Il bellissimo quadro che onora la copertina de La città condannata, romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij recentemente pubblicato da Carbonio Editore nella eccellente traduzione di Daniela Liberti, è omonimo del romanzo e ne fu fonte d’ispirazione. Il titolo difatti venne scelto dai fratelli quando ebbero modo di ammirare il dipinto, che li colpì profondamente. L’autore, Nikolaj Konstantinovič Rerich (o Roerich, a seconda delle differenti traslitterazioni), che lo dipinse nel 1914, fu una delle più importanti figure dell’arte russa tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Figlio dell’alta borghesia russa, fu un eclettico intellettuale dedito alle attività più disparate: la sua biografia include la realizzazione della coreografia dell’Uccello di Fuoco di Igor Stravinskij, oltre settemila dipinti, un numero incalcolabile di scritti e traduzioni inerenti ai temi più diversi, l’appartenenza alla Società Teosofica e soprattutto molti anni di viaggi e di studio in Asia, soprattutto in Mongolia e nella regione himalayana, che ha percorso sia nel versante tibetano che in quello nepalese e indiano, dove si stabilì e rimase fino alla morte, che lo colse a Kullu, nell’Himachal Pradesh, dove è tutt’ora sepolto. Boris Strugackij, nella postfazione, ricorda che originariamente per il romanzo erano stati ipotizzati titoli differenti, sia diretti a sottolineare gli aspetti più evidentemente autobiografici, come Mio fratello e io, sia indicanti la problematica escatologica, come Nuova Apocalisse, prospettiva presente in questo lavoro come nella maggior parte dei loro romanzi. La visione dell’opera di Rerich invece, ricorda Boris, “ci aveva colpito per la sua cupa bellezza e per il senso di disperazione che da essa promanava”, decretando così nel 1969 la scelta del titolo definitivo.
In effetti quadro e intestazione in un certo senso emettono già una sentenza inappellabile, e la loro importanza è tale perché si tratta dell’unico elemento che mantiene una direttrice interpretativa costante per tutto il testo, senza essere mai dimenticato ma nemmeno aggredito in modo diretto. Come il lettore scoprirà presto procedendo nella lettura, se si escludono i personaggi principali intorno a cui ruota la narrazione, tutti gli altri elementi sono transitori, appaiono e scompaiono, dando l’apparenza di una centralità inesistente, e dimostrandosi solo fuochi fatui di una certezza e di una verità nei fatti irraggiungibili. Solo il titolo, e la sua inesorabile sentenza, indicano il cammino seguito dagli autori.
L’apertura del romanzo si attiene all’innegabile sense of humor che gli autori hanno dimostrato in molte occasioni (nonostante la drammaticità dei temi). Durante la lettura delle prime pagine sembra di assistere al racconto di una facezia: abbiamo un russo, un cinese, un americano, e li incontriamo impegnati nel loro mestiere di netturbini, mentre raccolgono immondizia, tra l’altro in modo abbastanza maldestro. Inizia così una sequenza di diversi approcci, di accadimenti, mutamenti, dialoghi, che procede per gran parte del romanzo. Tutto appare come se ruotasse attorno alle questioni poste, invece di procedere in linea retta, così da avvicinarle e affrontarle. Andrej Voronin, il personaggio principale, è un astronomo originario di Leningrado, e in un certo senso è un alter ego degli autori. Vi sono delle affinità con Boris, che effettivamente è un astronomo e vive a Leningrado, ma certamente non si può dire che le idee di Andrej rispecchino le sue, mentre invece possiamo riconoscere delle relazioni tra l’autore e le disavventure del suo personaggio.
Andrej nel corso del romanzo compie una sorta di via crucis, un cursus honorum simboleggiato dai numerosi cambi di mestiere a cui è costretto. Nel tempo si ritrova così a incarnare il netturbino, poi l’inquirente, il redattore e infine il signor consigliere, figure che corrispondono a una sorta di suddivisione in capitoli del romanzo. Potrebbe sembrare che si tratti di un percorso, di un cammino iniziatico, ma il lettore realizza rapidamente che in verità non si sta avvicinando a nulla, che nessuna tesi viene dimostrata e che non vi è alcun ordine da scoprire nel caos del mondo.
Il romanzo intero è invaso di eventi spesso ben oltre la logica, a partire dai branchi di babbuini in rivolta fino alle statue che camminano, un sole che si accende e spegne improvvisamente come fosse una lampadina, l’architettura stessa della città che è pervasa di qualcosa al limite del demoniaco. Le due ultime sezioni, Discontinuità ed Esodo, riguardano quella che apparentemente potrebbe apparire come una ricerca risolutiva, quella dei confini della città, dell’anti-città e della possibilità di ritornare alla vita reale, qualsiasi cosa questo voglia dire, ma anche in questo caso è presto evidente quanto tutto ciò non abbia alcuna possibilità di sfuggire al delirio e all’insensatezza che penetrano in ogni cellula della vita stessa. Gli autori giocano con il lettore, presentando continuamente elementi appartenenti alla rappresentazione in corso come se fossero risolutivi, per poi abbandonarli subito dopo al loro destino.
