“Il beat cos’è?” si chiedeva nell’anno della summer of love californiana, ovvero nel 1967, una certa La ragazza 77, al secolo Ambra Borelli.
“Il beat cos’è? / Vivere in un mondo che non c’è” cantava in modo convincente, rifacendo il verso a Cher perché quella era la versione italiana del mega hit The Beat Goes On scritta da Sonny Bono ed eseguita dalla coppia, Sonny & Cher, appunto. Una cover, così come il retro del 45 giri che proponeva un rifacimento di Go Where You Wanna Go dei Mamas & Papas resa come La strada è lunga.
Cover su cover, una montagna di cover: il beat italiano non fu altro o poco di più. Eppure, si stenterà a crederlo, ma negli anni Sessanta, in Italia, il beat raggiunse proporzioni ragguardevoli nel numero dei praticanti il genere: 1.500 complessi, uno più, uno meno, secondo una stima attendibile. Il fenomeno, che per inerzia andò avanti fino ai primissimi anni del decennio successivo, racconta da un lato della nascita dei giovani come categoria sociale anche in Italia; nascita e affermazione imperiosa seppur tra mille ostacoli, non ultimo quello di essere a più stretto contatto con il Vaticano e quindi più facilmente sorvegliabili e punibili quando si tentava di infrangere regole di comportamento e divieti morali. Dall’altro evidenzia anche il ritardo che i giovani musicisti italiani avevano nei confronti dei loro coetanei, soprattutto anglosassoni, i titolari della paternità di quel genere musicale: il beat è creaturina nata per convenzione con l’uscita di Love Me Do dei Beatles nell’ottobre del 1962. Da allora, come un’epidemia, migliaia di complessini sono nati e morti dopo qualche anno, o dopo qualche giorno, in tutto il mondo. In modo altrettanto virale iniziarono i rifacimenti in serie, le cover dei brani beatlesiani. In seguito si iniziò a rastrellare dal repertorio degli altri complessi (si chiamavano così ai tempi), non solo i maggiori, e più in generale dei brani in cima alle classifiche angloamericane.
I Beatles prevalsero pure in questa speciale hit parade e il volume I Beatles made in Italy, un prezioso lavoro d’archivio condotto da Enzo Gentile, giornalista musicale di lunghissimo corso, e il grande collezionista Italo Gnocchi, già titolare dell’etichetta indipendente On Sale specializzata in ristampe d’epoca, certifica questo ennesimo primato dei Fab Four: furono 132 le versioni italiane dei loro brani ai tempi in cui il gruppo fu in vita. Canzoni che vennero perlopiù pubblicate unicamente nel formato quarantacinque giri, alcune oggi davvero irreperibili, pezzi da collezione. Si va dalla prima cover di cui fu responsabile Fausto Leali e i suoi Novelty, alle prese con Please Please Me, adattata da Danpa, ovvero Dante Panzuti, alla versione del reuccio Claudio Villa che propose la sua versione di Yesterday in un album intitolato Music Forever uscito nel 1970, quando i Beatles si sciolsero ed entrarono nel mito. Nel mezzo successe di tutto, un guazzabuglio puntigliosamente ricostruito da Gentile e Gnocchi, riproponendo le copertine originali, inserendo articoli d’epoca (incommensurabilmente comici), commentando con garbo e misura ciascun brano, finendo per disegnare una suggestiva porzione della mappa dell’immaginario contemporaneo segnato dal genio musicale dei quattro di Liverpool. Un lavoro certosino che va a scavare in profondità, estraendo addirittura brani registrati e non pubblicati, cosicché non stona l’auto definizione di “predatori dell’arca perduta” che i due autori danno di sé stessi nell’introduzione. I tentativi di riproporre nella nostra lingua, tradotti da alcuni specialisti, Mogol in primis, (o in italiano alternato all’inglese, come nel caso di Leali e la “sua” Please Please Me) il repertorio beatlesiano, vanno nel loro complesso a comporre un mosaico davvero eterogeneo, con tentativi coraggiosi (per esempio un’ardita Non sono solo, ovvero I’m The Walrus a opera de Gli Hu!), e versioni ignobili, tra cui è d’obbligo annoverare Ieri, la resa piagnucolosa di Yesterday eseguita da Vic Dana, cantante americano ostinato nel cantare a più riprese nella nostra lingua con risultati catastrofici.
Ci furono anche operazioni intelligenti come quella condotta con decenza e merito dal milanese Augusto Righetti e il suo Charly’s Team, autore di un nugolo di versioni dal brillante esordio, il 45 giri Non sei dritta, ovvero Day Tripper sporcata da sonorità R&B, a un intero album che lavorava con molto materiale da Rubber Soul allora (1966) fresco di stampa. Ci sono poi versioni bizzarre, ma tutto sommato passabili, come Una ragazza diversa (1964), versione di Love Me Do messa a punto da I Giovani Giovani, il complessino che accompagnava Pino Donaggio nei primi anni della sua carriera. La versione dell’anthem beatlesiano (il retro riportava una meno riuscita I Want To Hold Your Hand, diventata Ma voglio solo te) si caratterizza oltre che per il timbro vocale profondo di Donaggio anche per il riff affidato al violino.
