Tornare ad amare
senza bruciarsi le dita

bell hooks
Tutto sull’amore
Nuove visioni
Traduzione di Lucia Cornalba

a cura di Maria Nadotti
Il Saggiatore, Milano, 2022
pp. 224, € 19,00

bell hooks
Tutto sull’amore
Nuove visioni
Traduzione di Lucia Cornalba

a cura di Maria Nadotti
Il Saggiatore, Milano, 2022
pp. 224, € 19,00


La luce frontale, forte fortissima, le voci intorno a noi, troppe, la nudità, da allora e per sempre, un urlo di spavento, che solo una voce saprà rasserenare, la prima voce a pronunciare l’amore, quella di una madre. Tutto comincia così e poi ci resta la vita, impiegata per intero a segnare i millimetri di amore mancato e ricevuto, impiegata a cercare chi disarmi per noi il mondo intero, impiegata a capire come un abbraccio possa diventare lama e lasciare la sua traccia agli angoli del viso. Ci resta l’ostinazione di chiederci se il sentimento di turno sia davvero amore e la bellezza di far stare al mondo innanzitutto quello per noi stessi. Nel mezzo, resistono i tanti tentativi di coprire lo sguardo alle verità inopportune, le semplificazioni senza sbavature, le stagioni fredde, le soglie sbarrate, le scuse per sostare dove promesse e ripromesse ci respingono. Nel mezzo, resiste chi ha amato troppo e troppo male.
L’argomento è di quelli più sentiti e, per questo, più difficili da attraversare con le sole parole, d’altra parte qualcuno crede valga la pena tentare. Lo ha fatto bell hooks una ventina di anni fa con il suo Tutto sull’amore. Nuove visioni, con la curatela italiana di Maria Nadotti, ripubblicato da poco da Il Saggiatore. Un manuale che arriva da un affetto insicuro, quello che spesso in famiglia perde la mappa, semina errori, scivola via, torna, poi si inabissa daccapo, rendendo breve il tempo di contare qualcosa senza essere sminuiti.

bell hooks nasce in una famiglia a schema profondamente patriarcale in un villaggio rurale del Kentucky, soffocata dall’apartheid e dal divieto di porre domande, con un padre violento e autoritario, una madre deferente per costrizione più che per vocazione, una nonna pronta a insegnarle “come guardare il mondo e vedere il bello” (hooks, 2020). In questo margine soffia l’impeto che porterà la scrittrice afroamericana a spendersi una vita intera per i diritti di tutti, specie per quello fondante, il diritto all’amore in ogni sua fattura. Il saggio parte con una storia all’indietro, in quella casa dove d’un tratto si impara la sensazione dell’abbandono, improvvisa e senza ragione di sorta.

“Non capivo in cosa avevo sbagliato, Tentai varie strade, ma nessuna sembrava funzionare. Non avevo nessun altro legame che potesse lenire la sofferenza di quella prima esperienza di abbandono, di espulsione dal paradiso dell’amore. […] Non si può tornare indietro. Adesso lo so. Si può solo andare avanti. Possiamo trovare l’amore a cui anela il nostro cuore, ma non prima di aver smesso di soffrire per l’amore che abbiamo perduto molto tempo fa, quando eravamo piccoli e non avevamo voce per esprimere ciò cui il nostro cuore aspirava”.

In un giorno di quelli più feriti, tra i passi stanchi e il cuore sgranato da una relazione chiusa, un graffito sulla facciata di un palazzo promette qualcosa di inverso: “La ricerca dell’amore continua nonostante le difficoltà”. Un risveglio per chi comincia a credere che l’amore sia impossibile da trovarsi o, ancor peggio, sia solo da temere. Parte da qui la riflessione di bell hooks, da una scritta in vernice, sfacciata e ostinata nell’interrogare il suo dolore, in un’epoca, la nostra, in cui parlare d’amore sa quasi di ovvietà. Si è detto già tutto sull’amore, forse ma mai troppo, se continuiamo ad improvvisare nella convinzione che l’amore sia un atto istintivo e non un’arte da imparare. In più, gran parte dei testi sull’argomento è stata scritta da uomini. bell hooks, allora, ci riprova dal lato suo, scandendo le sue considerazioni secondo tappe che partano dal concetto di amore in famiglia fino ad arrivare alla comunità più ampia di cui siamo parte. In famiglia si impara l’amore. In famiglia si sbriciola l’amore. È lì che conosciamo l’amore maturo e l’amore immaturo. “L’amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L’amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo
(Fromm, 2016).

