L’opera oltre il possibile:
Sátántangó, l’eterno vagare

Suddiviso in dodici capitoli, per una durata complessiva di oltre sette ore e con quattro anni di lavoro alle spalle: Sátántangó è la più titanica opera di Béla Tarr. Uscito nel 1994 venne trasmesso per la prima in Italia da Rai 3 a Fuori Orario in lingua originale con sottotitoli in italiano nella notte del 6 gennaio 1996. È stato proiettato lo scorso 19 maggio a Napoli nell’ambito della rassegna integrale Senza fine. Il cinema di Béla Tarr.

Suddiviso in dodici capitoli, per una durata complessiva di oltre sette ore e con quattro anni di lavoro alle spalle: Sátántangó è la più titanica opera di Béla Tarr. Uscito nel 1994 venne trasmesso per la prima in Italia da Rai 3 a Fuori Orario in lingua originale con sottotitoli in italiano nella notte del 6 gennaio 1996. È stato proiettato lo scorso 19 maggio a Napoli nell’ambito della rassegna integrale Senza fine. Il cinema di Béla Tarr.


Un film fluviale, lungo oltre sette ore consistente in circa centocinquanta inquadrature, un ricorso unico nel suo genere al piano sequenza. Atono lamento di un’umanità alla deriva, Sátántangó (1994) impiega più di quattrocento minuti per sondare il tempo dell’abbandono. Camminare allora sembrerebbe l’unica chance per una redenzione, mentre l’oscurità avanza inesorabile. Un lavoro che ha del leggendario, rivisto nel corso della rassegna Senza fine. Il cinema di Béla Tarr (17 maggio – 2 giugno 2024), personale completa dedicata al grande regista ungherese.
Lo esploriamo in alcune delle sue valenze filosofiche concernenti il tempo, la circolarità, la vacuità e l’oscurità.

Abissi senza fondo

“Il tempo della vita umana è un bimbo che gioca muovendo i suoi pezzi:
a un bimbo appartiene il potere sovrano”
(Eraclito, 2019).

L’abisso è lo spazio della non-tangenza assoluta. Un profondo vuoto che vorticosamente s’incanala nelle bassezze della terra e che posto in adiacenza all’umano esistere, denuncia il suo esser formica rispetto all’albero, cuoio amorfo che occulta l’incavo della maschera.
Gli abissi sono anzitutto naturali. Si dice abissale, l’esser senza fondo degli oceani, patria al di sopra d’ogni approdabilità antropica sulle cui – solo immaginate – fondamenta, si stagliano esseri sconosciuti e inconoscibili, misterici come il nero assoluto.

Abissale è poi il pensiero del Tempo, consapevolezza dai tratti irretenti che sopraggiunse al tedesco Nietzsche quando innanzi ad un masso sul Lago di Silvaplana, rimase folgorato da una “rivelazione, nel senso di qualcosa che, subitaneamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza si fa visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nel più profondo” (Nietzsche, 1991). Sotto questo aspetto, occorre ragionare sullo statuto di questo farsi visibile della rivelazione per indagare il senso di un tale sommovimento epifanico nell’opera più caliginosa di Béla Tarr.
Nello Zarathustra, Nietzsche forgia poeticamente (dal greco ποιέω “creo”) il concetto di eterno ritorno nel celebre capitolo Della visione e dell’enigma in cui un nano prorompe:

“Tutto ciò che è diritto mente […] Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un cerchio”
(Nietzsche, 2017).

