Tra il 1560 e il 1660 le temperature globali crollarono. Fu il picco della cosiddetta “Piccola Era Glaciale”, una fase di raffreddamento planetaria che si protrasse fino agli inizi del XIX secolo e dovuta, secondo gli scienziati, a una riduzione dell’attività solare. Ma il crollo delle temperature nel corso di quel secolo avrebbe un’altra spiegazione, secondo uno studio recentemente pubblicato da ricercatori dell’University College di Londra: l’estinzione di massa dei popoli amerindi. Quando Cristoforo Colombo arrivò in America, le popolazioni autoctone contavano, secondo le stime, sessanta milioni di individui. In meno di un secolo, si ridussero del 90%. Un’autentica estinzione di massa dovuta, com’è noto, alle malattie importate dall’Europa, alla violenza dei conquistadores, agli shock culturali. In una parola, alla colonizzazione. L’America fu completamente spopolata e solo gradualmente ripopolata dai coloni europei e dagli schiavi importati dall’Africa. Le città precolombiane furono inghiottite dalla foresta, le coltivazioni si interruppero e vennero invase dalla vegetazione: ciò avrebbe comportato una significativa riduzione dell’anidride carbonica in atmosfera e la riduzione delle temperature globali (Koch et al., 2019). L’umanità, dunque, già agli albori della modernità, si sarebbe rivelata, se non ancora “forza geologica”, come nella definizione dello storico Dipesh Chakrabarty (2009), perlomeno “forza atmosferica”, in grado di influenzare in modo determinante l’intera biosfera.
Siamo sempre stati antropocen(tr)ici?
Questo episodio (se ci si passa l’eufemismo) potrebbe mettere in discussione la concezione comune di Antropocene, il termine coniato per primo negli anni Ottanta dal biologo Eugene Stoemer e reso celebre, a partire dai primi anni Duemila, da Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica, con il suo libro Benvenuti nell’Antropocene (2005). Da allora il termine ha riscosso un successo enorme, spingendo i geologi di tutto il mondo a chiedersi se non sia il caso di annunciare l’inizio di una nuova era geologica, quella attuale, successiva all’Olocene, iniziata con la fine dell’ultima era glaciale. La domanda è diventata allora: quando ha avuto inizio l’Antropocene?
C’è un certo consenso intorno all’idea che le sue origini vadano datate al XVIII secolo e all’avvento della Rivoluzione industriale, che avrebbe iniziato a immettere significative quantità di gas serra in atmosfera, e ad avviare quell’attività estrattiva di combustibili fossili depositatisi nel corso di milioni di anni sotto la superficie terrestre che ha oggi raggiunto l’acme. Da allora la situazione, infatti, non avrebbe fatto altro che peggiorare, aggiungendo, alle emissioni climalteranti dovute alla combustione di carbone, petrolio e altri gas naturali, la produzione su scala globale di plastica (in grado di depositarsi sugli strati geologici per epoche molto lunghe), nonché la radioattività atmosferica, l’incremento degli allevamenti e delle terre arabili, con conseguente deforestazione e aumento delle emissioni di gas serra. Ma se si guarda al lungo periodo, la datazione andrebbe corretta. Di fatto, la nostra civiltà si è già rivelata in grado di modificare l’atmosfera in epoche precedenti all’industrializzazione e al consolidamento del capitalismo; e se spingiamo lo sguardo ancora più indietro, inevitabilmente dobbiamo concludere che l’avvento delle civiltà agricole stanziali ha iniziato a modificare in modo sensibile l’ambiente fin dagli albori della nostra Storia.
