Tre cassette e qualcosa ancora in un paio di compilation, tre anni di vita, due musicisti: in realtà una coppia. Ecco in sintesi la biografia di Fondation, duo francese attivo al sorgere degli anni Ottanta, artefice di una amabile musica elettronica. I tedeschi della Bureau B hanno ripescato e rimesso a nuovo quei bei suoni, confezionando un florilegio dalle tre storiche C60: Metamorphoses (1980, da cui provengono sette brani), Sans Etiquette (1980, da cui si è scelto un solo brano, il più lungo) e Le Vaisseau Blanc (1983, da qui arrivano quattro brani), da cui l’album antologico, intitolato Les Cassettes 1980-1983 riprende la copertina. Chissà se il nome fosse un omaggio a Isaac Asimov, in fondo anche loro realizzarono una trilogia e che ci potesse essere lo zampino della fantascienza, come si vedrà, potrebbe non essere un azzardo. Di sicuro, nella terza cassetta si ascoltavano prima di ogni brano, a mo’ di prologo, la recitazione di testi che erano una rielaborazione del racconto La nave bianca di Howard Phillips Lovecraft, come precisavano le scarne note, e che in questa selezione sono stati tagliati. In pratica un concept album. Si possono, però, ascoltare integralmente in una ristampa operata in parallelo da un’altra etichetta, la Tunnel Vision Records, che ripropone la cassetta in doppio formato: vinile e download digitale, curiosamente con una copertina nuova di zecca e decisamente più lovecraftiana.
La selezione operata dalla Bureau B privilegia i brani più vicini alle storiche formazioni tedesche di musica elettronica, i cosiddetti corrieri cosmici, alla cui valorizzazione è destinato il lavoro dell’etichetta, escludendo i brani più cupi e astratti.
Sodalizio artistico e ralazione sentimentale
Fondation erano Ivan Coaquette e sua moglie Anannka (Annanka su Le Vaisseau Blanc) Raghel (ovvero, Patricia Coaquette) e i loro attrezzi del mestiere erano in numero essenziale: organo e sintetizzatore, batteria elettronica, chitarra, talvolta un pianoforte. In aggiunta, qualche rumore, alcune registrazioni sul campo e interventi vocali (e i recitativi su Le Vaisseau Blanc) di Raghel, voce celestiale come è descritta nelle note originali, ma che non si ascolta nei brani di questa antologia. Così equipaggiati produssero una musica a metà strada tra ambient e pop cosmico sulla scia dei Tangerine Dream e di Klaus Schulze. Per realizzarla preferirono utilizzare il supporto della cassetta invece che quello del trentatré giri per disporre di una durata maggiore; infatti, le tre cassette erano le classiche C60 della durata di un’ora. Un limite ora sorpassato, tant’è che Le Vaisseau Blanc viene come si è detto ristampato su un ellepì generoso quanto a durata. Potrebbe sembrare l’ennesimo file per discografie complete, relativamente importanti e solo sul piano storico, ma in realtà il lascito di Fondation non si è inflazionato con il tempo, perché la musica suona fresca e attuale, tuttora godibilissima, niente affatto datata, come spesso succede alle opere di abili artigiani.
I due come musicisti partono in modo dilettantesco. Lei si era presto invaghita della fotografia, lui delle classiche arti figurative. Nella seconda metà dei Sessanta sono a Roma coinvolti in modo a dir poco disinvolto nelle attività di un collettivo musicale destinato a fare storia nell’ambito della sperimentazione elettroacustica e della contaminazione tra generi: MEV (Musica Elettronica Viva), attivo sin dal 1966. Il contatto che i due ebbero con MEV è una pagina piuttosto controversa e macchia le origini della loro carriera musicale.
All’epoca il collettivo di stanza a Roma aveva allestito il suo quartier generale in una ex fabbrica di reti metalliche in via Pietro Perreti e in parallelo alle performance tenute in tutta Europa, nello studio di via Peretti il “MEV apre le porte a chiunque voglia far musica” (Margoni Tortora, 2011), dapprima solo i musicisti e poi chiunque, bambini compresi.
“La sfida di MEV consiste anche nell’includere al suo interno persone che non hanno alcuna formazione accademica, che non sono musicisti e tantomeno sono in grado di utilizzare uno strumento musicale” (ibidem). Tra questi c’è Ivan Coquette, che partecipa (con Patricia) alla grande free performance – che segnerà anche la fine ufficiale di MEV – documentata nel disco The Sound Pool, poi pubblicato dalla Byg, etichetta in prima linea nel diffondere le musiche rivoluzionarie di quei tempi infuocati, dall’Art Ensemble of Chicago, Archie Shepp e Don Cherry, ai dischi dei Gong.
In questa temperie di utopismi assortiti, i due se ne vanno a Parigi e registrano un altro album appropriandosi del nome MEV, Leave the City, sempre per la Byg, di cui però nessuno tra i membri del collettivo sa nulla (!), come poi ricorderà con comprensibile amarezza uno dei suoi storici membri, Alvin Curran (cfr. Margoni Tortora, cit. e Mattioli, 2016). Una vicenda che staziona in un limbo oscuro da quasi mezzo secolo, nonostante la buona musica incisa nell’album.
Una colonna sonora particolare
Fatto sta che il MEV, tra le sue mille attività, si si trovò a collaborare anche con Pierre Clementi, icona assoluta del radicalismo artistico e politico dell’epoca, attore protagonista in film come Bella di giorno (1967) e La via lattea (1969) di Luis Buñuel, Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini, I cannibali (1970) di Liliana Cavani, solo per citare qualche titolo. Clementi era anche uno sperimentatore in prima persona dietro la macchina da presa.