Ma, subito dopo, Zarathustra stesso invita il nano a non schiacciare un pensiero così abissale e ‘avviluppante’ su frasi e determinazioni troppo semplicistiche. L’eterno ritorno, al contrario d’ogni possibile appianamento speculativo, concerne la postura costitutiva attraverso cui si regge e mantiene l’incessante passare di tutte le cose. La complessità del pensiero nietzscheano affonda del resto le proprie radici nella profondità della fisica stoica, secondo cui il cosmo sarebbe retto da leggi universali e logiche (λόγος) che, stabilizzando la Natura, la rendono permanente.
Secondo gli stoici infatti, lo spazio e il tempo sarebbero inseriti in un ciclo eterno nel quale niente comincia e niente finisce. Ancora prima, secondo Eraclito il mondo si sarebbe originato da un fuoco artigiano (πὺρ τεχνικόν) che esplodendo in tutta la sua forza produttiva, si troverebbe secondo cicli determinati di tempo a distruggersi e rinascere da sé stesso. Per questo si è soliti parlare di Ecpiròsi o di Apocatastasi, intendendo con ciò l’intreccio di cause ed effetti incastonati nel cosmo, alla maniera di un aggregato di creature, pianeti, stelle, forze ed elementi che non avranno mai fine né inizio, entro il perimetro di un eterno ritorno che si ripete uguale a sé stesso. Qualsiasi avvenimento che è accaduto perciò, accadrà nuovamente. Pur attenendosi alla struttura e al congegno predisposti dall’antico stoicismo in merito all’ordine del tempo, Nietzsche – che nasce in primis come filologo – nel suo scritto più coraggioso, opera una vera e propria riformulazione in chiave attiva del problema dell’eterno ritorno. Rispetto al tempo come “meccanica universale” (Chiuchiù, in Nietzsche, 2017) che vorrebbe l’uomo spettatoresaggio, capace di accettare l’universo come sommatoria di forze finite, Nietzsche chiama in causa la dirimente questione della decisione. Sul finire del capitolo sopra citato, viene introdotta la figura del serpente che si morde la coda, simbolo alchemico associato alla figura cosmica dell’Ouroboros che Zarathustra vede insinuarsi viscidamente nella gola di un pastore dormiente. La scena è orrida. Il serpente

“gli era strisciato dentro la gola dove si era ancorato mordendo […] Ma il pastore morse, come gli consigliava il mio grido; diede un buon morso! Ben lontano sputò il capo del serpente, e saltò in piedi. Non più pastore, non più essere umano: un trasfigurato, un circonfuso di luce, che rideva! Sulla terra mai aveva riso essere umano come rise lui!”
(Nietzsche, 2017).

Mordere significa decidere. Decidere significa decapitare la testa del serpente e appropriarsi dell’eterno ritorno. Appropriarsi significa far propria – integralmente – la dimensione dell’attimo e capire che questo è eternamente ritornante.

“Non mirare verso beatitudini, benedizioni, grazie, lontane e sconosciute, ma vivere in modo tale che vogliamo vivere ancora una volta e vogliamo vivere così per l’eternità! Il nostro compito ci si accosta in ogni momento”
(Nietzsche, 1965).

Lungi da ulteriori approfondimenti che porterebbero senza ombra di dubbio a un rizoma concettuale senza fine, quello che ci preme mettere in luce è la stretta e fervida connessione che i termini decidere-decapitare-appropriarsi stringono con la prospettiva della rottura. Tale frangersi del tempo nell’atto decisivo di impadronirsene assumerà in Sátántangó un luogo d’elezione eminentemente importante, proprio in virtù della sua configurazione filosofica.
D’altro canto, se vediamo il tempo come un cerchio entro cui i personaggi tracciano i loro percorsi in un direzionarsi per segmenti finiti – dalla radura al villaggio, dal bar alla landa sperduta – scoviamo un’immagine lapidaria prossima a un’effige condannante. Il cerchio s’assiepa alla figura del risucchio in cui il territorio dell’agire dei personaggi – e nietzscheanamente del loro decidere – è invalicabile. Si gira a vuoto, in tondo, come se non ci si muovesse verso un fine, depauperati come una scheletrita foglia divelta dal ramo.

Una (im)possibile sinossi
A tal proposito, diviene necessario e fruttuoso esplicitare la materia narrativa (per quanto rimanga impreciso e lacunoso questo termine) di cui Sátántangó si alimenta, che va ricordato è ispirato all’omonimo romanzo scritto da László Krasznahorkai pubblicato nel 1985.
Sotto un plumbeo mantello di cielo che fodera gli abituri rimasti di un gretto villaggio, una grigia mandria di vacche abbandona la paludosa terra tra mugugni e fanghiglia. La loro rotta è orizzontale, or congiunti or separati, i bovini si dirigono in un non-so-dove tra le case spente. Un muggire che sa di preludio, un atono lamento di umanità scomparsa dalla fattoria collettiva che correla l’assenza di vite umane nel territorio della vacuità.
D’improvviso, nel cheto dindondare di campane in lontananza che annunziano l’inizio d’un giorno nuovo, compare un corpo – è Futaki – un uomo che scruta ciò che non vediamo scostando, con tiepido contegno, le tende ricamate d’arabeschi biancastri. Il rientro improvviso del signor Schmidt costringe Futaki a doversi nascondere dietro la porta della stanza nella quale aveva trascorso la notte con la moglie di questi. Appartato, origlia di una vile combutta tra Schmidt e Kráner: vogliono rubare il denaro di tutti i loro compagni per poi fuggire via dallo squallido villaggio. A questo punto, riuscito a sgusciare via dall’abitazione, Futaki ferma Schmidt intimandolo di voler entrare anche lui nel losco piano. Contemporaneamente, un uomo pingue e anziano, soprannominato “il dottore”, fissa dal suo studio l’intera scena, appuntando i muti scambi dei due su di un quaderno sgualcito.
Nel frattempo, come un dardo rovente che irretisce l’intero villaggio, si diffonde la voce che a breve farà ritorno un uomo di nome Irimías. L’aura che avvolge questo enigmatico soggetto, sobilla un enorme mistero: creduto morto da almeno un anno e mezzo, semina terrore e senso d’apprensione nelle famiglie della povera cooperativa al solo sintomo del suo possibile rimpatrio.