Antropocene, malattia infantile del Capitalocene
Tutto ciò ha conseguenze importanti per le riflessioni sull’Antropocene, perché ci spinge a problematizzare ulteriormente la questione, andando oltre il dibattito sulle soluzioni tecnologiche e politiche per contrastare i cambiamenti climatici, e riaprendo una vecchia cicatrice, quella del conflitto tra Uomo e Natura (o tra Cultura e Natura), che ci trasciniamo da secoli, se non da millenni. La difficoltà di conciliare questi due termini è, di fatto, il problema irrisolto di tutta la vicenda umana. Non è quindi vero, come invece ha scritto Donna Haraway (sulle cui teorie torneremo in dettaglio in seguito), che la Specie Homo di per sé non abbia colpe per l’Antropocene, e che le uniche colpe siano quelle del capitalismo, per cui sarebbe più corretto parlare di Capitalocene (Haraway, 2016).
Senza dubbio, l’accelerazione del processo di alterazione della biosfera è un fatto recente che va attribuito all’avvento del capitalismo, che è però solo la versione più performante di un processo estrattivo delle risorse naturali e di “occupazione” della biosfera che è connaturato alla civiltà umana. Senza dubbio, il capitalismo è – come è stato efficacemente sintetizzato di recente (Carella, 2019) – sostanzialmente incompatibile con la vita sulla Terra, dal momento che presuppone una crescita infinita in un mondo di risorse finite, come già negli anni Settanta mise in chiaro il primo rapporto sui limiti della crescita del Club di Roma (Meadows et al., 1972). Senza dubbio, l’ambizione del turbocapitalismo contemporaneo di colonizzare l’universo per proseguire in modo incessante l’estrazione e lo sfruttamento delle risorse naturali su scala cosmologica è indice del parossismo a cui è giunta l’accelerazione dell’accumulo del capitale, che ha ormai definitivamente compromesso la biosfera e potrebbe, nell’arco di un paio di generazioni, costringere la specie umana a emigrare verso nuovi mondi.
E tuttavia, come anche la stessa Haraway ha osservato, se il capitalismo fosse così inviso lo avremmo già superato da un pezzo. Mentre il fatto che anche la sua unica forte alternativa storica abbia, nel corso del Novecento, imboccato in modo convinto il processo di iperindustrializzazione come unica via della modernità, e che questa convinzione nell’esistenza di un’unica traiettoria di sviluppo sia ripresa in tempi recenti anche dall’unica alternativa geopolitica all’egemonia dell’Occidente (la Cina), implica che siamo di fronte alla reificazione di processi mentali connaturati alla Specie Homo.
Se è vero, come già intuì Blaise Pascal, che “tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper restare tranquilli in una stanza” (Pascal, 2014), nulla di più illusorio che credere che, abbattendo il capitalismo e tornando a un’utopica (e mai esistita) età dell’oro dei nostri padri, sia possibile porre fine all’Antropocene. Dobbiamo allora fare i conti con il nostro destino, con quel nodo irrisolto del conflitto tra Natura e Cultura che, se non affrontato, non avrà come unica, drammatica conseguenza la sesta estinzione di massa oggi in atto (Kolbert, 2016), ma anche una divaricazione talmente profonda tra i due termini da rendere il nostro mondo sostanzialmente incomprensibile e ostile alla specie umana, minacciandone la sopravvivenza.
L’incomprensibilità del mondo
Nel suo libro La cospirazione contro la razza umana (2010), Thomas Ligotti cita un passo del racconto I salici di Algernon Blackwood, in cui i protagonisti, in viaggio su una barca lungo il Danubio, vedono la natura intorno a loro assumere aspetti sempre più inquietanti e ostili:
“L’angoscia che provavo – dice il protagonista – era un sentimento così vago che era impossibile risalire alla sua origine e affrontarla di conseguenza, benché mi rendessi conto che, in qualche modo, aveva a che fare con la consapevolezza del nostro essere del tutto insignificanti di fronte al potere illimitato degli elementi circostanti. Anche il fiume ormai immenso ne faceva parte in qualche misura: era l’idea vaga e sgradevole che avessimo preso alla leggera quelle grandi forze primordiali alla cui mercé eravamo in ogni ora del giorno e della notte, senza scampo. Là esse erano per davvero all’opera, agivano insieme senza alcuna misura, e l’osservarle affascinava la mente” (cit. in Ligotti, 2016).