bell hooks riprende quanto le discipline psicologiche ci insegnano, vale a dire che i rapporti primari sono imprescindibili nel nostro approcciarci poi all’amore per tutta una vita. Ed è lì che passa la definizione sbagliata di amore, laddove uno dei genitori o entrambi, piuttosto che sulla cura, la fiducia, la responsabilità, l’impegno, il rispetto per noi, ripiegano sulla violenza fisica, verbale, psicologica, sull’autoritarismo, sulla trascuratezza emotiva, mentre stanno a credere e farci credere che anche quello sia un modo di amare. Così, perfino la famiglia disfunzionale si presenta come luogo della sacralità delle relazioni, dove ciascuno si adatta a forme deformi senza vederci alcunché di ossimorico. Senza vederci, ma non senza sentirci, perché poi il baricentro mancato in famiglia lo si cercherà altrove, ripetutamente, accanitamente, spietatamente fino a sfilacciarsi più e più volte, nel cieco tentativo di ricucire gli orli. Si cercherà nel bisogno dell’altro.

“Uno dei più importanti miti sociali che dobbiamo sfatare, se vogliamo diventare una società più amorevole, è quello che insegna ai genitori che abusi e abbandono posso coesistere con l’amore. Abusi e abbandono sono la negazione dell’amore”.

Eppure, noterà la hooks, non saranno quei colpi a farci male, quanto il nostro amore fuori portata verso chi quel dolore ce lo sta imponendo come necessario. Da allora in poi, l’amore sarà tutto così, immaturo, una coazione a ripetere errori, un’ostinazione a riparare il danno. Danno verso il quale adotteremo tutta l’indulgenza di questo mondo, negandocelo, riducendolo, reprimendolo. Eppure resisterà a manifestarsi in modi diversi. Negli uomini, nella caccia al potere in famiglia e in società, al prestigio, alla ricchezza, all’affermazione personale. Nelle donne, a chiedere amore a persone altrettanto distratte, insensibili, aggressive quanto i propri genitori, perché si ripeta uno schema conosciuto, quello in cui sanno muoversi con agilità, l’unico sperimentato. In entrambi, l’obiettivo è ricomporre il finale in un modo imprevisto: ricevere amore, una buona volta, controllare l’incontrollabile negli argini di una forma fissata a priori. In entrambi, si registra un’ingiustizia che sfugge spesso a qualsiasi controllo e tutela esterna.

“Altamente io ti ho amato: / io mi sono seppellita nel cielo”
(Cvetaeva, 2014).

Ci sembra bellissimo questo distico della Cvetaeva, perché bello lo è per davvero nel suo dialogo con un amore inaccessibile. Ciascuno di noi sorprende in quello struggimento altissimo un’appartenenza, una somiglianza, un esserci seppelliti almeno una volta a vita per qualcuno. E un verso così legittimerà, al pari della musica, del cinema, della pittura, delle arti tutte che hanno voluto raccontarci sempre l’amore infelice, l’idea che l’amore sia stare in pena, che sia per tutti e per sempre così. Viceversa, l’impegno della hooks in questo saggio sarà proprio proporci l’altra faccia dell’amare, quella che ci consegna una speranza sotto lo stesso cielo dove tante volte ci siamo sepolti, speranza che non nega il dolore, ma solo l’autocommiserazione. Pertanto, perché l’amore abbia un potere trasformativo, deve anzitutto essere riflessivo. Deve affrontare la nostra sofferenza emotiva e rivolgersi a noi stessi prima che ad altri. Per riuscirci, ha il dovere di riconoscere quel vuoto d’amore che orienta molti verso relazioni asimmetriche.

“Mettersi in contatto con il vuoto d’amore che c’è in noi e lasciare che dia voce a tutto il suo dolore è un modo per cominciare il viaggio alla ricerca dell’amore”.