Giorni addietro, segretamente e insieme con il suo amico Petrina, Irimías aveva infatti siglato un oscuro patto con il capo della polizia locale al fine di spiare e scrivere un accurato rapporto sugli abitanti del paesotto. Perciò, grazie al clandestino accordo, i due si dirigono al villaggio accolti dal giovane Sanyi Horgos che aveva sparso tra gli abitanti del villaggio la notizia della loro finta morte. Tutto ciò non fa che annientare in un baleno il progetto Schmidt-Kráner i quali, come l’intera comunità, ora attendono l’imminente arrivo dei due forestieri.
In questo clima di silenziosa paura, il dottore scopre di aver finito il brandy. Benché controvoglia, decide di uscire di casa per comprarne uno nuovo. Così, travolto da un forte temporale nel buio pesto della notte, durante il tragitto trova riparo in un edificio abbandonato, dove si imbatte nelle due sorelle maggiori di Sanyi, prostitute. Oramai prossimo alla locanda del paese, l’uomo viene fermato dalla giovane Estike, bambina solitaria, fragile e mentalmente instabile che chiede disperatamente aiuto all’anziano dottore. Lui, inizialmente irritato, rifiuta, ma poco dopo se ne pente: cerca di raggiungerla per scusarsi e assisterla, ma la ragazza è scomparsa. Angosciato, cerca di raggiungerla, ma sviene nel bosco stramazzando a terra. Soccorso il mattino seguente da un autista di passaggio, viene accompagnato in ospedale. A questo punto, si scopre che poco prima dell’infelice incontro tra l’anziano e la bambina, Estike era stata ingannata da suo fratello maggiore Sanyi, che l’aveva convinta a piantare del denaro nel terreno della foresta, ingannandola che da questo sarebbe cresciuto un grande “albero di soldi”.
Poco dopo Estike, fuori di sé, tortura e avvelena il suo gatto, uccidendolo perché ritenuto colpevole della morte del padre, del male che pende come un incubo sul villaggio e della sua funestissima solitudine.
Affranta, muta, disgraziata, decide di seppellire il defunto animale presso il campo ove sarebbe dovuto nascere l’albero d’oro, ma una volta giunta nel fatidico luogo, scopre che i soldi sono spariti. Ammutolita raggiunge il fratello accusandolo del furto, ma questi la rifiuta cacciandola via. Alienata e vuota di luce, Estike inizia a errare per le campagne, guardando ritto innanzi a sé il limaccioso paesaggio che si dipana ai suoi occhi disattivi. È qui che, una volta approdata alla locanda incontra il dottore e, rifiutata, corre disperata in un’antica chiesa distrutta in cui decide di togliersi la vita, avvelenandosi sotto un cielo cinereo e senza forma.
Il giorno dopo, Irimías raggiunge il villaggio durante le esequie della deceduta bambina e proprio in questo contesto, tra la raccolta e l’afflizione, lo sconcerto e l’inquietudine, tiene un memorabile discorso ai membri del villaggio.

