentezza con cui pronunciava le parole”, ci restituisce l’altra faccia delle storie, il lato oscuro delle certezze infantili.
Luisa non è solo l’amante del padre concepita ambiguamente sulla pagina dagli occhi della figlia innamorata perdutamente di chi l’ha messa al mondo, ma diventa l’occasione per entrare nella fragilità femminile, nell’universo dei padri scardinato, nella indissolubilità della forma mitologica, dall’urgenza di essere considerate e da quella frattura che ci accomuna tutte e che ci consente di riservare allo sguardo rivolto a potenziali rivali la pietas di chi, alla resa dei conti, non ha tra le mani nulla se non il desiderio, insoddisfatto, di essere profondamente amata, esattamente come chi sta dall’altra parte del gioco.
“Aveva i gesti composti, misurati, che le avevo visto alla fiera, c’era in lei quel che allora avevo tanto ammirato: quel suo essere adulta, chiusa, l’aver ragione ed essere sconfitta”.
Allo stesso modo Elodia, Manlio, Lino e le altre anime diventano, nelle mani della Carafa, lo spunto ideale per raccontare traumi, debolezze, incastri funzionali a manipolazioni e a vittimismi identitari, il labile confine tra verità e bugia nella distorsione con cui proviamo egregiamente a non soccombere alle delusioni della vita rinviando sempre di più l’incontro con noi e con la nostra mediocrità. Nessun tribunale viene eretto per emettere una sentenza definitiva perché non esiste un’idea di bene assoluto in grado di fungere da criterio di determinazione della responsabilità e, dunque, della pena.
La realtà è ben oltre gli incasellamenti normativi e ogni gesto, persino quelli in apparenza più insensati, se sfugge alla ratio giuridica, è certamente inquadrabile in un reticolato più ampio, a maglie più larghe, dove i punti che ne impediscono la fuoriuscita non sono altro che la sintesi di un senso più profondo che si radica nelle singole intimità e nella singolarità delle storie. Merita un cenno a parte, per grado di analisi e scelta narrativa di percorrere un arco di tempo maggiore rispetto alla media degli altri, con conseguente disamina di andamenti più o meno evolutivi, e della protagonista e degli altri personaggi che vi ruotano intorno, il racconto dal titolo La Governante.
Ora la bellezza della storia non è soltanto riconducibile alla verosimile intenzione della Carafa di riportare sulle pagine la fatica della crescita in un contesto sociale alto-borghese di estrema solitudine, dove la fanciulla destinata alle cure della nuova assunta si muove, accompagnata da un senso di estraneità e quasi disappartenenza, in una grande casa popolata da figure familiari che appaiono quasi celle isolate di un’unione farsesca scavata nel vuoto dalla prematura scomparsa della madre.
L’origine della bellezza è altrove, nel rapporto che si genera tra governante e destinataria delle sue non troppo amorevoli cure: ciò non solo nel più semplicistico senso che la crescita, quale segno di principio di autodeterminazione, determina nella piccola l’infrazione delle regole imposte dalla donna giunta in missione dalla Germania a portare ordine in terra partenopea, indomabile per natura, ma anche in un angolo quasi segreto che si amplifica fino a diventare il punto della narrazione. È il sodalizio che nasce tra le due, è una complicità sottesa e sottile che si nutre di isolamento e scarto di due anime lontane per età e storia, ma più vicine di quanto non si creda, qualcosa che, più ancora del rapporto di forza con conseguente faticoso disconoscimento dell’autorità, è di ostacolo alla liberazione della piccola.
“Da ariose, turbinose folate di Nulla, emergeva infine la Governante come la salvezza di una realtà qualsiasi che mi ridesse vita, non importava se attraverso l’amore, l’odio o la paura. E che, per il solo fatto di muoversi, parlare, compiere gesti consueti, restituiva realtà e misura alle cose”.
La donna offre un ancoraggio necessario alla realtà da cui la piccola fugge in una ricerca in solitario di sé tra le pagine dei libri, prima che la verità affiori, oltre la creazione di incastri di bisogno. È la ricerca di un proprio modo di stare al mondo fuori dalle regole esterne che genera il tradimento della “coppia”, la crisi dei ruoli, la frantumazione dell’ingresso mediato della realtà e l’urgenza di entrarci direttamente. Qualcosa che rivela la simbiosi e le crepe, la fragilità psichica dell’una e il bisogno di andare nel mondo dell’altra, superando la ricerca tra le pagine di un libro della prova della propria certezza di esserci. E lì si torna, al senso, al percorso di ciascuno. Recita un passaggio:
“Quasi che non riuscissi ad amarmi e ad amare abbastanza per assicurarmi un senso, una continuità in quel buco di solitudine, che mi portasse dall’altra parte, come un ponte, dalla parte degli altri, dell’esperienza, dell’azione”.
In fondo, la perfetta sintesi del nucleo di questa raccolta, dove la marginalità è una privazione d’amore, principio e conclusione dell’eterno viaggio delle anime ribelli, angeli caduti da un Paradiso mancato in una dannata porzione di Terra.
- Brianna Carafa, La vita involontaria, Cliquot, Firenze, 2020.
- Fabrizia Ramondino, Althénopis, Einaudi, Torino, 2016.