Benvenuti nel reale
Antropocene: fase due

Timothy Morton
Noi, esseri ecologici
Traduzione di Giancarlo Carlotti

Laterza, Bari, 2018
pp. 213, € 16,00

Timothy Morton
Iperoggetti
Traduzione di Vincenzo Santarcangelo

NOT, Roma, 2018b
pp. 280, € 20,00

Donna Haraway
Staying with the Trouble:
Making Kin in the Chthulucene
Duke University Press, Durham-Londra, 2016

pp. 312, $ 27,95

Timothy Morton
Noi, esseri ecologici
Traduzione di Giancarlo Carlotti

Laterza, Bari, 2018
pp. 213, € 16,00

Timothy Morton
Iperoggetti
Traduzione di Vincenzo Santarcangelo

NOT, Roma, 2018b
pp. 280, € 20,00

Donna Haraway
Staying with the Trouble:
Making Kin in the Chthulucene
Duke University Press, Durham-Londra, 2016

pp. 312, $ 27,95


Il fondatore del transumanesimo, Max More, pubblicò online, nel 1999, una celebre Lettera a Madre Natura. Con un tono più ironico e senza dubbio più diretto di quello usato da Giacomo Leopardi nel rivolgersi alla stessa interlocutrice un paio di secoli prima, More osserva che, pur avendoci la Natura fornito una serie di doni importanti (“il massimo controllo del pianeta”, “un’aspettativa di vita fra le più lunghe del regno animale”, “un cervello complesso”), al tempo stesso essa si è dimostrata avara su numerosi aspetti:

“Ci hai creati vulnerabili alle malattie e alle ferite. Ci hai obbligati a invecchiare e a morire – proprio quando cominciamo a diventare saggi. Sei stata un po’ avara nel darci consapevolezza dei nostri processi somatici, cognitivi ed emotivi. Sei stata poco generosa con noi, donando sensi più raffinati ad altri animali. Possiamo funzionare solo in certe specifiche condizioni ambientali. Ci hai dato una memoria limitata e scarso controllo sui nostri istinti tribali e xenofobici” (More, 1999).

Le accuse di More sono senz’altro giuste, ma d’altronde, a pensarci bene, cosa potrebbero dire gli altri animali, se potessero esprimere qualche critica a Madre Natura? Di sicuro, tra tutti, siamo stati i più fortunati, gli unici a essersi evoluti fino a raggiungere un’autocoscienza complessa e una capacità di modificare noi stessi e il resto della natura. Pensatori come Thomas Ligotti, così come numerosi filosofi del passato, hanno messo in dubbio il fatto che la nostra intelligenza sia un beneficio, dato che comporta, come effetto collaterale, una dose di preoccupazioni non indifferenti. Non è nemmeno da escludersi che molti animali possano considerare i nostri presunti “benefici” come “maledizioni”, qualora potessero spingersi a un simile livello di consapevolezza. Ma, secondo la visione del transumanesimo, che è poi la filosofia alla base dell’accelerazione tecnologica dei nostri tempi, il nostro compito dovrebbe essere quello di potenziare l’essere umano per affrancarlo dal suo determinismo biologico, attraverso la tecnologia.
Un’ipotesi che, di per sé, non pone particolari problemi: da sempre, l’essere umano ha impiegato la tecnologia per migliorare se stesso (pensiamo agli occhiali) e l’intera storia umana è stata caratterizzata dal nobile sforzo di miglioramento (enhancement) del sé. Il problema si pone quando, per riprendere il nostro discorso sul rapporto tra Uomo e Natura nell’Antropocene, questo sforzo si svolge in un mondo in cui la logica non è quella win-win, ma in cui, a ogni fetta di torta più grossa che l’essere umano si riserva, al resto della biosfera non restano che le briciole.

