Il margine, l’intimità
e altri versanti radicali



bell hooks, Maria Nadotti,
Elogio del margine – Scrivere al buio
Traduzione di Maria Nadottti

Tamu Edizioni, Napoli, 2020,
pp. 260, € 16,00

bell hooks, Maria Nadotti,
Elogio del margine – Scrivere al buio
Traduzione di Maria Nadottti

Tamu Edizioni, Napoli, 2020,
pp. 260, € 16,00


Nel 1998 in Italia uscirono, rispettivamente per Feltrinelli e La Tartaruga, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, una raccolta di saggi di bell hooks a cura di Maria Nadotti, e Scrivere al buio. Maria Nadotti intervista bell hooks. Riuniti ora in unico volume e corredati da un nuovo saggio introduttivo di Nadotti che li colloca efficacemente nel qui e ora, segnano letteralmente e simbolicamente l’esordio di Tamu – casa editrice nata dall’omonima libreria indipendente napoletana – che, come si legge nel suo manifesto, si propone di comprendere la società globale in una cornice femminista, antirazzista e anticoloniale. Patriarcato capitalista suprematista bianco: è questa la formula apparentemente astratta, ma in realtà profondamente radicata nell’esperienza, che bell hooks usa per nominare la società in cui vive. Quando Nadotti, intervistandola, la interroga sull’uso di “un sintagma tanto addensato ai limiti dell’implosione”, hooks risponde:

“Mi sembrava che usando quella frase così densa, in cui sono racchiusi tutti gli elementi in gioco, ciascuno avrebbe potuto pensare a quale posizione occupa rispetto al loro insieme. Ti faccio un esempio: se sono una donna bianca e ricca, la mia vita è diversa da quella della grande maggioranza delle donne, ma anche se sono una donna nera e ricca la mia vita è diversa da quella della maggioranza. Ero disperatamente alla ricerca di un modo per far vedere a tutti ciò che a me sembrava così ovvio: che le nostre vite sono determinate dall’intersecarsi di questi sistemi, che se si pensa in termini o di solo razzismo o di solo sessismo dal quadro alcuni aspetti non possono che risultare mancanti”.

La teoria è ormai nota, è quella dell’approccio intersezionale: razza, classe e sesso posizionano ciascuno nel mondo e non possono essere compresi separatamente. Osservare la realtà da questa prospettiva significa storicizzare le condizioni che hanno prodotto diseguaglianze strutturali e abbandonare l’idea che esse possano essere combattute giocando su un tavolo alla volta. Se in Italia questo approccio ha faticato a consolidarsi, qualcosa sembra muoversi e questa nuova edizione di Elogio al margine e Scrivere al buio è in buona compagnia. Di recente sono usciti infatti Donne, razza e classe di Angela Davis (2018) per Alegre e Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura di Colette Guillaumin (2020) per ombre corte. Non solo traduzioni e non solo saggistica segnano questo risveglio, ma anche opere narrative in cui lo sguardo intersezionale delle autrici si colloca nel contesto italiano. È il caso di titoli come Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Scego 2019), E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (Hakuzwimana Ripanti 2019) e Ladri di denti (Kan 2020).

Imparare a vedere
Lo sguardo di bell hooks è legato a doppio filo con la sua biografia. Come spiega a Nadotti nel corso dell’intervista, il suo osservatorio è stato quello di una famiglia nera caratterizzata da forti diseguaglianze di genere in un contesto di segregazione razziale. Lì però non ha visto solo oppressione:

“Questa è la storia di una casa. Ci hanno abitato in molti. È stata Baba, nostra nonna, a farne uno spazio in cui vivere. […] È lei che mi ha insegnato come guardare e vedere il bello. È lei che mi ha insegnato che «dobbiamo imparare a vedere»”.

Non esiste per hooks un sapere che non prenda le mosse dal vissuto e che a quel vissuto, politicamente, faccia ritorno. La casa della nonna, le relazioni con le sorelle, il rapporto non lineare ma estremamente importante con la madre, l’autoritarismo del padre, non sono aneddoti biografici riportati qua e là per alleggerire il ragionamento. Sono il fondamento del suo metodo conoscitivo. Per esempio, ciò che bell ha imparato a vedere è che la casa, per i neri che vivono in società segregate, è l’unico posto nel quale è possibile imparare a vivere, a tessere relazioni affettive, a “nutrire il nostro spirito”. I caratteri umani non possono essere espressi fuori dalla casa in una società che si è costruita sulla schiavitù e sull’oppressione razziale. Solo in casa è possibile resistere alla disumanizzazione, per questo è lì che si inizia a immaginare e poi a organizzare la lotta di liberazione. Una lotta che però si incrina quando la casa apre la porta all’immaginario sessista bianco e borghese, quando gli uomini dimenticano il significato politico con cui le donne si sono prese cura della costruzione di un senso di dimora e assimilano l’idea che la casa sia semplicemente il loro “luogo naturale”. L’intersezione tra razzismo e sessismo bell hooks la impara in primo luogo in casa.