Dinanzi alla penosa testimonianza di un cadavere, Irimías scatena una violenta requisitoria contro tutti i presenti. Loro hanno ucciso Estike. Loro sono i sopraffattori, i pezzenti, gli abietti omicidi che hanno portato allo spegnimento della misera fanciulla. Arrivati a un fondo così infame, l’unico strumento di remissione dei propri peccati sembrerebbe quello di dover donare al severo Irimías, la radice e il movente del loro odiarsi: tutto il loro denaro.
La potenza della parola assertiva e inquisitoria di Irimías fa sì che le famiglie “colpevoli” consegnino a questo equivoco profeta tutti i loro risparmi, al fine di creare una nuova fattoria collettiva in un villaggio nelle vicinanze. Arrivati a ciò, in un’aria gelida e sguarnita d’ogni contrordine, gli abitanti accettano e traslocano i loro averi presso il distante podere di Almaș, individuato da Irimías come il luogo in cui potersi trasferire definitivamente. Giunti nella famigerata terra promessa, scoprono che questa non è che un’enorme villa fantasma, vuota e abbandonata alla totale decadenza. Perciò, dopo una giornata di lancinante cammino in paludose lande di melma, sopraffatti dalla stanchezza, gli indigenti precipitano in un profondissimo sonno. Nel mentre Irimías e Petrina, una volta separatisi dai contadini e raggiunta la locanda di una vicina città, incontrano un loro contatto con l’intento di acquistare una grossa quantità di esplosivo, senza dare concrete ed esplicite ragioni.
La notte passa e una volta dispiegatasi la mattina, Irimías tarda all’appuntamento coi futuri membri della ‘Comune’ in cantiere. Come era prevedibile dunque, tutti gli abitanti piombano nell’irritazione più totale. Alcuni credono di essere stati ingannati da Irimías, altri si mettono a litigare sulle ragioni di questa folle scelta. Schmidt e Kráner accusano Futaki di averli trascinati in questa trappola, pretendendo la restituzione dei loro soldi ma, proprio quando cominciano a malmenarlo, sopraggiunge improvvisamente Irimías che li rimprovera per il litigio e comunica loro che è necessario posticipare la realizzazione del loro progetto per problemi riscontrati con le autorità. Il piano di rivoluzione comunitaria deve aspettare: per ora, l’unica alternativa per tutti è quella di spargersi nelle vicine città per un periodo di tempo indeterminato, limitando i contatti tra di loro. Lo sconcerto è capillare: i dubbi che prima si credeva fossero solo vaneggiamenti, adesso si rivelano allarmi sostanziali.

Kráner, indispettito e sfiduciato, chiede a Irimías la restituzione della sua quota di denaro. Irimías acconsente a ciò, ma redarguisce Kráner esprimendo tutto il suo disappunto per la sua totale mancanza di fiducia e per la sua inaffidabilità, tanto da farlo desistere dal suo addio. A questo punto, Irimiás e Petrina accompagnano in furgone gli abitanti del villaggio nella vicina città e qui assegnano a ognuno di essi una diversa destinazione e un diverso mestiere, nonché la somma di 1.000 denari. In questa operazione di smistamento vero e proprio, Futaki confessa di aver trovato un lavoro indipendente e di non essere perciò più intenzionato a seguire il progetto: si fa dare i suoi soldi e parte. Nel frattempo, le ore passano e la polizia riceve lo sfregiante rapporto di Irimías riguardo alle scarse capacità dei contadini: il falso profeta usa parole dure e offensive nei confronti di ognuno di loro. Le autorità decidono dunque di riscrivere il rapporto in una forma meno volgare e violenta, prima di spedirlo. Dal canto suo, il dottore ritorna dall’ospedale dopo tredici giorni, ignaro dell’arrivo di Irimías, della morte di Estike e della partenza degli abitanti dal villaggio. Siede alla sua scrivania e scrive appunti, presumendo che tutti contadini stiano dormendo. Ma improvvisamente, come in una fatua epifania, ode dall’esterno lo stesso cupo e oscuro suono di campane che aveva svegliato Futaki all’inizio. L’evento è paradossale: né nel villaggio né tantomeno nei dintorni ci sono chiese; se non una a più di otto chilometri, ormai distrutta e diroccata. Così, spinto dalla volontà di indagare la matrice di quei suoni così densi, il dottore decide di uscire di casa. Giunto alle rovine della chiesa, scopre al suo interno un uomo cieco intento a colpire un batacchio che urla ossessivamente che “i turchi stanno per arrivare”. Atterrito e terrorizzato dall’ossessività di quel folle signore macilento, il dottore torna a casa trafelato e, una volta dentro, procede a fissare degli assi di legno alla sua finestra così da coprire anche l’ultimo spiraglio di luce e cadere avvolto dalle tenebre.