È in definitiva un lungo elenco, quello scrupolosamente compilato da Gentile e Gnocchi, un juke-box nel quale si alternano cover di tutto rispetto e sortite che a distanza di sessant’anni e passa fanno ancora inorridire, (esemplare in negativo Un bel sottomarin – Yellow Submarine – de I Compagnons del la chanson con la complicità dell’onnipresente Mogol), oppure versioni realizzate da gruppi inglesi che sbarcavano il lunario in Italia, canzoni che i Beatles scrissero ma non incisero, affidandole ad altre voci (da Cilla Black a Mary Hopkin), brani affidati a solisti di grande successo, per esempio Mina, Ornella Vanoni, Patty Pravo e il citato Fausto Leali, che dopo Please, Please Me, proseguì con la traduzione letterale di She Loves You (Lei ti ama). Nella beatlemania all’italiana, va anche segnalato che il brano più rifatto dalle nostre parti fu Obladì Obladà, una sporca dozzina che andava dalle versioni de I Ribelli e dell’ignoto Bill Giulio a quella de I Trolls (poi New Trolls).
Vengono alla luce storie bizzarre, per esempio quella dei britannici Ingoes colpevoli nel 1965 di una inascoltabile versione di Help! (Se non mi aiuti tu). Se ne torneranno in patria ribattezzandosi Blossom Toes e diventando una delle formazioni di punta della psichedelia d’oltremanica, capitanati da quell’eccellente chitarrista, Brian Godding, in seguito presente in alcuni dei progetti musicali più visionari degli anni Settanta, dai Magma ai Centipede e a vari organici capitanati da Mike Westbrook, ma resosi ridicolo nel balbettare in italiano il testo di Mogol (sempre lui) ai tempi degli Ingoes. Delizioso il capitoletto conclusivo dedicato ai brani che citavano motivi e ritornelli beatlesiani nel migliore dei casi o semplicemente li scopiazzavano. Nel primo caso, si segnala Un disco dei Beatles del Quartetto Cetra, brano che incastonava Please, Please Me e She Loves You in un proprio motivetto, dall’altro si giunge sull’orlo dello scippo come in È inutile scritta da Ricky Gianco ricalcando She Loves You e cantata da Mina nel 1963.
In ogni caso, nel loro insieme quei centotrentadue brani stanno a testimoniare un’arretratezza italica sconcertante e al tempo stesso il tentativo e il desiderio di porsi al passo con i tempi, anche se questi stavano marciando altrove a una velocità insostenibile dalle nostre parti. Raccontano di ingenuità e genuinità di una generazione oltre che di furbizia discografica, e dell’effetto collaterale di aver in qualche modo fatto sbarcare anche sulle nostre coste suoni e ritmi altrimenti inascoltabili, sia alla radio che in tivù. Il fenomeno delle cover selvagge segnò per un decennio abbondante il panorama musicale italiano e marchiò praticamente per intero il beat italiano nel cui repertorio le canzoni composte da nostri compatrioti degne di essere ricordate si contano su una mano o due e a riscattare il panorama italiano c’era solo la pattuglia dei cantautori genovesi.
I complessi più famosi se la cavarono con dei fugaci ma preziosi sodalizi; per esempio, l’Equipe 84 con Lucio Battisti (29 settembre, Nel cuore nell’anima), i Nomadi con Francesco Guccini (Dio è morto), ancora l’Equipe 84 con Guccini (Auschwitz) e poco più. Loro che erano i gruppi di spicco, un po’ più presenti in classifica (insieme ai Camaleonti e ai Dik Dik come regolare presenza nella hit parade delle vendite) per il resto non facevano altro che riprendere brani inglesi o statunitensi (qualche volta francesi) rifacendoli. Altro che la grande truffa del rock & roll, il beat italiano elevò la copia ad arte della copia e spesso gli interpreti delle cover erano ritenuti anche gli autori dei brani! Il fenomeno delle cover è il vero elemento paradossalmente originale del beat italiano, di quei circa 1.500 complessi ai quali vanno aggiunti interpreti che agivano per conto proprio. Si possono citare, per esempio, tale Elio Gandolfi interprete di una Acquario, ovvero Aquarius dallo spettacolo Hair che i 5th Dimension avevano portato in cima alle classifiche, o il più celebre Gianni Pettenati, quello di Bandiera gialla (altra cover, questa volta presa da Crispian St Peters che eseguiva l’originale The Pied Pipers); oppure interpreti che si avvalevano di gruppi d’accompagnamento, come Maurizio e i New Dada o Giuliano e i Notturni, che lanciarono la bubblegum music in Italia riprendendo Simon Says dei 1910 Fruitgum Co. reintitolandola Il ballo di Simone. Come funzionava? Lo ha spiegato con mirabile sintesi e franchezza Maurizio Vandelli, la voce dell’Equipe 84, in una trasmissione di Carlo Fontana intitolata Era il tempo delle cover, andata in onda il 17 giugno 2015 su Rai 2:
“Spesso ci ispiravamo a dei pezzi, cioè li copiavamo. Del resto non c’era l’originale in Italia e poi era molto più semplice… cioè quello che ci emozionava noi lo facevamo nostro e davamo altrettante emozioni ai ragazzi che ci ascoltavano. Per cui ci sembrava quasi di non fare la cover vera e propria, ci piaceva dar la stessa emozione che provavamo noi nell’ascoltare un pezzo che ci piaceva. Tutto lì”.