Ne apprende una seconda sfumatura, in cui il ruolo della classe appare cruciale, all’università; non sui libri ma frequentando i gruppi di autocoscienza femministi. Lì scopre di non essere compresa in quel concetto troppo omogeneo di “donna” che dà per scontato che tutte possano avere un destino comune, nell’oppressione come nella liberazione. Ancora una volta è il suo sapere biografico a metterla in guardia. Come può condividere l’idea, tanto cara al femminismo bianco di classe media, che l’unica via di liberazione per le donne sia l’accesso al mondo del lavoro? Sa bene che non è così, sa che le donne nere lavorano incessantemente fuori e dentro casa, ma non sono libere. Fanno parte di una classe sociale in cui lavorare non è una scelta finalizzata all’emancipazione ma una necessità. Non solo: il lavoro è spesso luogo di oppressione e sfruttamento. Eppure queste donne resistono, nonostante la fatica. hooks non riconosce in loro la passività e la vittimizzazione di cui parlano le femministe bianche:

“Quanto alla mia famiglia, ricordo l’immensa angoscia che provavamo da bambini quando nostra madre lasciava la casa, la nostra comunità segregata, per andare a servizio nelle case dei bianchi. Credo sentisse la nostra paura, la nostra preoccupazione. […] Al suo rientro, dopo lunghe ore di lavoro, non si lamentava. Faceva di tutto per farci capire quanto fosse contenta di aver concluso la sua giornata di lavoro, di essere a casa; ma nello stesso tempo ci dimostrava che nella sua esperienza di lavoro come domestica al servizio di una famiglia bianca, in quello spazio di Alterità, non c’era nulla che le togliesse la sua dignità e il suo potere personale”.

La capacità di bell hooks di entrare nelle pieghe della vita vissuta, a partire dalla propria e da quelle delle donne con cui è cresciuta, incrina definitivamente la portata universalizzante delle analisi del femminismo americano degli anni Settanta. Per sua madre cosa avrebbe significato sentirsi dire che lavorare sarebbe stata la chiave della sua liberazione?

Lo spazio del teorizzare: il margine
Proprio perché ha imparato a vedere ciò che altri e altre non vedono, hooks elabora una teoria dello sguardo: la specifica posizione dalla quale le donne nere osservano la realtà sociale dà loro la possibilità di diventare delle spettatrici critiche. Ne è esempio un’esperienza quotidiana e diffusa come andare al cinema; per le donne nere, dice hooks, “l’incontro con lo schermo è una ferita”. L’impossibilità di identificarsi con le rappresentazioni dominanti apre però l’opportunità di sviluppare uno sguardo oppositivo; una possibilità, non una conseguenza automatica, perché mai bell hooks apre a una qualche forma di essenzialismo. Allora se il piacere di andare al cinema è un’esperienza negata, le spettatrici nere che sviluppano lo sguardo oppositivo provano piacere nell’interrogare e analizzare criticamente quanto appare sullo schermo. Lo sguardo oppositivo non è però il punto di arrivo. Non si esaurisce tutto nella reazione. C’è la creazione, la capacità di costruire rappresentazioni che escono del tutto dal sistema egemonico. Un passaggio che hooks esemplifica attraverso l’analisi di due film di Julie Dush: se nel corto Illusions, pur rimanendo entro alcune convenzioni si problematizza la questione della razza attraverso lo sguardo critico della protagonista, è in Daugther of the Dust che cambiano completamente i parametri della rappresentazione e le donne nere sono al centro della narrazione.  Questo spazio di creazione è, anche, lo spazio del teorizzare, attività che bell esercita dal margine.

Nel saggio conclusivo, intitolato appunto Elogio del margine, bell lo definisce come una posizione situata che, sì, è luogo di oppressione e di privazione ma è anche “un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza”. È una teoria dirompente perché spezza il nesso scontato tra marginalità e vittimizzazione, tra oppressione e rassegnazione. E d’altro canto non naturalizza questa relazione, perché nel margine, in quanto prospettiva teorica e visiva, può entrare anche chi non vi ha vissuto, a condizione di imparare a vedere:

“Costretti al silenzio. Temiamo chi parla di noi, chi non parla a noi e con noi. Sappiamo che cosa significa essere costretti al silenzio. Certo, sappiamo che le forze che ci hanno fatto tacere, poiché non hanno mai voluto farci parlare, sono ben diverse dalle voci che dicono: parla, raccontami la tua storia. Unica condizione: non parlare con la voce della resistenza. Parla soltanto da quello spazio al margine che è segno di privazione, ferita, desiderio insoddisfatto.
Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è luogo di creatività e di potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Incontriamoci lì. Entrate in quello spazio. Vi accoglieremo come liberatori”.

