L’appuntamento di Simone Weil con Dio – per usare una sua celebre metafora (cfr. Weil, 1993) – si verificò, come sempre succede, nel posto più improbabile: una fabbrica. La scelta dell’allora docente di filosofia di liceo di abbandonare la propria condizione di privilegio per toccare con mano la condizione operaia, presa nel dicembre 1934, nasceva da considerazioni politiche, dalla già avanzata critica del concetto di alienazione marxiano e dal bisogno di parlare solo di cose conosciute di prima mano, bisogno che già l’aveva spinta in Germania nei mesi che precedettero la presa di potere del nazismo (cfr. Weil, 1990; 2020). Weil non poteva immaginare che dal drammatico anno in fabbrica – dall’esito prevedibile, data la sua salute malferma – non sarebbero scaturite solo considerazioni filosofiche, riflessioni sul macchinismo e proposte operaiste, ma anche un’esperienza eminentemente mistica a cui diede in seguito il nome di “sventura”. Se ne rese conto per la prima volta durante l’estate del 1935, quando, trascinata dai genitori in vacanza in Portogallo per riprendersi dalle sofferenze fisiche del lavoro operaio, si imbatté in una umile processione in un villaggio di pescatori e, ascoltando il canto antico intonato dalle mogli dei pescatori, sentì all’improvviso “la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro” (di “morale da schiavi” aveva parlato già Nietzsche, il cui pensiero Weil forse conosceva per grandi linee ma che rifiutò sempre di leggere, come sappiamo dalle lettere al fratello; cfr. Weil e Weil, 2018). Iniziava così quel percorso che l’avrebbe portata, due anni dopo, a inginocchiarsi nella Porziuncola di San Francesco ad Assisi, gesto con il quale accolse definitivamente la verità del cristianesimo, ma non la Chiesa, come avrebbe chiarito a Joseph-Marie Perrin, il padre domenicano conosciuto a Marsiglia negli anni della guerra, destinatario delle lettere che aprono Attesa di Dio, ora ristampato in edizione economica da Adelphi.
Il concetto originale: la sventura
“Titolo felice”, come commenta Giancarlo Gaeta nel saggio che chiude il libro, Attesa di Dio uscì nel 1950 per la cura dello stesso Perrin, a che ne scelse il titolo, che racchiude in sé, come vedremo, molti sensi della ricerca mistica compiuta dalla filosofa francese. Ma torniamo innanzitutto alla sventura, da quel concetto da cui tutto aveva avuto inizio. La sventura non è la sfortuna, non è la mera sofferenza fisica – che pure vi ha una parte determinante – e non è nemmeno la depressione psicologica, anche se gli assomiglia. È la condizione di Giobbe, di colui che di fronte a una persistente sofferenza e a una serie di drammi e rivolgimenti di fortuna che lo colpiscono perde la fede e arriva a convincersi che o il mondo è privo di senso e di scopo, o un Dio c’è ma ci odia. È la condizione di Gesù sulla croce che, prima di spirare, lancia il terribile grido in aramaico “Eloì, Eloì, lemà sabactàni”. Weil la sperimenta inchiodata alla macchina delle tre diverse fabbriche in cui sarà impiegata e soprattutto la vedrà riflessa negli sguardi delle compagne e dei compagni di lavoro e sofferenza. Come la Trinità, la sventura è una e trina e si presenta “nel triplice aspetto di dolore fisico, smarrimento dell’anima e degradazione sociale”. Ma è l’unico modo che esiste per raggiungere la verità del cristianesimo, perché dopo esservi passati attraverso si acquisisce il marchio schiavile che Weil si sentirà addosso tutta la vita, il marchio infamante che fu impresso su Gesù durante la passione.