I brani, precisava Vandelli, si pescavano dalle radio pirata, come si chiamavano allora: Radio Luxemburg e Radio Caroline. Una conferma di quel metodo arriva da Livio Macchia, il bassista dei Camaleonti, tra i mattatori d’allora, in una dichiarazione riportata da Gentile e Gnocchi, perché anche il complesso milanese si diede da fare con le cover, inclusa una Norvegian Wood trasformata in una Se ritornerai (1966) ben suonata ma con un testo da dimenticare. Dice Macchia:
“Tutte le informazioni che avevamo sulla musica internazionale ci arrivavano dall’ascolto di Radio Capodistria e da Radio Luxembourg. Da lì, una canzone che ci piaceva la si registrava su una cassettina, per poterla sentire all’infinito fino a quando non l’avevamo tradotta e imparata. Il pezzo veniva cotto e mangiato in pochissimo tempo”.
Si eseguiva qualsiasi cosa. Al catasto della memoria risultano iscritte cover improbabili, brani di Bob Dylan, di Jimi Hendrix, dei Cream, quindi non solo canzoncine beat, spesso leggerine, ma anche brani più impegnativi. Si riprendevano talvolta brani all’insaputa degli autori originali. Inoltre c’era la questione del testo. Quasi mai il senso dell’originale veniva restituito, preferendo scriverne uno del tutto nuovo (altra originalità), che spesso stravolgeva radicalmente quello di partenza, come nel caso della citata Bandiera gialla. Diversi i motivi: difficoltà intrinseche di traduzione, differenze nella metrica, i troppi rimandi, le troppe metafore a dimensioni sconosciute in Italia, oppure per semplice praticità e strafottenza: il fine giustificava i mezzi e il fine era andare in classifica. La foga era tale che a volte ci si ritrovava anche con più cover dello stesso brano, non soltanto nel caso dei Beatles, cover in circolazione con lo stesso testo o con parole differenti. È il caso della With A girl Like You dei Troggs, ripresa dai bergamaschi Mat 65 (inclusi da Gentile e Gnocchi nel loro catalogo per le versioni che realizzarono di Michelle e Yesterday). Il brano dei trogloditi trovò anche una versione al femminile grazie a Sonia e le sorelle, girl group nato in quel di Prato (erano davvero sorelle) che ne proposero una versione più drammatica e d’altronde il testo italiano allude al fallout atomico. Per la cronaca il brano venne rifatto anche dai Nomadi.
Storia affine quella dei Chiodi, bergamaschi anch’essi, che fecero uscire una loro versione di I’m A Believer, il brano di Neil Diamond che spopolò nella versione dei Monkees. Quando la pubblicarono con altro testo era già uscita da tre mesi la versione italiana più famosa di Caterina Caselli: Io sono bugiarda. I Chiodi la chiamarono invece Accendi una stella (sic!). Altro caso di concorrenza confusa è quello relativo a Sono un ragazzo di strada cover del brano dei californiani Brogues dal cui nucleo sarebbero poi nati i Quicksilver Messenger Service. Titolo: I Ain’t No Miracle Worker. È tra i brani top del beat italiano nella versione che fecero i Corvi, ma ci provarono anche i veneti Bounty Killers (di S. Donà di Piave) che uscirono prima dei Corvi con un testo un po’ diverso. Insomma, la grande confusione sotto il cielo di cui parlò Mao Tse-tung regnava di sicuro indiscussa nelle faccende del beat italiano.
Tornando ai Beatles, al cimento partecipò in più occasioni anche Gianni Morandi ed egli stesso lo ricorda nella prefazione al volume di Gentile e Gnocchi. Morandi azzardò ai tempi anche un’incursione nel repertorio dei Beatles, Here, There And Everywhere, gemma pescata da Revolver. Divenne Una che dice sì e Morandi con onestà intellettuale ne riconosce l’inutilità:
“Un’operazione onesta, volenterosa, ma che sinceramente si può dimenticare: l’ho riascoltata, ma diciamo che, se comparata all’originale dei Beatles, alla voce di McCartney, sparisce”.
Insomma l’incitamento che avrebbe cantato anni dopo, in quel caso non era proprio possibile: non si poteva fare di più.