Accelerazionismo e collasso ecologico
Per “postumano” possiamo intendere una versione potenziata dell’essere umano sottratta al determinismo biologico, ma anche una futura epoca in cui questo obiettivo sarà realizzato. Possiamo distinguere tra una visione postumana di destra e di sinistra. La prima è quella veicolata dal soluzionismo tecnologico e dalle tecno-utopie della Silicon Valley, il cui obiettivo è vincere la morte (o posporla il più possibile) e “meccanizzare” l’Uomo per renderlo compatibile con l’imminente avvento della “singolarità tecnologica”, un momento nel prossimo futuro in cui la tecnologia assumerà il controllo sul mondo attraverso l’intelligenza artificiale – finalmente diventata autocosciente e superiore a quella umana – e gli esseri umani “normali” saranno destinati all’estinzione. Questo scenario, in cui il postumano è di fatto l’Übermensch nicciano, reifica la tendenza crescente delle diseguaglianze sociali a cui assistiamo ormai da decenni (cfr. Piketty, 2018), prevedendo una società in cui una minoranza elitaria avrà raggiunto lo stato postumano sancendo il suo predominio sulla maggioranza “normale” (cfr. O’Connell, 2018).

La visione di sinistra si estrinseca nella filosofia dell’accelerazionismo, che propone un’accentuazione delle contraddizioni del capitalismo nell’attuale fase di sostituzione tecnologica del lavoro, per approdare a un’epoca post-capitalistica di “fine del lavoro”, e nella teoria cyborg di Donna Haraway. L’accelerazionismo, tra le più importanti filosofie politiche contemporanee dichiaratamente di sinistra, pur nella sua marginalità, si oppone all’idea, bollata con lo spregiativo termine di folk politics, secondo cui, per risolvere i grandi problemi del nostro tempo, dovremmo “rallentare”, promuovere “il primato del locale come orizzonte dell’agire politico” ed enfatizzare le “virtù del locale rispetto al globale, dell’immediato rispetto al mediato e del semplice rispetto al complesso”.
Applicato ai temi dell’Antropocene, questo pensiero – secondo i teorici Alex Williams e Nick Srnicek – finirebbe infatti per “ridurre questioni ambientali complesse a problemi di etica individuale, essenzialmente privatizzando una delle crisi più urgenti dei nostri tempi” (Srnicek e Williams, 2018). Essi sostengono invece che la sinistra debba riappropriarsi dei concetti di “modernità” e di “progresso”, per non lasciarli al campo del neoliberismo: piuttosto che nel luddismo, la soluzione risiede proprio nell’accentuazione del tasso di accelerazione tecnologica, che avrà come risultato, secondo la teoria, la piena automazione, ossia l’avvento di una società post-lavoro che, inevitabilmente, farà crollare su se stessa l’impalcatura del capitalismo, a favore di una società più equa dove non ci sarà più posto per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

La teoria, naturalmente, non è esente da critiche. Per quel che qui ci interessa, la principale è quella avanzata dalla filosofa Déborah Danowski e dall’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, che accusano l’accelerazionismo di essere accecato dalla polemica contro il “primitivismo” al punto da non rendersi conto che, accentuando le contraddizioni del turbocapitalismo, l’esito inevitabile sarà quello del collasso ecologico:

“L’accelerazione «intenzionale» della macchina capitalista, posta come soluzione alla nostra attuale miseria antropologica, si trova in contraddizione oggettiva con un’altra accelerazione per niente intenzionale: l’implacabile processo di retroazione positiva delle trasformazioni ambientali deleterie per l’Umwelt della specie. Ci sono forti ragioni insomma, per temere che questo genere di postcapitalismo globalizzato non arriverà sufficientemente in tempo per impedire il “lento” collasso ecologico planetario” (Danowski, Viveiros de Castro, 2017).

Si tenga presente che “lento collasso ecologico” è una dizione che gli autori prendono dal libro di Srnicek e Williams in modo polemico, dal momento che tale collasso non è affatto lento come questi due autori sembrano sostenere.

La teoria cyborg e la possibilità di hackerare la natura
Per la filosofa americana femminista Donna Haraway, la condizione postumana ha il vantaggio di rompere definitivamente l’equazione sesso/genere, svincolando i corpi dal determinismo biologico e consentendo così di svelare i meccanismi prettamente culturali che hanno portato alla costruzione di fittizie differenze di genere su cui strutturare la dominazione delle donne per tutta la storia della civiltà umana.
L’invenzione e la reinvenzione della natura costituiscono, per Haraway, “la principale arena di speranza, oppressione e contestazione per gli abitanti del pianeta Terra ai nostri tempi”, dal momento che il controllo della natura da parte dei gruppi culturali dominanti produce il sistema di “divisione gerarchica del lavoro, dove le diseguaglianze di razza, sesso e classe vengono naturalizzate in sistemi funzionanti di sfruttamento” (Haraway, 1991). Alla base di questo sistema, Haraway individua la separazione tra Natura e Cultura da parte dell’ideologia liberale tradizionale delle scienze sociali del Novecento, a cui oppone una nuova ideologia “antinaturale”, che prevede, similmente a quanto scritto da Max More, “che la ‘natura’ è nostra nemica e che dobbiamo prendere il controllo dei nostri corpi ‘naturali’ (con le tecniche forniteci dalla scienza biomedica) a tutti i costi” (Haraway, 1991).

