“Il cinema horror è un eccellente sismografo, in grado di registrare le oscillazioni minime dell’immaginario, aderendo a paure collettive e suggestioni pre-traumatiche […]”.
Questa dichiarazione di intenti è l’alfa e l’omega del saggio Antropocene horror di Fabio Malagnini, è – potremmo dire – il suo core business. Si tratta perciò di una economia delle passioni: l’immaginario può essere pensato come un grafico, con il tempo sulle ascisse e l’inconscio sulle ordinate, scoprendo che le oscillazioni dei dati visualizzate dal sismografo sono provocate dagli eventi del mondo. Un economista, connesso dal suo computer e seduto a un tavolo in qualsiasi luogo del pianeta, potrebbe perciò parlare di stop loss e stop sell, di appoggi e rimbalzi, usando così il linguaggio della speculazione, avendo ben chiara la relazione esistente tra dinamiche di borsa, ricerca scientifica e generazione di immaginario, ovvero l’uso di modelli analoghi e sostituibili. D’altronde, se è pur vero che sin dalle origini della macchina dei sogni (in questo caso parleremo di incubi) il cinema horror riflette gli umani terrori amplificati sul grande schermo, in questo volume Malagnini cerca di focalizzare lo sguardo critico, riducendo l’angolo di indagine e rivolgendosi principalmente a quella particolare liaisons dangereuses che, a causa della crisi climatica, si è instaurata nel contemporaneo. L’avvicinarsi sempre più rapido dell’inevitabile, generando un nuovo universo di paure e incubi, ha contestualmente aperto le porte a un cinema per certi versi del tutto nuovo.
Mostri, virus e mutazioni, come recita il sottotitolo del volume, assumono una misura e una formula che non si era mai vista: l’intero immaginario viene riscritto. Ciò che fino a pochi decenni or sono era legato alla religione, al suo ruolo e alla sua opposizione (i demoni), oppure al mondo del vivo / morto, come zombie e spiriti, o anche a una natura si aliena ma in un certo qual modo depositaria di una sua verità archetipa, creatrice di animali in rivolta, da King Kong a Jaws, tutto ciò deve essere in un certo qual modo riscritto, perché è improvvisamente diventato datato, superato dalla realtà stessa. Dopo Chernobyl e Fukushima nasce una visione del mondo per cui la prospettiva di disastro ambientale è approdata al qui ed ora, e non più spostata indefinitamente lontano nel tempo o nello spazio. Terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche, asteroidi in avvicinamento, epidemie inarrestabili, insomma ogni forma di catastrofe è approdata nella nostra quotidianità, che d’altronde – vedi il caso emblematico di Don’t look up! (McKay, 2021) – fa quanto è in suo potere per restare imperturbabile e continuare con la sua indifferenza borghese. Certamente questo diventa complicato e di difficile attuazione se uno zombi ti sta divorando, oppure se sei infettato da un fungo mutante, se un asteroide sta per distruggere il tuo fast food preferito o infine se uno squalo preistorico infesta la tua spiaggia prediletta ingurgitando i tuoi parenti.
“Cadute le barriere geografiche, il contatto con il non umano è inevitabile, mostri o virus si spostano come noi nell’infrastruttura globale che ha riunito i continenti in una nuova Pangea”.
Modi e forme
Malagnini, metodicamente e con passione, si dedica alla tassonomia delle forme assunte dai nostri incubi antropocenici, e affronta questo compito definendo “tre ordini di ragioni”. Prima di tutto l’horror smantella l’impalcatura del nostro antropocentrismo: “l’uomo non è mai, in ultima analisi, il vero protagonista, ma solo il punto di ingresso che permette di calarci nella storia”. Ogni differenza tra noi e l’ambiente è abbattuta, e noi siamo gettati in un universo che non ha alcuna considerazione per noi.