Simone Weil non era predestinata alla sventura. Nata e cresciuta in una famiglia benestante dell’alta borghesia parigina, ebrea ma cresciuta in un clima di totale agnosticismo e anzi inconsapevole della propria ebraicità fino all’adolescenza, dotata di un genio precocissimo che solo il confronto con l’altrettanto geniale fratello, il matematico André, avrebbe messo in ombra, fu tuttavia per tutta la vita animata da un’ostinata ricerca interiore che la spinse a rinunciare a tutto ciò che poteva avere e essere: la bellezza, la ricchezza, una carriera intellettuale di primissimo piano, un ruolo politico determinante nel movimento sindacale e nel partito comunista francese. Negandosi tutto, intraprendeva inconsciamente quel processo di kènosis, di “svuotamento”, che la teologia attribuisce alla scelta di Dio di incarnarsi in un uomo e morire sulla croce. Ma una volta raggiunto il punto più basso dello svuotamento, quello che spinge a non desiderare altro – al termine di una giornata di lavoro – che stendersi su un letto e non pensare più a niente, non essere niente, ecco che si giunge alla comprensione del vero senso dell’esistere:
“Infatti, finché il gioco delle circostanze lascia il nostro essere pressoché intatto o soltanto parzialmente leso, crediamo più o meno che sia la nostra volontà ad aver creato il mondo e a governarlo. La sventura ci insegna di colpo, con nostra enorme sorpresa, che non è per niente così. Allora se ci capita di lodare, quel che lodiamo è veramente la creazione di Dio”.
Quando scrive queste righe (L’amore di Dio e la sventura), Weil è a Casablanca, in un campo profughi, dopo aver lasciato con i genitori la Francia per sottrarsi alle leggi antisemite del governo di Vichy, e si appresta a partire per l’America. È la primavera del 1942. L’Europa è dominata da uomini che credono che la loro volontà possa forgiare e dominare i destini del mondo, un rischio che Weil aveva visto arrivare da lontano, molti anni prima, scorgendo nelle ideologie del suo tempo – anche in quel comunismo al quale aveva aderito – il “grosso animale” della Repubblica di Platone, una concezione totale e totalitaria del mondo che non accetta nulla al di fuori della propria volontà, che a sé asserva tutte le volontà dei singoli. La scoperta del cristianesimo è la reazione a questa deriva, la presa di coscienza che, ponendo un limite a ciò che l’essere umano può diventare, e ponendo questo limite in un “infinitamente altro da sé”, si arriva a capire che il mondo non dipende dalla nostra volontà, ma che esistono altre volontà: quella verità espressa dalla simmetria tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Questa considerazione Weil aveva già tentato di esprimerla in versi, nelle diverse versioni di Venezia salva (Weil, 2022), piéce teatrale scritta in quegli stessi anni: lì Jaffer, designato dai cospiratori a guidare la conquista della città, si accorge che alla sua volontà di potenza fanno da contraltare i semplici desideri di una ragazzina che non vede l’ora di festeggiare lo sposalizio del mare, e sceglie di salvare la città, mettendo fine ai sogno di impero universale di Renaud, che vede dissolversi per sempre “tutto ciò che ho voluto”. È una persona semplice, priva di potere e di valore, a provocare tutto questo, a spezzare il sogno che spinge gli uomini a credere che il mondo intero graviti intorno ai loro desideri. È la realizzazione della parabola evangelica del samaritano, l’unico che si accorge dello sventurato sulla strada e mette da parte i propri impegni e progetti per soccorrerlo.
L’attesa e la fede
Attesa di Dio, dicevamo, è un titolo felice. Tutta la vita dell’essere umano è, secondo Weil, attesa di questo incontro, che può anche non avvenire.
“Dio ritorna più volte, come un mendicante, ma come un mendicante, un giorno, non ritorna più”.
Se però anche solo una volta si apre l’uscio per farlo entrare, allora “Dio getta in noi un seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare – e a noi anche – se non attendere”. È la concezione weiliana della fede: non imposta, non ottenuta per proselitismo forzato, ma germogliata lentamente nel cuore di chi anche solo per una volta si è aperto al prossimo ponendo un limite a sé stesso. Una piccola idea, piccola come il granello di senape della parabola evangelica, che se, una volta seminata, riesce ad attecchire, può giungere a cambiare ogni cosa, fino a trasformare il mondo nel Regno. Cos’è questo Regno predicato da Gesù, se ci pensiamo? È là dove Dio regna senza altri vincoli, “colà dove si puote ciò che si vuole”, per usare la perifrasi dantesca, e dunque non è il nostro mondo, poiché Gesù insegna ai suoi apostoli a pregare perché nel mondo sia fatta la volontà di Dio “in terra come è nel cielo”. Quaggiù dunque non regna Dio, ma dominano le volontà altrui, gli opposti egoismi attorno ai quali ciascuno fa gravitare il resto del mondo, qui domina la gravità che spinge i pensieri verso il basso e si contrappone alla grazia, che li solleva verso l’alto (cfr. Weil, 1993).