La figura che meglio incarna questo obiettivo è il cyborg, al centro del celebre Manifesto Cyborg (1991). Per Donna Haraway, infatti, il formidabile sviluppo tecnologico, esemplificato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dal successo della fantascienza cyberpunk e dall’idea di una ibridazione tra essere umano e macchina che fungerà poi da substrato ideologico del transumanesimo (si pensi a film come Tron e Edward mani di forbice, nonché il classico Neuromante di William Gibson), ha reso “totalmente ambigua la differenza tra naturale e artificiale, mente e corpo, autosviluppo e progettazione esterna nonché molte altre distinzioni che si applicavano a organismi e macchine” (Haraway, 2018). Liberando, grazie alla biomedicina, il corpo femminile dalle sue peculiarità biologiche, in particolare dall’esclusività della riproduzione, sarà quindi possibile ottenere una sua autentica emancipazione. Non a caso, Haraway conclude che, laddove gli organismi biologici “e la politica organismica, olistica, dipendono dalle metafore di rinascita e invariabilmente attingono alle risorse del sesso riproduttivo”, viceversa i cyborg “hanno più a che fare con la rigenerazione e guardano con sospetto alla matrice riproduttiva e alla nascita in genere” (Haraway, 2018). Qui sono evidenti gli echi di quelle teorie estremiste secondo cui l’unica soluzione alla sesta estinzione di massa consiste nell’estinzione volontaria dell’essere umano. Intorno a questa ideologia sono nate anche organizzazioni pittoresche come il VHEMT, acronimo di Voluntary Human Extinction MovemenT (“Movimento per l’estinzione umana volontaria”), secondo cui basterebbe che l’umanità cessasse di riprodursi per salvare il pianeta.

Su questi concetti, Haraway torna successivamente con il concetto di kin, ma prima di affrontarlo è utile soffermarsi su due questioni. La prima è che nella biosfera anche l’essere umano ha un suo ruolo determinante, per cui la sua estinzione comprometterebbe l’esistenza di molte specie viventi: dunque, se si vuole preservare l’equilibrio della Terra, bisogna rinunciare a facili e scorrette metafore che vedono nella specie umana un virus che ha infettato il pianeta, semplicistiche perché rinunciano a cercare un modo di conciliare la nostra esistenza con la tutela della biosfera.
La seconda questione, più problematica ma anche più importante, consiste nel nesso stretto tra visione postumana (di destra o di sinistra) e Antropocene. Non importa se a sostenere queste visioni sia il turbocapitalista Peter Thiel o l’ecofemminista Donna Haraway: nel momento in cui si accetta la possibilità di intervenire sul corpo biologico per modificarlo, si accetta di conseguenza la possibilità di trasformare tecnologicamente anche l’ecosistema terrestre. Vale a dire che il biohacking, ossia l’intervento tecnologico per il potenziamento umano, è precondizione intellettuale per accettare l’ecohacking, ossia l’insieme delle soluzioni geoingegneristiche il cui obiettivo è adattare la biosfera a una crescita illimitata della civiltà umana, accettandone anche le precondizioni in termini di politica economica.
La geoingegneria, soluzione par excellence del soluzionismo tecnologico della Silicon Valley, non intende contrastare, ma accettare felicemente l’Antropocene in quanto epoca in cui la tecnologia diventa capace di modellare il pianeta a nostra immagine e somiglianza, realizzando il sogno dell’Homo Deus (cfr. Paura, 2018).