Il suo lavoro maggiore come cineasta è Visa de Censure nº X, risalente al 1967, opera lisergica che venne successivamente sonorizzata nel 1975 da un gruppo di musicisti riunitisi per l’occasione sotto il nome di Delired Cameleon Family. Vi erano coinvolti bei nomi della scena avantgarde francese, come Gilles Artmann, allora nei Lard Free e poi a capo dei sontuosi Urban Sax, Tim Blake proveniente dai Gong e Ariel Kalma, invaghito di Terry Riley e dell’Oriente. A capitanare la bizzarra congrega c’era il pianista Cyrille Verdaux, che sempre in quei giorni varò il suo progetto prog, Clearlight Symphony, e un altro tastierista: Ivan Coaquette.
È il 1975, la scena francese inizia a dare contributi di peso anche sul fronte dell’elettronica più o meno pop. Avevano aperto le danze il compositore Pierre Henry, membro del GRM e l’autore di colonne sonore Michelle Colombier. I due realizzarono nel 1967 Messe pour le temps présent, musiche commissionate da Maurice Béjart per un suo balletto, che contenevano una bomba: Psyché Rock. Una deflagrazione che cancellava le distanze tra i generi, tra alto e basso, un pizzico di Louie Louie, una spruzzata di sperimentazione elettroacustica et voilà, i muri crollarono.
Negli anni seguenti fu tutto un fiorire di prove, tentativi, esperimenti che coinvolse un’intera generazione di musicisti alle prese con i nuovi strumenti elettronici analogici: il Mini Moog, il VCS3, i sintetizzatori AKS della EMS, l’ARP 2600, l’ARP Odyssey. Nel frattempo, in Germania si erano imposte le esplorazioni spaziali dei citati Tangerine Dream e Klaus Schulze, a cui i Cluster, i primi Popol Vuh, Conrad Schnitzler e gli Ash Ra Temple davano man forte. In Francia nel 1976 esplose Jean Michel Jarre con Oxygene, che, con ben diciotto milioni di copie vendute di una suite di elettropop, replicò quanto realizzato dall’allora Walter Carlos con Switched on Bach.
L’elettronica aveva compiuto per intero il balzo, passando dagli studi di sperimentazione alle masse.
Siamo sul finire degli anni Settanta, Ivan Coaquette si ritrova con la sua compagna in una formazione già nell’orbita dei suoni elettronici spaziali: gli Spacecraft. Un solo ellepì nel 1978, Paradoxe, autoprodotto, che non si fa mancare richiami fantascientifici, come molta musica francese di allora, dai Magma agli Heldon di Richard Pinhas, lettore appassionato di Philip K. Dick e che con il nome della sua band omaggiava lo scrittore Norman Spinrad e il suo The Iron Dream da noi noto come Il signore della svastica. È tempo di mettersi in proprio, di fondare un progetto ideato e sviluppato soltanto da loro. Nasce Fondation.
La fondazione del nuovo progetto musicale
Seppure all’ombra dei citati modelli teutonici il duo cercò e trovò un sound distintivo, pescando un jolly chiamato Korg X-911, una chitarra/sintetizzatore che faceva parte della celebre serie di synth MS-20 della Korg, appunto. In pratica l’X-911 modificava l’input monofonico del segnale inviato da una chitarra in un suono sintetico, operazione che oltre a rendere labile la differenza tra lo strumento originario e quello del sintetizzatore, produceva interessanti effetti collaterali. Per esempio, se la chitarra veniva suonata troppo velocemente, dalla sequenza venivano tagliate delle note e questo non era necessariamente un danno, perché dava luogo a soluzioni ardite, difficilmente ipotizzabili a tavolino. Fondation riuscì così a creare collages sonori timbricamente particolari e lo prova la selezione realizzata da Bureau B, dodici brani che evidenziano il forte influsso della scuola berlinese, come già accennato e per rendersene conto è sufficiente ascoltare il brano posto in apertura della selezione, Résonance, proveniente da Sans Etiquette, sorretto da un ritmo essenziale e inesorabile sopra il quale si elevano le note sognanti prodotte sinteticamente dai marchingegni dei due. Un autentico viaggio stellare che qui, complice la lunghezza del brano, mostra per intero la discendenza dalle suite dei Tangerine Dream. Altrove, come nel caso di Un beau zeste, i suoni si fanno più ispidi, indicando anche altre suggestioni, una certa parentela con l’artista multimediale Conrad Schnitzler. Epigoni? No, Fondation aveva una propria vena compositiva e discreta originalità timbrica, cosicché sapevano somigliare anche solo a sé stessi, come nella poco rassicurante Quand il faut parler d’amour, o nelle sfumature orientali emanate da Quelque part, anche se questa selezione, come detto, tende a evidenziare più le parentele che le differenze con i berlinesi.
Dopo Fondation il sodalizio artistico si interruppe ed entrambi smisero di fare musica, dedicandosi alle altre passioni giovanili: Anannka France-Raghel (questo il nome definitivo) alla fotografia, e Ivan Coaquette alla pittura. Fine della storia.
- Daniela Margoni Tortora (a cura di), Alvin Curran. Live in Roma, Die Schachtel, Milano, 2011.
- Valerio Mattioli, Superonda, Baldini & Castoldi, Milano, 2016.