La sostanziale alienità della natura rispetto all’essere umano è forse l’aspetto più emblematico dell’Antropocene. La civiltà umana non è in più in grado di comprenderla, forse perché si sta già trasformando in qualcos’altro (la postumanità su cui in seguito torneremo), forse perché è la natura invece a trasformarsi sotto l’effetto della sesta estinzione di massa, come avviene nella Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (2018), dove l’ecosistema subisce una trasformazione talmente radicale e ostile alla specie umana da creare un “mondo” altro che gradualmente si sostituisce al nostro. Per Ligotti, questo “è il motivo ricorrente dell’orrore soprannaturale: qualcosa di terribile nella sua essenza arriva e avanza le sue pretese come un azionista nella nostra realtà, o in quella che pensiamo sia la nostra realtà esclusiva” (Ligotti, 2016).
Questo tema è stato esplorato in dettaglio dal filosofo Eugene Thacker nel suo Tra le ceneri di questo pianeta (2011 l’edizione originale), primo capitolo di una Horror of Philosophy Trilogy che utilizza i topos tipici della narrativa dell’orrore per comprendere il nostro attuale rapporto col mondo. Alla base della riflessione di Thacker c’è l’assunto che il nostro mondo “è sempre più impensabile”, a causa delle trasformazioni a cui lo stiamo sottoponendo; ma per l’autore si tratta di un’idea da accettare per “confrontarsi con un limite assoluto della nostra capacità di conoscere adeguatamente il mondo” (Thacker, 2018). Egli distingue al riguardo – utilizzando terminologie riprese dall’idealismo e da Martin Heidegger – tra un mondo-per-noi, quello che come esseri umani interpretiamo e a cui diamo significato, e un mondo-in-sé che è radicalmente altro rispetto a noi, ma che cerchiamo da sempre di adattare, trasformandolo nel mondo-per-noi. Il primo viene definito “Mondo”, il secondo “Terra”. Esiste anche una terza dimensione, il mondo-senza-di-noi, cioè un mondo a venire del quale la nostra specie non farebbe parte, che possiamo chiamare “Pianeta”. L’orrore è, secondo Thacker, il nostro tentativo di comprendere quest’ultima dimensione.
Lo strano e l’inquietante
L’unico modo per pensare il mondo-senza-di-noi è, come suggerisce anche Ligotti, attraverso il pessimismo cosmico:
“La visione del pessimismo cosmico è uno strano misticismo del mondo-senza-di-noi, un ermetismo dell’abisso, un occultismo noumenico. È il difficile pensiero di un mondo assolutamente inumano, indifferente alle speranze, ai desideri e agli sforzi degli individui e delle comunità umane. Il suo pensiero limite è l’idea di nulla assoluto, inconsciamente rappresentata in molte immagini dei media popolari, come le guerre nucleari, i disastri naturali, le pandemie globali e gli effetti cataclismatici del cambiamento climatico” (Thacker, 2018).
Come ha osservato Mark Fisher nel suo The Weird and the Eerie (2018), il pessimismo cosmico trae la sua origine dalla convinzione che l’universo si disinteressi completamente di noi. Non è un’idea nuova, naturalmente. Giacomo Leopardi ne fece la base del suo sistema filosofico e, nel Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), fa pronunciare alla Natura – in questo poemetto davvero personificazione dell’uncanny, del perturbante – parole spietate:
“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei” (Leopardi, 2014).
L’intuizione originale di Fisher è che l’eerie, l’inquietante, che trova la sua perfetta espressione nelle opere di Howard P. Lovecraft, rappresenti la sostanziale incapacità dell’Uomo contemporaneo di rapportarsi all’alterità. Animali, vegetali, cose inanimate sembrano costantemente sul punto di assumere un’intenzionalità malvagia, un’agency che normalmente non avrebbero, o per meglio dire che noi non riteniamo essi possiedano. Proiettando su di esse le nostre inquietudini, le rendiamo espressioni dell’orrore soprannaturale, ossia espressione di un possibile mondo-senza-di-noi che si anima e ci minaccia.