Il deus ex machina dell’intero romanzo è l’Esperimento: causa, modello e obiettivo della storia, ciò a cui tutti appartengono e a cui tutti contribuiscono. Non tutti sono prigionieri, anzi, molti sono volontari, che hanno deciso autonomamente di aderire all’Esperimento. Questo è una sorta di sistema orwelliano, ed è una evidente e inevitabile metafora del regime sovietico, analogamente al Direttorio descritto ne La chiocciola sul pendio. Ma qual è l’obiettivo (il fine, ma anche la causa) per cui esiste l’Esperimento? Chi lo ha iniziato dichiara esplicitamente che è uno strumento diretto alla costruzione di una società nuova, migliore. È a questo punto palese il parallelo con il comunismo realizzato dell’URSS. Sempre nella postfazione Boris Strugackij ribadisce la drammaticità della condizione umana in cui gli scrittori erano costretti, rinchiusi nelle maglie della censura esercitata dal regime sovietico.
Racconta per esempio per cui una sola copia di Vita e destino di Vasilij Grossman si salvò dalla distruzione ordinata dal regime, e di come quell’unica copia sopravvissuta ci permette oggi di leggere quel capolavoro. Racconta anche della necessità di attivare mille precauzioni per evitare non solo di essere arrestati, ma soprattutto di non vedere distrutto il frutto del proprio lavoro. Boris dice esplicitamente:
“Lo scopo principale del nostro romanzo, non da subito, ma gradualmente, ha assunto la forma seguente: mostrare come, sotto la pressione delle circostanze della vita, la concezione del mondo di un giovane uomo cambi radicalmente, come passi da una posizione di fanatico irremovibile, alla condizione di chi sembra essere sospeso, per così dire, in uno spazio ideologico completamente vuoto, senza il minimo appiglio sotto i piedi”.
Un vuoto in cui precipita l’intera generazione vissuta nel periodo tra il 1940 e il 1985. Una generazione costretta a riconoscere l’assenza esistenziale in cui si ritrovava, caratterizzata dalla distanza apertasi tra la realtà e un ideale di vita, per l’unico motivo che il proprio è crollato sotto i colpi della burocrazia, del controllo e del regime. Proprio per questo sarebbe estremamente riduttivo leggere il romanzo unicamente in termini di critica sociale. Per quanto questo tema sia chiaramente la sorgente da cui ha avuto origine il loro pensiero, il dato di realtà con cui è stato necessario confrontarsi, è altrettanto vero che le questioni politiche e filosofiche che riguardano il modo in cui un popolo e un governo dovrebbero condividere la gestione della cosa pubblica sono costantemente presenti nella loro opera, indipendentemente dalla forma assunta dal regime esistente, come emerge, per esempio, da È difficile essere un Dio. L’Esperimento è una metafora del regime, certamente, ma una analoga formulazione si può applicare a tutte le forme di governo che il genere umano ha tentato di applicare nella sua storia.
Degna di nota particolare è la ricerca dei confini della città, della definizione dei limiti del territorio, che si scoprono essere frontiere fisiche e materiali ben definite: l’abisso a ovest e il muro giallo a est. Anche in questo caso, analogamente ad altre opere dei fratelli Strugackij, emerge il concetto di Zona, un territorio isolato dove le regole del mondo condiviso non valgono più e vige invece un sistema di norme e valori autonomo. La spedizione che appare nella sezione intitolata Discontinuità ha come obiettivo esplicito quello di raggiungere i limiti, e a questo si aggiunge la ricerca dell’anticittà, dove si dovrebbe presentare il nemico, un qualsivoglia nemico, proprio perché è ben noto ai promotori dell’Esperimento che “l’avversario più difficile è quello inventato”.
I fratelli Strugackij: da sinistra Arkadij e Boris.
Gli orrori della guerra, la assoluta assenza di rapporti umani degni di questo nome, la degenerazione bestiale dei comportamenti, e di conseguenza morte, dolore e follia. Poche righe sono sufficienti a delineare il senso del cammino di Andrej Voronin, nella sua incarnazione come signor consigliere. È in queste pagine che i fratelli Strugackij toccano uno dei vertici letterari della loro opera, raggiungendo un toccante lirismo mentre raccontano la drammaticità dell’assedio nazista di Leningrado, i novecento giorni di resistenza della popolazione, completamente allo stremo, vittima dell’inverno russo, oltre che della fame. Tuttavia, il racconto della tragedia reale è solo il preambolo per quella simbolica e narrata. Il continuo ripetersi del mantra esplicativo, la risposta a qualsiasi domanda, “L’Esperimento è l’Esperimento” altro non è se non la vuota e annaspante espressione di una umanità senza alcuna speranza. La città condannata si dimostra infine fedele al suo titolo, e non lascia alcuna aspettativa di una chiusa salvifica, o perlomeno positiva. Arkadij e Boris Strugackij hanno così dato voce a una delle più drammatiche testimonianze della durezza e del rigore propri non solo del regime sovietico, ma di ogni regime, dove la volontà e la creatività delle persone vengono affossate, trasformando in un servo anche il migliore degli uomini.
- Arkadij e Boris Strugackij, È difficile essere un dio, Marcos Y Marcos, Milano, 2015.
- Arcadij e Boris Strugackij, La chiocciola sul pendio, Carbonio Editore, 2020.