“Ciononostante il seme, tutto sommato, cresce da solo. E un giorno accade che l’anima appartenga a Dio e non soltanto acconsenta all’amore, ma ami veramente, effettivamente. Allora bisogna che essa a sua volta attraversi l’universo per giungere fino a Dio. […] Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo unicamente acconsentire a perdere i nostri sentimenti per lasciare nella nostra anima un varco a quell’amore. In questo consiste la negazione di sé stessi. Noi siamo creati unicamente per acconsentirvi”.
Ma l’incontro tra l’Uomo e Dio, una volta realizzato, che forma assume? Simone Weil aveva le idee chiare. Non doveva assumere la forma di una religione organizzata. Del resto, non occorreva molta fantasia: tutto il Vangelo è un’invettiva contro le religioni organizzate e il loro superamento nella forma di una fede personale, diretta, autentica con Dio. La Chiesa per lei non è che un altro “grosso animale”, che, come scrisse in quegli stessi anni nei suoi articoli sul movimento cataro, guastò la rivelazione di Gesù attraverso la commistione tra la concezione violenta e sopraffattrice dell’Antico testamento e la volontà di potenza dell’Impero romano (cfr. Weil, 2021). Di questo padre Perrin non poteva non dispiacersi, da buon pastore che autenticamente desiderava accogliere un’altra pecorella nell’ovile cristiano. Ma lei, Simone, fu inflessibile:
“Non posso fare a meno di continuare a domandarmi se, in quest’epoca in cui una parte così grande dell’umanità è sopraffatta dal materialismo, Dio non voglia che vi siano uomini e donne che, pur essendosi votati a lui e al Cristo, rimangano fuori della Chiesa”.
Verso la nuova santità
Rimase di questo avviso fino alla fine (al netto di voci mai confermate di un battesimo richiesto in punto di morte). Fu allora la Chiesa a fare quel passo epocale che consisteva nell’attraversare lo spazio apparentemente infinito di quella soglia esistenziale. Simone Weil aveva chiesto che rinunciasse all’anathema sit con cui per secoli erano state condannate innumerevoli eresie: e il Concilio Vaticano II abrogò gli anatemi. Aveva chiesto che rinunciasse al proselitismo: e Paolo VI (che citava spesso Weil nei suoi testi) soppresse nel 1967 la Propaganda Fide, mentre oggi i papi parlano di una Chiesa che “cresce per attrazione, non per proselitismo” (Francesco, 2013). Aveva chiesto che riconoscesse le forme implicite dell’amore di Dio, di rinunciare al concetto esclusivista dell’extra Ecclesiam nulla salus, perché l’amore per il prossimo è “un amore totalmente anonimo, e proprio per questo affatto universale”. E i teologi hanno accolto oggi la teoria dei “cristiani anonimi” (Rahner, 1977), mentre il moderno catechismo accetta che la salvezza possa essere conseguita da quanti, ignorando il Vangelo e la sua Chiesa, “cercano sinceramente Dio”. Nel 1966 Joseph Ratzinger, ancora nel pieno del suo periodo progressista, scrisse righe che sarebbero potute uscire dalla penna di Simone Weil e forse ne furono influenzate:
“[…] che cosa deve avere propriamente un uomo per essere un ‘cristiano’? Il Nuovo Testamento dà in proposito due risposte complementari […]. La prima risposta suona così: chi ha l’amore, ha tutto. Esso basta pienamente, del tutto, incondizionatamente. […] Il ‘sacramento del fratello’ si presenta qui come l’unica via sufficiente della salvezza, il fratello uomo appare qui come quell’ ‘incognito di Dio’, in base al quale si decide il destino di ciascuno: ciò che salva un individuo non è il suo conoscere il nome del Signore, poiché da lui si richiede un rapporto ed un incontro ‘umano’ col Dio nascosto nell’uomo […]. Questa conclusione liberante, che è senza condizioni da parte di Dio (senza alcun ‘se’ e ‘ma’), si imbatte però poi semplicemente in un ‘ma’ da parte dell’uomo […]. Nessuno ha realmente l’amore. Tutto il nostro amare è sempre bacato e deformato dall’egoismo […] Qui si inserisce la seconda risposta del Nuovo Testamento, che dice: di diritto saremmo condannati, ma Cristo copre con la sovrabbondanza del suo amore di rappresentanza il deficit della nostra vita. Solo una cosa è necessaria: che apriamo le braccia ed accettiamo il dono della sua benevolenza. Questo movimento dell’aprirsi al dono dell’amore di rappresentanza del Signore è chiamato da Paolo ‘fede’”
(Ratzinger, 1971).