L’eerie, dunque, “riguarda le forze che governano le nostre esistenze e il mondo” (Fisher, 2018). Dopo la “morte di Dio”, incapaci di assumere il controllo del nostro destino e accettare l’idea inquietante che l’universo ci sia sostanzialmente indifferente, torniamo a una sorta di nuovo animismo, questa volta ostile. L’orrore soprannaturale sarebbe dunque la risposta allo “scandalo metafisico” del capitalismo, che vorrebbe un mondo retto esclusivamente da forze anonime e impersonali. La sua pervasività ha reso le nostre coscienze incapaci di affrontare l’idea di forze che agiscono in modo opposto alla nostra volontà, al punto da trasformarle in entità mostruose. L’Antropocene si sostanzia dunque, in primo luogo, con l’incomprensibilità del mondo-in-sé.
La religione come risignificazione del mondo
Partendo dall’assunto che l’inconoscibilità del mondo non può mai essere il punto d’arrivo di una ricerca filosofica, ma solo il punto d’inizio, la domanda da porci è quindi quale nuova filosofia possiamo immaginare per l’Antropocene. Abbiamo cioè bisogno di un nuovo modo di “pensare” il vecchio, mai risolto rapporto tra Natura e Cultura, prima di qualsiasi tentativo di elaborazione di una via d’uscita del vicolo cieco in cui ci stiamo infilando. Prima dell’avvento del metodo scientifico, il miglior modo di spiegare il mondo è stato attraverso la religione. Con l’avvento della postmodernità e del suo caratteristico nichilismo, la scienza ha iniziato a perdere terreno a vantaggio di forme di reincanto del mondo.
La scienza, d’altro canto, ci ha abbandonati al nostro destino, esemplificato dall’explicit del classico di Jacques Monod Il caso e la necessità (1970): “L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo” (Monod, 2017). Che è di fondo la ragione dell’orrore soprannaturale e del definitivo divorzio tra Uomo e Natura. La religione, viceversa, ha cercato a lungo di tenere uniti i due termini dell’equazione, grazie al concetto di “creazione”: l’Uomo e la Natura sono entrambi “creati” da una volontà superiore, quindi sono espressione di un identico progetto.
Questo, perlomeno, nelle principali religioni rivelate del mondo moderno. Secondo il filosofo Vittorio Hösle, possiamo infatti distinguere cinque diverse stagioni della storia della progressiva separazione della natura dalla soggettività: nella prima, quella delle civiltà arcaiche, la natura era identificata con la divinità, da assecondare e venerare per tenerla a bada; nella seconda, quella delle prime civiltà basate sull’agricoltura, inizia un percorso di emancipazione che porta, con la civiltà greca, a instaurare un rapporto razionale con le divinità naturali, prima personificate e poi sublimate nel Dio socratico/platonico/aristotelico. È la premessa della quarta stagione, quella inaugurata con il cristianesimo e il concetto di creazione divina, in cui l’Uomo assume un ruolo-guida di dominio e al tempo stesso di preservazione del creato. La quinta stagione è caratterizzata dalla progressiva emancipazione dalla religione attraverso la rivoluzione scientifica e l’avvento di una visione materialista del mondo (cfr. Hösle, 1997).
Secondo la celebre tesi accusatoria dello storico Lynn White pubblicata su Science nel 1967 con il titolo The Historical Roots of Our Ecological Crisis (Le radici storiche della nostra crisi ecologica), il cristianesimo sarebbe alla base della moderna concezione antropocentrica della natura, in cui l’Uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio (a differenza, quindi, di tutti gli altri esseri viventi), assume un diritto sul resto della natura. Non solo: essendo la teologia naturale – basata sulla concezione secondo cui lo studio della natura, in quanto creazione divina, permetterebbe di meglio comprendere Dio – all’origine della scienza moderna, si può concludere che la scienza stessa sia una derivazione del dualismo Uomo-Natura nato con il cristianesimo (cfr. White, 1967).