L’immagine e la parola
La difficoltà che governa l’operazione di scrittura tecnico-narrativa messa in atto quando ci si approccia alla presentazione della trama di quest’opera scaturisce tutta dal varco – in potenza intransitabile – che sussiste tra il cinema (l’immagine) e la lingua scritto-parlata (le parole). Dinanzi al cinema, ogni nostro dire è precario proprio perché tenta di condensare il libero e autonomo esprimersi del reale, quella κίνησις come evasiva energia del movimento, in rigide e definitorie costruzioni lemmatiche che smorzano e deviano quell’agitarsi della materia in un’immagine.

Le parole non giungono mai a tangere la vita, afferrandola in un sol colpo. Al contrario, si potrebbe ipotizzare che più parliamo, più facciamo propria la dimensione dell’abbandono dell’esistente e del suo originario nucleo a-verbale. A tal riguardo, le cose sembrano stare così per quanto concerne il divario tra la visione di Sátántangó e il suo conseguente assorbimento sensivo da parte del soggetto guardante e il discorso-su Sátántangó, la sua riflessione, ogni riflessione scritta che passi per la parola e per il linguaggio verbale. La totale diffidenza che il genio a due teste Tarr-Krasznahorkai, serba nei riguardi della linearità del tempo è d’altronde ravvisabile nella stessa colonna vertebrale dell’opera. Dodici sono i passi del tango, dodici sono i capitoli che cesellano Sátántangó: sei in avanti e sei all’indietro. Tale nobile e composita architettura narrativa qualifica il modo in cui, in questa anti-narrazione nel senso classico del termine, si sgomitolano gli eventi.
Il tempo è come spazializzato, reso ambiente empirico. Reificata come melma che imbratta i limiti dell’inquadratura, la durata dell’atto è avulsa da ogni forma progressiva. Béla Tarr consacra in quest’opera, l’assenza d’ogni prospettiva teleologica. E verrebbe da chiedersi: “dove si va, se non si compie un percorso funzionale ad una meta ma un roteare dell’azione su sé stessa?”.
Tale rifiuto nei riguardi di qualsivoglia finalismo meccanicista, assume una posizione rilevante non solo da un punto di vista storico. Se è vero infatti che Tarr dipinga un mondo alla deriva, deficiente d’un fine e dissipato in tantissimi sparuti scopi; il vero discorso che questo autentico poeta mette in atto, è di natura cosmo-ontologica, ha a che fare cioè, con i fondamenti dello spazio e del tempo.

Erranza, scuciture, cristalli
In un film che potrebbe continuare ad infinitum, Tarr non dilata la durata. Egli compie un’operazione superiore. Come un flagello rilucente, la macchina da presa scandaglia la vertigine d’ogni nostra privata ragione, in una potenza espressiva senza eguali. Innanzi al mondo spazializzato dalle inquadrature, così sconfinante così atopiche, chi guarda vede crollare ogni ubi consistam. Tutte le categorie di orientamento del soggetto rispetto al mondo trovano a riformarsi: ogni appoggio ai concetti classici – lo spazio e il tempo – dilegua. Il movimento diventa stasi permanente. Il camminare si commuta in una paralisi ritmica. Con facondia generatrice, Sátántangó inventa un mondo che esiste anche fuori da sé stesso, guadagnando uno statuto proprio, concreto, evidente, nell’alveo della vita umana. Infatti, chi si inabissa in quest’opera-monstrum con gli occhi, le orecchie e le membra assorte in un patico contemplare, fa immancabilmente esperienza di una perdita.

In altri termini, se si dovesse raffigurare in una metafora – in maniera parziale e incompleta – la δύναμις, l’effetto fortissimo scaturito da questa pellicola, dovremmo pensare a un sisma silenzioso che lentamente tumultua nella fragile terra, sibilanti scosse di distruzione concentrata. A tal riguardo, il carattere straripante della pellicola– la quale eccede ogni comune idea di film o di qualsivoglia prodotto audiovisivo – deve la propria origine a quella che si potrebbe definire come una segreta e primordiale auscultazione del mondo. Pungolare insistentemente le stesse lande desolate, i medesimi luoghi amorfi in cui risuonano discorsi ed espressioni già vissute, assomiglia al tentativo di giocare con le architetture della temporalità al fine di portarle a esaurirsi nel dissidio stesso dell’immagine. Una mimesis reiterata a tal punto da diventare catastrofe.
L’esame diagnostico che Tarr compie sulla materia cardiaca del reale, colto nella sua immersione in una cronologia incessantemente circolare, mette in causa un trauma della visione. Gli occhi continuamente si schiantano in un naufragio estetico e dopo questo corpo a corpo con l’immagine, a rimanere come un divelto brandello manchevole d’appigli, è la sola consapevolezza della propria intima finitudine; il carattere immarcescibile del nostro costante peregrinare verso la morte. A ben guardare infatti, la nostra vita assomiglia a una nascita che si ripete. Eppure noi moriamo. Iniziamo a morire con il primo respiro. Con rigorosa forza epigrafica, fu Leopardi a mettere in luce questo inestricabile nodo bios-thanatos:

“Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato”
(Leopardi, 2015).

A tal riguardo, se si riflette su quello che potremmo definire modus agendi dei personaggi tarriani, notiamo che tutto il loro muoversi rimestando nelle pieghe del racconto, dal nascere dell’azione sino al suo irreparabile consumarsi, rimanda proprio a quell’erranza che Deleuze aveva vagliato come essenza fondante del cinema moderno (cfr. Deleuze, 2017). Oltre sette torrenziali ore di uomini e donne che vagano nell’inconsulta ricerca del perimetro che non scorgono mai e dal quale si sentono ingabbiati. A tal proposito, divengono necessarie proprio in virtù della loro valente puntualità, queste parole di Pierre Klossowski:

“Il Circolo mi dischiude all’inanità e mi imprigiona in questa alternativa: o tutto ritorna perché nulla ha mai avuto un senso, oppure il senso viene alle cose solo con il ritorno di tutte le cose, senza principio né fine”
(Klossowski, 1981).

Tutto rimanda alla circolarità del movimento. E il movimento, se non è finalizzato ad un obiettivo che si discosta dal suo proprio cominciamento, è sempre morto-nascendo, vittima della sua stessa vacuità.
La destinazione-paradiso promessa agli immiseriti e miserevoli abitanti di questo pezzo di terra è il menzognero disegno di un “furfante più raffinato”, di un “tracciatore di linee rette” (Rancière, 2022): Irimiás. Figura ancipite del male che seduce, quest’oscuro malfattore tocca da un lato le regioni semantiche dell’autoritarismo populista – dice cristianamente di “essere il servitore di una causa più grande” e con ciò radica il futuro di un gruppo di famiglie nell’ambito di un’utopia illusa – e dall’altro l’incarnazione del desiderio malato. Egli è l’immagine dell’idolo sconsiderato, della credenza senza cognizione, del dire senza pensiero. In merito a ciò, gli Halics, gli Schmidt e i Kráner assomigliano alle ataviche famiglie tribali di cui ci parla l’Antico Testamento: gerarchiche, solide, longeve. Rispetto a queste, Irimiás sembra assumere la statura di un Ĕlōhīm, termine ambiguamente polisemico e tradotto quasi sempre al singolare, con il quale il testo biblico designa il Dio o il Legislatore.

Il fallimento come destinazione
Tuttavia, allontanandoci per un attimo dai circuiti teologici, è bene sottolineare che le processualità messe in atto da questo falso profeta, che promette senza poter mantenere perché sa che non si può veramente uscire dal cerchio, scavano un intervallo nella ripetizione, un urto nell’eterno ritorno del sempre uguale. La parabola della partenza degli abitanti del villaggio, votata a un sogno collettivo, e il finale fallimento di questa allucinazione, somiglia in tutto e per tutto ad una vera e propria diaspora; a un esodo dispersivo che pur procedendo dalla miseria alla miseria, scuote le tele del ragno che tanto compongono le galere spazio-temporali in cui sono incastrati personaggi. Il nome di Irimiás d’altronde, come ha notato Marco Grosoli, “è quello del profeta Geremia, che condusse, nella Bibbia, il popolo verso la redenzione” (Grosoli, 2014) ma in questo film, non c’è nessun esito veramente redentivo, che sappia cioè liberare questi uomini dal giogo di una vita asfissiante. Qualunque sia l’intersecarsi dei tragitti dei personaggi, qualunque sia il taglio, l’attraversamento o gli spostamenti degli uni verso gli altri, nessuno arriva mai a manomettere il cerchio. In tal senso, diventa preminente riflettere su un’altra figura della pellicola che si avvicina alla scucitura (così come la definisce Krasznahorkai nel suo romanzo) ovvero Estike come estrema possibilità.