Vivere nello Chthulucene
Probabilmente Haraway ha intuito questo problema, perché nelle sue pubblicazioni più recenti, raccolte nel volume Staying with the Trouble (2016), prende le distanze da alcune sue precedenti posizioni, arrivando in particolare a sostenere che “noi siamo humus, non Homo, non anthropos; siamo compost, non postumani”. Con una radicale inversione rispetto al sogno postumano, Haraway conia il concetto di Chthulucene, che strizza l’occhio alle visioni di H.P. Lovecraft ma che in realtà enfatizza il ruolo determinante della biologia ctònia, che abita cioè sottoterra, nell’humus: radicalmente “altro” rispetto all’essere umano, con il suo sguardo proiettato verso le stelle, il mondo ctònio vive nel buio umido del ventre terrestre e interagisce per sostenere la vita. Analogamente, Haraway suggerisce che nell’epoca dell’Antropocene dovremmo imparare a tornare a quei livelli basilari di esistenza per acquisire le capacità di vivere nel mondo.

Per farlo, dobbiamo abbracciare il concetto di kin, di parentela, anziché l’ossessione tutta umana per la riproduzione: non quindi continuare a considerare un valore in sé la nostra egoistica riproduzione, ma comprendere il valore della costruzione di reti e interazioni che ci uniscano agli altri elementi della biosfera. Laddove l’ipotesi Gaia di Lovelock è, secondo Haraway, autopoietica, cioè si basa sull’idea che Gaia sia un organismo emerso in modo autonomo e indipendente dalle parti che lo compongono, di cui non si cura, bisognerebbe invece adottare una visione simpoietica, dove cioè l’equilibrio nella rete della vita emerge grazie alla collaborazione sinergica tra le sue diverse parti, come per esempio sembra essere accaduto, secondo la celebre teoria dell’endosimbiosi di Lynn Margulis, all’origine della vita, quando alcuni batteri, entrati in simbiosi con organismi monocellulari, divennero rispettivamente cloroplasti e mitocondri, gli organelli che oggi risiedono nel citoplasma. Con questa nuova visione, filosofica, Haraway cessa dunque di porre l’essere umano al centro dell’universo, ma riconosce che “gli esseri umani sono con e della Terra”, così facendo rinunciando all’ambizione postumana di una trasformazione tecnologica dell’Uomo indifferente al destino della biosfera.
Pur criticando a un tempo sia il soluzionismo tecnologico che l’atteggiamento rinunciatario del cinismo contemporaneo nei confronti dell’Antropocene, tuttavia, Haraway resta bloccata in una filosofia teoreticamente originale, ma incapace di avanzare soluzioni, tant’è che il titolo della sua raccolta, Staying with the Trouble suggerisce appunto di “convivere con il problema”.

Il nuovo realismo e l’ontologia orientata agli oggetti
Secondo Quentin Meillassoux, principale figura della corrente nota come “nuovo realismo”, il vizio antropocentrico è legato a ciò che egli definisce correlazionismo, che poi non è che un altro nome più sofisticato per definire il vecchio idealismo, cioè la concezione filosofica secondo cui il pensiero è l’unico strumento per accedere alla realtà, o – per usare una terminologia più sofisticata – l’essere è riconducibile al solo pensiero (cfr. Meillassoux, 2012). Come la si voglia definire, il risultato di questa concezione è il rifiuto dell’idea di una realtà esterna indipendente dal soggetto: non perché, cadendo nel solipsismo, siamo davvero convinti che tutto ciò che esiste è creazione del pensiero; ma perché solo ciò che è pensabile ed esperibile dal soggetto ha un senso, tutto il resto è irrilevante ed è come se non esistesse.

La “rivoluzione copernicana” di Immanuel Kant consisteva appunto in questo, nel subordinare la natura (l’oggetto) al pensiero (il soggetto). Il nuovo realismo sostiene invece che esista una realtà oggettiva e che il soggetto non sia altro che un oggetto come tanti. Per questo motivo, una branca molto alla moda del nuovo realismo (o anticorrelazionismo) si definisce object-oriented ontology, ontologia orientata agli oggetti (OOO).
L’idea di fondo è molto semplice: esistono solo gli oggetti, dove per oggetti intendiamo qualsiasi cosa, un libro, un albero, un cane, un essere umano, un drago verde, la Terra, la biosfera, l’Unione europea. L’OOO – afferma il suo principale teorico, Graham Harman – rifiuta sia il riduzionismo, l’idea cioè che tutte le cose siano in realtà composte di elementi basilari, come gli atomi, sia il relazionismo, secondo cui le cose esistono solo in relazione ad altre cose o in relazione ai soggetti che le percepiscono.