Ebbene, si confronti questa considerazione con il brano sopra citato: “Dio solo è capace di amare Dio. Noi possiamo unicamente acconsentire a perdere i nostri sentimenti per lasciare nella nostra anima un varco a quell’amore”. L’accordo non potrebbe essere più completo. E non dipende dal fatto che queste verità siano sempre state parte del depositum fidei, perché tutta la storia della Chiesa le ha smentite. Dobbiamo piuttosto riconoscere che si sta verificando un autentico miracolo: la Chiesa di Roma sta diventando ogni giorno più simile a quella sognata e auspicata da Simone Weil, si sta weilizzando, perché la via proposta dalla filosofa francese non è una possibilità tra le tante, ma la prefigurazione della Chiesa del futuro. La sua “teologia della croce”, dove la gloria della resurrezione non appare mai ma lo sguardo resta fisso sulla soglia del sepolcro, incarna la condizione umana dell’età contemporanea, immersa in un eterno Sabato Santo, sospesa tra il non più e il non ancora. In questa Chiesa del futuro, non più vanamente “trionfalista”, un ruolo determinante avranno i “nuovi santi”, espressione di una “santità nuova” che Weil immaginava come “analoga a una nuova rivelazione dell’universo e del destino umano”. Cosa dovrebbero fare i nuovi santi? Nient’altro che “portare alla luce una lunga porzione di verità e di bellezza fin qui dissimulate da uno spesso strato di polvere”. Eppure, si tratta di un compito che richiede “maggior genio di quanto ne sia servito ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica”.
Pare che Paolo VI si sia rammaricato del suo mancato battesimo che le avrebbe permesso di essere proclamata santa. Ma quello che non è stato non è detto che non sarà, perché la santità nuova deve ancora materializzarsi. Simone Weil in questo senso è la prima nuova santa, perché tutta la sua vita è stata dedicata a cambiare la direzione degli ingranaggi del mondo, orientandoli verso un nuovo fine, come ha efficacemente spiegato Giancarlo Gaeta – il suo massimo esegeta italiano – nella postfazione del libro (Un infinitamente piccolo):
“Ciò che per lei conta non è perciò che la nostra civiltà sia formalmente cristiana, ma che al centro della vita sociale come al centro dell’anima ci sia quel minimo che fa la differenza tra un lavoro che consente l’accesso alla bellezza del mondo e uno che lo preclude; tra un’applicazione allo studio che accresce il potere d’attenzione, la stessa «che, orientata verso Dio, è la sostanza stessa della preghiera», e una finalizzata al puro successo scolastico; tra una ricerca scientifica permeata dallo spirito di verità e una che considera l’oggetto dello studio come al di fuori del bene e del male; tra il collocare la fonte d’ispirazione dell’opera d’arte nel bene assoluto volgendo il desiderio solo ad esso e il cercarla nei beni di questo mondo; tra un impegno nella vita pubblica mosso dall’obbligo di rimediare per quanto possibile «a tutte le privazioni dell’anima e del corpo suscettibili di distruggere o di mutilare la vita terrestre di qualunque essere umano» e uno dominato dallo spirito di partito”
(Gaeta, in Weil, 2024).
- Francesco, Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, 2013.
- Giancarlo Gaeta, Un infinitamente piccolo, in Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2024.
- Joseph Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia, 1971.
- Karl Rahner, Corso fondamentale sulla fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1977.
- Simone Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano, 1990.
- Simone Weil, Quaderni, vol. IV, Adelphi, Milano, 1993.
- Simone Weil, André Weil, L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018.
- Simone Weil, La condizione operaia, SE, Milano, 2020.
- Simone Weil, I Catari e la civiltà mediterranea, Marietti 1820, Bologna, 2021.
- Simone Weil, Venezia salva, Adelphi, Milano, 2022.