In effetti, questo dualismo non si riscontra nelle religioni animiste (considerate “primitive”), per esempio in quelle amerindie. L’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro ha coniato il termine di prospettivismo amerindio per definire la concezione, diffusa nell’America indigena, “secondo cui ogni specie di esistenti vede sé stessa come umana (anatomicamente e culturalmente), poiché ciò che vede di sé stessa è la sua ‘anima’, un’immagine interna che è come l’ombra o l’eco dello stato umanoide o ancestrale di tutti gli esistenti” (Danowski e Viveiros de Castro, 2017). Dunque, un giaguaro che vede un altro giaguaro non lo considera allo stesso modo di come noi consideriamo un giaguaro, ma alla stregua di come noi consideriamo un nostro simile: un altro umano, vale a dire un altro essere identico a sé e intorno a cui ruotano i processi di significazione del mondo. Per il giaguaro, l’essere umano è un animale alla stregua della selvaggina comune. Da questa prospettiva, la differenza tra i diversi esseri viventi viene meno, dal momento che “tutto ciò che esiste nel cosmo vede sé stesso come umano; ma non vede le altre specie in quanto tali” (Danowski, Viveiros de Castro, 2017).
Anche l’olismo orientale va radicalmente controcorrente rispetto al dualismo cristiano. Nella visione taoista, che ha ispirato poi l’approccio ecologista di tutte le religioni e le filosofie orientali, non c’è distinzione tra Uomo e Natura, e il concetto di wu wei (“non-azione”) implica l’astensione da ogni azione che rischi di compromettere la relazione armoniosa tra umanità e mondo. Analogamente, la meditazione buddista è tesa a restaurare la relazione di interdipendenza tra l’essere umano e il mondo elementale, costituito cioè dagli elementi basilari (terra, acqua, fuoco, aria).
Il misticismo orientale ha fortemente influenzato la reazione occidentale al capitalismo negli anni Settanta e Ottanta, promuovendo la nascita del pensiero ecologista, che trae spunto proprio dall’olismo taoista (esemplificativo è il best-seller Gaia di James Lovelock, 1979). Paradossalmente, tuttavia, sembra essere stato del tutto ignorato nei suoi paesi d’origine: è un fatto che la formidabile crescita cinese sia avvenuta a tutto discapito dell’equilibrio naturale, con una serie di catastrofi ecologiche che hanno compromesso la qualità della vita di ampie fette della popolazione cinese e fatto di quel paese il principale responsabile dei cambiamenti climatici insieme agli Stati Uniti. Alla prima occasione, le élite orientali si sono liberate del pensiero ecologico tradizionale per abbracciare il modello di sviluppo del capitalismo occidentale: un segnale della fragilità delle religioni e delle filosofie orientali, incapaci di costruire un “pensiero forte” in grado di influenzare positivamente l’orientamento etico-politico, e non a caso maggiormente penetranti nel “pensiero debole” postmoderno dell’Occidente contemporaneo.
Un nuovo “cantico delle creature”
La principale novità nella riflessione religiosa sul rapporto Cultura-Natura è rappresentata oggi dalla riscoperta, in seno al cristianesimo, della “concezione rivoluzionaria” che della Natura ebbe Francesco d’Assisi. Questa espressione – concezione rivoluzionaria – è dello stesso Lynn White, il quale, chiudendo il suo articolo su Science, affermava di dubitare della possibilità di risolvere la crisi ecologica con “più scienza e più tecnologia”, essendo la visione tecno-scientifica del mondo legata al dualismo cristiano, e auspicava un recupero dello sforzo di Francesco d’Assisi di deporre l’Uomo dal trono assegnatogli dalla precedente concezione cristiana nel Creato e instaurare una democrazia tra tutti gli esseri viventi.
L’enciclica Laudato Si’ emanata da papa Francesco nel maggio 2015 è, da questo punto di vista, autenticamente rivoluzionaria nel riconfigurare una nuova missione della religione cristiana nell’Antropocene, improntata a quella che il pontefice definisce “ecologia integrale”.