Questa filosofia, che prende le mosse dalla fenomenologia di Edmund Husserl e dalla teoria degli oggetti di Martin Heidegger, sostiene che gli oggetti possiedano una componente sensuale, che è cioè esperibile dai nostri sensi, e un’essenza che invece si sottrae alla nostra analisi.
Il possesso di un’essenza intima da parte di ogni oggetto fa sì che ciascuno di essi abbia una sorta di “coscienza”, benché la teoria rifugga da considerazioni panteistiche. Non si tratta, cioè, di conferire a ogni oggetto una componente umana, ma a ogni oggetto (sia animato che inanimato) una capacità comune, vale a dire la prensione, la capacità di percepire l’esistenza di altri oggetti: “Invece di mettere l’anima nella sabbia e nelle pietre, troviamo qualcosa di sabbioso e pietroso nell’anima umana” (Harman, 2011). Non esistono, quindi, relazioni privilegiate tra l’Uomo e la Natura, dal momento che il rumore di un albero che cade nel bosco ha uno statuto ontologico immutato a prescindere dalla presenza o meno di esseri senzienti in grado di avvertirlo.

Ecologia senza Natura?
Timothy Morton è senza dubbio il nome più noto della corrente dell’ontologia orientata agli oggetti, complice la sua filosofia “pop” e la fortunata applicazione degli strumenti della OOO a tematiche attuali come, appunto, l’Antropocene.
Nel suo libro Noi, esseri ecologici (2018), Morton se la prende con la tradizionale retorica sul riscaldamento globale, un diluvio di fatti (o, meglio, di fattoidi), che nulla ci dicono sul vero stato delle cose, allontanandoci ulteriormente dalla comprensione del cambiamento in corso. I dati delle cose, infatti, sono molto diversi dalle cose in sé, secondo la OOO, per cui lo studio scientifico del clima e della biosfera non ci darà altro che una visione parziale del problema.

Un martello, infatti, non è lo stesso oggetto per chi deve piantare un chiodo e per una mosca che vuole poggiarsi su qualcosa: a maggior ragione, poiché l’Antropocene è un problema che riguarda tutte le cose, dobbiamo definirlo un “iperoggetto”, la cui comprensione è destinata a sfuggire il nostro modo parziale di analizzare i dati. Dobbiamo accettare quindi l’esistenza di molteplici punti di vista da parte degli oggetti (cose, animali, vegetali, persone) che compongono il mondo, così come di molteplici scale temporali: le ere geologiche, per esempio, hanno senso per oggetti come le montagne, non per gli esseri umani; la scala cosmologica ha senso per un buco nero, non per una pianta. “La biosfera è una rete di rapporti tra esseri quali onde, coralli, idee sui coralli e petroliere che perdono greggio, una rete che è di buon diritto un’entità”, spiega Morton (2018a). Per questo, analogamente a quanto suggerito anche da Donna Haraway, dobbiamo sforzarci di costruire relazioni con tutti questi oggetti.

“Essere contrari all’antropocentrismo non significa che detestiamo l’umanità e vogliamo estinguerci. Significa capire come noi umani siamo inseriti nella biosfera in quanto esseri tra gli altri” (Morton, 2018a).

La cosa non è comunque tanto semplice. Innanzitutto, se la proposta mortoniana di una “ecologia senza Natura” mette tutti gli oggetti sullo stesso piano, dovremmo abdicare a ogni speranza di progresso o perlomeno di dialettica nella storia umana, dal momento che ogni nostra azione è destinata a danneggiare altri oggetti, per cui l’unico modo per salvaguardare gli oggetti del mondo sarebbe quello di non fare niente. Secondo Morton, l’errore sta nel considerare l’idea che ciascun oggetto abbia un suo mondo. Non esiste un mondo umano, un mondo animale, un mondo vegetale e così via. Esiste solo l’intimità tra gli oggetti, concetto che ci consente di “stringere nuove alleanze tra umani e non-umani” (Morton, 2018b).
In secondo luogo, se è vero che, come sostengono Hartman e Morton, nuovi oggetti (e iperoggetti) nascono di continuo dall’interazione reciproca o dalla riconfigurazione delle parti che li compongono, per cui “Gaia rimpiazzerà gli esseri umani con un componente meno difettoso” (Morton, 2018b), cosa ci impedisce di fare lo stesso anche noi? Di rimpiazzare, cioè, parti di Gaia con oggetti meno difettosi? Se non esiste una gerarchia data da criteri come la naturalità o il fatto di precedere l’esistenza dell’Uomo sulla Terra, perché dovremmo considerare l’iperoggetto “mare pieno di plastica e greggio” problematico rispetto al “mare senza plastica o greggio”?