“Uccidersi, in un certo senso e come nel melodramma, è confessare: confessare che si è superati dalla vita o che non la si è compresa. […] È confessare soltanto che «non vale la pena». Vivere, naturalmente, non è mai facile. Si continua a fare i gesti che l’esistenza comanda, per molte ragioni, la prima delle quali è l’abitudine. Morire volontariamente presuppone che si sia riconosciuto, anche istintivamente, il carattere inconsistente di tale abitudine, la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l’indole insensata di questa quotidiana agitazione e l’inutilità della sofferenza”
(Camus, 2001).

Estike muore placida. In lei si dà una rivelazione folgorante: tutto è collegato. Il suo è un suicidio filosofico, stoico, meditato.

“Se lei avverte ciò che gli altri non vedono, è perché tocca prometeicamente il fuoco, rimane cioè ustionata dal contatto con la verità ultima dell’ambiente umano in cui è immersa, una verità che gli altri nemmeno guardano, perché troppo luminosa: la totale vicinanza tra gli uomini è anche, simultaneamente, totale ostilità reciproca fra loro”
(Grosoli, 2014).

Il gesto d’avvelenarsi disvela una rivolta che sembrerebbe decapitare il soffocante Ouroboros. Ma facendo ciò, la fanciulla non riesce comunque a uscire dal cerchio, ella ha solamente cessato di vivere, è svanita dal territorio del circolare, ma non da quello dell’eterno ritorno. Anche il suo, dunque, non è un gesto definitivo. Ciò nonostante, il suo atto è la cifra di un tempo vissuto come suolo inabitabile, l’istante come negazione dell’istante poiché estraneo giro su sé stesso. In altri termini, Estike è l’immagine più alta, disperata e struggente di un sentire che nella morte trova la sua più assoluta magnificazione. Dinanzi all’odio, all’abnegazione di sè, all’eterno girare di questa legione di uomini affranti intorno alla loro intrinseca tribolazione, Estike rimane luminosa, proprio perché segue fino in fondo “la china del sentimento” (Camus, 2001).

Quella del nostro mondo contemporaneo, vuole dirci Béla Tarr, è l’epoca della fine della Storia, in cui il fine – se ce n’è uno – è dissipato in scopi spaginati e confusi, anche e soprattutto raggiungibili con il denaro e la sopraffazione. Manca un centro, i confini divengono a poco a poco più labili, nella totale sparizione d’un telos ultimo. A tal riguardo il cinema diventa l’estrema zona porosa di tutto quello che dilegua: il raccoglitore disperato dell’abbandono. Lo sguardo del cinema prova a trattenere tutto ciò che dandosi-si-ritrae, in un incessante oscillazione tensiva tra le sue due facce asimmetriche e “mortali nel loro toccarsi, quella di un fuori più lontano di ogni esterno, quella di un dentro più profondo di ogni interno […] là dove il visibile si ricopre o si sotterra.” (Deleuze, 2017). Pertanto, quello che il cinema sempre intercetta e tenta di immobilizzare, è l’ininterrotta dimensione del passaggio di tutte le cose, il loro eterno ritornare in uno specchio stagnante che assorbe e restituisce, assimila e disperde.
Béla Tarr guarda alla macchina da presa come a una sonda della temporalità che ricorda agli uomini, di essere già da sempre installati nel tempo, di non poterlo possedere, di essere altresì posseduti dai singoli istanti. È chiaro perciò che l’apparato visivo di Sátántangó si collochi nella riflessione estetica, come uno dei più alti esempi di quelle che Deleuze ha studiato e teorizzato a fondo: le immagini-cristallo.

“Ciò che costituisce l’immagine-cristallo è l’operazione fondamentale del tempo: dato che il passato non si forma dopo il presente che esso è stato, ma contemporaneamente, il tempo deve in ogni istante sdoppiarsi in presente e passato, differenti per natura uno dall’altro o, ed è lo stesso, deve sdoppiare il presente in due direzioni eterogenee, di cui una si slancia verso l’avvenire e l’altra ricade nel passato”
(Deleuze, 2017).