Quando la teoria non è solo teoria
Se ai margini di una società si nasce, quando poi si ha l’opportunità di spezzare alcuni vincoli di oppressione – l’autrice sa di avere infranto con la sua biografia quelli di classe – situarsi nel margine diventa una scelta. Nel corso del dialogo-intervista che bell hooks e Maria Nadotti intrattengono in Scrivere al buio la pratica del situarsi è un tema ricorrente; è ciò che fa sì che la teoria, specialmente quella femminista, non sia solo attività speculativa ma abbia una dimensione politica. Ne deriva una critica decisa ai processi di istituzionalizzazione dei movimenti femministi che, persa la loro dimensione collettiva, si sono trasformati spesso in realtà riformiste il cui scopo non è più quello di scardinare il sistema egemonico, ma di entrare a farne parte, mantenendo saldo il nuovo posizionamento acquisito al centro.
Spesso quando si parla di bell hooks si ricorda che il suo vero nome è Gloria Watkins e si spiega il senso del suo pseudonimo: Hooks era il cognome della bisnonna materna, Bell il secondo nome della madre. Il perché di questa scelta è la prima domanda che Maria Nadotti le rivolge: “Volevo soltanto dire che provenivo da quel continuum femminile”, spiega bell. Ma non si tratta solo di un omaggio alle proprie origini in chiave anti-patriarcale; c’è l’idea che le origini, punto di partenza del teorizzare, ne siano anche la meta. Non solo cioè hooks ha come fonte del proprio lavoro teorico il sapere (auto)biografico, ma non smette mai di chiedersi come la teoria femminista possa parlare ai problemi quotidiani delle donne concrete. Di sua sorella Angela, madre sola con un lavoro malpagato, adulta e non ancora indipendente dalla famiglia di origine; di un’amica che non sa come riprogettare la propria vita dopo un matrimonio concluso; di una madre costantemente umiliata dal marito di fronte ai figli.

A queste donne gran parte del pensiero femminista non sa più parlare, intrappolato in ragionamenti distanti dalla concretezza della quotidianità e in virtuosismi linguistici che puntano più allo stile che al contenuto, nel rispetto delle regole di accesso alla produzione del sapere accademico. Quando si muove nello spazio del teorizzare, situandosi nel margine, bell hooks fa teoria per le madri e le sorelle, per le amiche e le lavoratrici; per le donne con cui è cresciuta e con cui non ha mai reciso i legami, pur conscia delle differenze che via via si amplificavano tra di loro. Ma, dice a Nadotti:

“Ho optato per l’intimità. E c’è un solo modo per rimanere intimi: collegare ciò che io sto facendo qui, oggi in questa posizione, a ciò che sta succedendo là, in quell’altra posizione”.

Perché solo quando la teoria è con e per le persone e la loro vita quotidiana, e non su le persone, allora sì che è politica. Anche questo bell hooks ha saputo spiegarlo raccontandolo:

“Una volta, mentre stavo per tornare a un’università frequentata quasi esclusivamente da bianchi, mia madre mi disse: «Puoi prendere ciò che i bianchi hanno da offrirti, ma non devi amarli». Adesso, conoscendo i suoi codici culturali, so che non mi stava dicendo di non amare persone di altre razze. Parlava di colonizzazione e di cosa significa venire educati e istruiti in una cultura del dominio, per mano di chi quel dominio detiene. […] Pur non essendo mai stata all’università, mia madre sapeva che più di una volta mi sarebbe capitato di affrontare situazioni in cui sarei stata «messa alla prova», «testata». Sapeva che, per farmi accettare, sarei stata costretta a diventare parte di un sistema di scambio capace di garantire il mio successo, il mio «farcela». Mi stava ricordando che era necessario non smettere di opporsi e allo stesso tempo mi incoraggiava a non perdere quella prospettiva radicale costruita e modellata dalla marginalità”.

Letture
  • Angela Davis, Donne, razza e classe, Alegre, Roma, 2018.
  • Colette Guillaumin, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, ombre corte, Verona, 2020.
  • Djara Kan, Ladri di denti, People, Gallarate, 2020.
  • Espérance Hakuzwimana Ripanti, E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, People, Gallarate, 2019.
  • Igiaba Scego (a cura di), Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, effequ, Firenze, 2019.