Risolvere le aporie dell’Antropocene
Nell’Antropocene, il principio responsabilità elaborato dal filosofo tedesco Hans Jonas deve necessariamente estendersi “anche alla condizione della biosfera e alla sopravvivenza futura della specie umana” (Jonas, 2009). Ma, sebbene ne siamo consapevoli fin da almeno gli anni Settanta (decennio in cui uscì il libro di Jonas, ma in cui fu sviluppata anche l’ecologia moderna), agli allarmi e alle mobilitazioni crescenti per una politica in grado di affrontare con determinazione il problema dei cambiamenti climatici e delle trasformazioni antropiche irreversibili della biosfera, non fanno seguito fatti concreti.
Una nuova concezione del rapporto tra Uomo e Natura potrebbe aiutarci in questo senso, a patto di non assolutizzare nessuno dei due termini (Morton ci invita ad abbandonare il concetto di Natura) ma nemmeno di ritenerli superati in ragione di una loro “fusione”, che nei fatti non sembra essere possibile. Questa è la prima, importante aporia dell’Antropocene che ci portiamo dietro da secoli e non siamo ancora in grado di risolvere.

La seconda, più recente, riguarda il rapporto tra sostenibilità e progresso. Non possiamo, infatti, immaginare una nuova filosofia per l’Antropocene che rinunci all’idea utopica, ma prettamente umana, di un miglioramento continuo nel nostro cammino storico-evolutivo.
Senz’altro si può e si deve rinunciare all’idea di un progresso inteso solo in chiave tecno-scientifica, all’idea di un’accumulazione esponenziale del capitale attraverso lo sfruttamento delle risorse della Terra, alla crescita lineare. Ma una qualsiasi concezione basata su sistemi circolari chiusi, che neghi la possibilità dello sviluppo umano, è destinata a fallire.
Non è solo il capitalismo il problema: è che la natura umana ci impone di immaginare un futuro di progresso e miglioramento costanti, dove invece l’arresto implica la stasi e quindi la morte della civiltà. Trovare il modo di conciliare questa necessità naturale con l’obiettivo di una convivenza sostenibile con la biosfera terrestre è diventato compito urgente, ora che l’umanità si affaccia sull’universo con l’ambizione di un’espansione che finora, nelle retoriche dei programmi spaziali (pubblici e privati), conserva l’antica concezione coloniale di mero sfruttamento delle risorse celesti.
È una fortuna, da questo punto di vista, che gli spazi tra pianeti e sistemi stellari siano così enormi: perché altrimenti avremmo colonizzato molto precocemente altri mondi, distruggendo gli ecosistemi autoctoni prima di riuscire a trovare un modo di preservare il nostro. Consideriamola una prova che un ipotetico “Creatore” ci ha imposto: prima di poter diventare una specie multiplanetaria, dobbiamo riuscire a diventare una specie ecologica.

Letture
  • Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire?, Nottetempo, Milano, 2017.
  • Donna Haraway, Animal Sociology and a Natural Economy of the Body Politc: A Political Physiology of Dominance, in Id., Simians, Cyborgs, and Women, Routledge, New York, 1991.
  • Donna Haraway, Manifesto cyborg, Feltrinelli, Milano, 2018.
  • Graham Harman, The Quadruple Object, Zero Books, Alresford, Hants, 2011.
  • Hans Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino, 2009.
  • Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, Mimesis, Milano, 2012.
  • Max More, Lettera a madre natura, 1999, Estropico.com.
  • Mark O’Connell, Essere una macchina, Adelphi, Milano, 2018.
  • Roberto Paura, Biohacking o ecohacking? Adattamento al cambiamento climatico e soluzionismo tecnologico, in Roberto Paura, Francesco Verso (a cura di), Antropocene. L’umanità come forza geologica, Future Fiction/Italian Institute for the Future, Roma, 2018.
  • Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018.
  • Nick Srnicek, Alex Williams, Inventare il future, NOT, Roma, 2018.