Il senso di Sátántangó è tutto qui. Nel modo cioè, in cui l’opera ci parla dei minuti che trascorrono strisciando nelle falde del quotidiano, dell’istante filmato come scissione simultanea in presente e passato che assumono uno spessore materico, nei volti e nei corpi umani in costante cammino. L’inquadratura tarriana è in definitiva un eidolon, simulacro di un reale impegnato in un perenne lavoro di processazione del tempo, la scrittura di un’immagine che abita la soglia tra effettivo e simulato e che, sostando sempre ai limiti dello sguardo, dischiude la sua intrinseca problematicità. Già Roland Barthes, tra gli altri, aveva abbozzato una definizione – verrebbe da dire sconsolata ma puntuale – delle immagini:

“L’immagine prende risalto, è pura e nitida come una lettera: essa è la lettera di ciò che mi fa male […] l’immagine è ciò da cui io sono escluso”
(Barthes, 1992).

Seppur relazionata all’ambito amoureux, Barthes chiarisce che questa è la definizione di “ogni immagine” enucleando a tutti gli effetti un potenziale vettore di riflessione sull’impenetrabilità del quadro cinematografico. Nel modo poi in cui Béla Tarr configura le stratigrafiche manifestazioni della realtà attraverso la macchina da presa, il tempo si rapprende in una regione spaziale delimitata – il quadro filmico – e si fa visibile, giungendo ad emersione in tutta la sua inconsistenza cronologica. Gli oggetti contenuti negli occhi dello spettatore al momento della visione infatti, sono pressoché gli stessi che si vedono ed esperiscono nel quotidiano, ma dal film sono come trasfigurati, incendiati da un senso panico che li colloca in una dimensione sostante tra l’istantaneo e l’eterno. In questo contesto di sospensione, ogni aspetto è congiunto: i dialoghi sono allentati, cullati da singhiozzate risate e pause fiaccate da una sorta di disapprensione rispetto ad ogni funzionalità del dire. L’impianto sintattico-lessicale appare spiccatamente poetico e letterario, merito questo, del dotto contributo di Krasznahorkai, autore del romanzo d’ispirazione. A ogni modo, virando verso la fine di (e del tutto), verrebbe da chiedersi: “Cosa rimane dopo il naufragio?”.

Il finale di Sátántangó determina il precipitare d’ogni cosa, attimo, gesto, creatura, azione, in una fase al nero. Il dottore non vuole più osservare, il suo aver visto ha perso robustezza, ogni volontà scopica è frantumata. Così prende i pezzi di legno che detiene in casa e comincia a fissarli violentemente – ma con metodica diligenza – all’unica finestra della sua abitazione.
Cosa significhi ciò trascende ogni possibile risposta risolutiva e inoppugnabile, ma di certo esacerba un fascino eminentemente attrattivo verso ciò che non comprendiamo. L’ultima immagine della pellicola è il nero più assoluto. Una sorta di nigredo esistenziale che invade incontrovertibile, gli occhi di chi ha trascorso i precedenti suoi istanti immerso in una visione vorticosa, festante, oceanica. Il dottore che ha contemplato per innumerevoli ore della sua vita, gli eventi reali che hanno coinvolto questi umani s-finiti, ora non vuole più vedere nulla che sia esistente.
Tuttavia, siamo sicuri di non poter esercitare il nostro sguardo all’origine d’ogni nostro vedere? Siamo in grado di ri-articolare i nostri occhi, logori di sempre uguali giornate che avanzano senza posa, nello scorgere la pelle ancestrale di tutte le cose: il buio?
Vivere nell’oscurità sembra un gioco oltreumano.

Letture
  • Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1992.
  • Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 2001.
  • Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Milano, 2017.
  • Eraclito, Frammenti (a cura di Francesco Fronterotta), BUR Rizzoli, Milano, 2019.
  • Marco Grosoli, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr, Bébert Edizioni, Bologna, 2014.
  • Pierre Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano, 1981.
  • László Krasznahorkai, Satatango, Bompiani, Milano, 2016.
  • Giacomo Leopardi, Canti, Oscar Mondadori, Milano, 2015.
  • Friedrich Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano, 1991.
  • Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Introduzione di Lorenzo Chiuchiù, Giunti Editore, Firenze, 2017.
  • Friedrich Nietzsche, Opere complete. Vol. 5\2: Idilli di Messina-La gaia scienza-Frammenti postumi (1881-82), Adelphi, Milano, 1965.
  • Jacques Rancière, Béla Tarr. Il tempo del dopo, Bietti, Milano, 2022.
Visioni
  • Béla Tarr, Sátántangó, Movies Inspired, 2017 (home video).