Alla base c’è l’idea di una “solidarietà universale” tra tutti gli esseri viventi. Non si tratta, chiarisce Bergoglio, né di adottare una visione panteista, in cui Dio è presente in tutte le cose (“In ogni creatura abita il suo Spirito vivificante che ci chiama a una relazione con lui”, ma al tempo stesso “non dimentichiamo (…) che le cose di questo mondo non possiedono la pienezza di Dio”), né di ridimensionare il posto dell’Uomo nell’universo, in quanto immagine di Dio: ma di restaurare un rapporto compassionevole tra gli esseri umani come precondizione di un autentico “sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura” (Francesco, 2015). E per fare questo, bisogna abbandonare la concezione economistica del mondo, quella che, come ha osservato ancora Hösle, rappresenta la terza “grande narrazione” della Storia umana dopo quella della religione e della nazione (Hösle, 1997). Da qui l’idea dell’ecologia integrale, basata su una restaurata uguaglianza innanzitutto di tipo economico-sociale tra gli uomini, sostituendo al concetto di proprietà privata dei beni della Natura la nozione di “beni comuni”. Solo il superamento del modello capitalista, sembra suggerire il pontefice (!), può portare a un’autentica conversione ecologica dell’Uomo.
Bergoglio riconosce che una “presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della relazione dell’essere umano con il mondo”, portando al “sogno prometeico di dominio del mondo” che è alla base dell’Antropocene. L’interpretazione corretta sostituisce all’essere umano “signore dell’universo” la figura di “amministratore responsabile” (Francesco, 2015).
È una stoccata al postumanesimo, che, come vedremo successivamente, rappresenta la concezione positivista oggi dominante nell’immaginare il futuro umano.
In questa concezione – anticipiamolo – il superamento dell’Antropocene sta in un più Uomo (Humanity+ è infatti il nome del principale movimento transumanista), non meno Uomo. Superare il determinismo biologico è precondizione per un superamento della battaglia tra Natura e Cultura con la vittoria finale di quest’ultima. Per Bergoglio, invece, il parossismo antropocentrico insito nella cultura tecnocratica contemporanea rende l’essere umano sordo alle “grida della natura stessa”, incapace di comprendere che “tutto è connesso” (un esplicito richiamo alle concezioni olistiche), che si sostanzia nello sgretolamento della “stessa base della sua esistenza”, dal momento che la persona umana è inseparabile dal mondo in cui vive. Teniamolo a mente, perché ci tornerà utile in seguito.
- Nicola Carella, Robodoc, Il Tascabile, 2 aprile 2019.
- Dipesh Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, Critical Inquiry, vol. 35 n. 2, inverno 2009.
- Paul Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori, Milano, 2005.
- Mark Fisher, The weird and the eerie, Minimum Fax, Roma, 2018.
- Francesco, Laudato Si’. Lettera enciclica del Santo Padre sulla cura della casa comune, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2015.
- Donna Haraway, Staying with the Trouble, Duke University Press, Durham-Londra, 2016.
- Vittorio Hösle, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino, 1997.
- Alexander Koch, Chris Brierley, Mark M. Maslin, Simon L. Lewis, Earth system impacts of the European arrival and Great Dying in the Americas after 1492, Quaternary Science Reviews, vol. 207, marzo 2019.
- Elizabeth Kolbert, La sesta estinzione, BEAT, Milano, 2016.
- Giacomo Leopardi, Operette morali, Feltrinelli, Milano, 2014.
- Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, il Saggiatore, Milano, 2016.
- Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1972.
- Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 2017.
- Blaise Pascal, Pensieri, UTET, Torino, 2014.
- Jeff VanderMeer, Trilogia dell’Area X (Annientamento–Autorità–Accettazione), Einaudi, Torino, 2018.
- Lynn White jr., The Historical Roots of Our Ecological Crisis, Science, vol. 155 n. 3767, marzo 1967.