L’onestà verso noi stessi è il primo passo nell’arte di amare, benché l’onestà sia luogo spinato. Fatichiamo, per snodi, ostacoli, mezzi successi e mezzi insuccessi, a custodire quel buco nel cuore. Siamo portati a raccontarci silenzi più che parole, perché, a dircele, certe parole ci suonano troppo amare. In fondo, siamo bravi, bravissimi a costruire intere vite con la faccia rinnovata, e poi dovremmo ripiegarci a vedere quello che nessuno sa, che con tutti i nostri sforzi abbiamo velato oltre ogni ragionevole dubbio? È invece proprio sull’onestà nei confronti di noi stessi che la hooks insiste, dalla posizione di chi ha superato le minacce del vuoto grazie alla psicoterapia e all’autoriflessione. Essere dominati dalla paura di non meritare amore, perché solo questo si apprende nelle famiglie disfunzionali, non fa altro che portarci dal lato sbagliato, quello del legame morboso, del controllo, del possesso, del delirio, dell’autodistruzione.
Nel suo famosissimo Donne che amano troppo, Robin Norwood non a caso ebbe a dire:

“La ricerca deve cominciare a casa, all’interno di sé. Nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stesse, perché quando nel nostro vuoto andiamo cercando l’amore, possiamo trovare solo altro vuoto” (Norwood, 2013).

Dal lato delle donne, la Norwood, da lato di chiunque, la hooks, il punto di partenza si conferma essere lo stesso: imparare a prendersi cura di sé, saper stare bene da soli, ritrovare nella solitudine la nostra autenticità, accettarla, prendersene cura. La hooks ci consegna così un’altra parola chiave nell’arte di amare, impegno. Solo allora, esperita la possibilità rivelatrice della solitudine, l’autonomia emotiva, appresa con impegno propositivo, può portarci all’esercizio dell’incontro con l’altro. L’amore è sempre comunitario.

“Ogni volta che riusciamo a guarire le ferite della famiglia, rafforziamo la comunità. Facendolo, ci impegniamo in una pratica d’amore. Quell’amore pone le basi per l’edificazione costruttiva di una comunità capace di accogliere gli estranei. L’amore che creiamo nelle comunità resta con noi ovunque andiamo. Guidati da questa consapevolezza, facciamo di ogni luogo in cui ci rechiamo un luogo dove torniamo ad amare”.

A sapersi amare per davvero, si è in grado di amare anche gli altri in maniera sana ed entrare in comunità con l’impegno di superare qualsiasi incomprensione, perché nel confronto ciascuno impara ad esistere e a resistere. Laddove tutto questo si è reso possibile, l’arte di amare segna il passaggio forse più significativo, quello di ammettere nelle proprie vite anche la perdita.

“Accettare la morte con amore significa accettare la realtà dell’imprevisto, di esperienze sulle quali non abbiamo alcun controllo. L’amore ci consente di arrenderci. Non siamo costretti a vivere perennemente nell’ansia e a preoccuparci se realizzeremo i nostri obiettivi o i nostri piani. […] Imparando ad amare, impariamo ad accettare i cambiamenti. Senza cambiamenti non possiamo crescere”.

Ecco cos’è questo manuale. Un titolo ambizioso, un tema che ci insegue in immagini, parole, musica da non poterne quasi più, una prospettiva a tratti visionaria. Ebbene, il senso si fa nostro solo a libro chiuso, quando ripensiamo che all’amare ci si arriva sempre un po’ per caso, sempre senza istruzioni, sempre al buio, e crediamo di essere dalla parte giusta anche laddove ci accorgiamo che invece è quella dove mai saremmo voluti essere. In questo libro non troveremo delle regole di facile applicazione sull’arte di amare, non ne è questa l’ambizione, quanto piuttosto l’ostinazione di dirci che, a sbagliare sempre, un motivo ci sarà. Che bisogna risalire alle origini per uscire dalla sospensione. Che bisogna perfino immaginare tanto, perché l’immaginazione è l’unico spazio della possibilità.

Letture
  • Marina Cvetaeva, Poesie, Feltrinelli, Milano, 2014.
  • Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano, 2016.
  • bell hooks-Maria Nadotti, Elogio del margine-Scrivere al buio, Tamu Edizioni, Napoli, 2020.
  • Robin Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, Milano, 2013.