In seconda istanza, alla deframmentazione delle categorie orizzontali speciali, si affianca la decostruzione di quelle verticali spaziotemporali, per cui ogni evento è hic et nunc, non vi è più nulla di antico o lontano: il nemico è qui, alle porte. Infine, conclude Malagnini, vi è da considerare che “il cinema horror è un genere a budget medio-basso” e questo suo costante contatto con un pubblico ampio lo rende appunto il sismografo ideale delle nostre paure. Definite queste coordinate, il volume procede attraverso il genere, a partire dal tema dell’Apocalisse zombie a cui è dedicato il primo capitolo. George Romero, David Cronenberg e poi The Walking Dead e The Last of Us, insieme a moltissimi altri sono sistematicamente incasellati in una visione complessiva del tema del contagio e dell’epidemia, comune a tutti questi autori. Sullo sfondo, capostipite del filone e riconosciuta fonte di ispirazione, si trova Richard Matheson e il suo Io sono leggenda (Matheson, 2020), che scopriamo essere una sorta di prequel del “pensiero eco pessimista odierno”.
Malagnini prosegue per ben otto sezioni la sua disamina decostruttiva del genere, proponendo all’ignaro lettore una incredibile quantità di titoli da affrontare, riuscendo nell’impresa di generare interesse e curiosità per ognuno di essi. L’indice dei film citati è una miniera, e rimane il sospetto che avrebbe potuto essere ancora più lungo. Lo sforzo tassonomico è imponente, pur nella coscienza della sua limitazione intrinseca, ma, affiancato a questo lavoro che va quindi ben al di là della sterile compilazione, si trova un altrettanto notevole apparato critico, che spazia nell’antropologia e nella filosofia che guardano al cuore dell’abisso antropocenico. Incontriamo quindi – in ordine casuale – James Frazer e Il ramo d’oro, Timothy Morton e la sua Ecologia oscura, Mark Fisher e il weird, Daevid Graber, Paul Shepard, Franco Berardi, Rachel Carson, Slavoj Zizek, Bruno Latour, Mark Bould, Fredric Jameson, Donna Haraway, Merlin Sheldrake, Philippe Descola, Edoardo Viveros de Castro, Reza Negarestani, Lynn Margulis, Antonio Caronia, per citare solo i più noti. Insomma, se è concessa una boutade, mancano solo i due liocorni, ma Malagnini dimostra competenza e classe proprio nel suo muoversi agevolmente e accuratamente di fronte a tanto scibile, cogliendovi quanto utile all’indagine, senza perdere mai di vista il suo intento.
Formule e categorie
Senza approfondire le particolarità, che comunque il lettore troverà ampiamente documentate, è però doveroso completare, almeno nelle linee essenziali, il percorso che l’autore descrive. Dopo l’Apocalisse zombie l’analisi, nel capitolo seguente, passa al cosiddetto folk-horror, dove individua quattro caratteristiche proprie del filone neopagano: il paesaggio, che è antropizzato ma rurale, agricolo; l’isolamento in cui vive la comunità, e che permette di individuare, controllare e reprimere ingressi e uscite; le credenze che, siano cristiane o meno, “ruotano comunque intorno a un dominus maschio […] che spesso tende a coincidere con il landlord”; l’evento, il sacrificio, che “perpetua il patto tra il potere degli dei e quello della comunità produttiva […]”. Con analoghi meccanismi vengono poi analizzati il Gotico cannibale, nel terzo capitolo, l’Animal horror, nel quarto, a seguire il mondo vegetale, Ecologia dell’orrore, per approdare infine nella uncanny valley e le sue Cartografie perturbanti. Sono centinaia i film e le opere qui citate, e su molti di loro sono state scritte intere bibliografie, a testimonianza della profondità dello sguardo che il cinema horror ha saputo rivolgere verso la realtà contemporanea. Dedichiamo però una particolare attenzione al capitolo finale, che riguarda il posthuman e il body horror. Nel mondo di celluloide il maestro indiscusso del sottogenere è David Cronenberg, che qui Malagnini convoca insieme al figlio Brandon, anch’esso regista.
“Nell’intreccio tra umano, animale e tecnologia prospettato da Cronenberg lo smarrimento è il sentimento che nuota verso di noi attraverso la metamorfosi post umana. […] Cronenberg ci offre il resoconto puntuale ma ancora compiacente di un cambiamento che, alla fine, vede sempre l’animale storico con la sua agenda al centro della scena, a interpretare se stesso e la sua post umanità. Una volta demistificata la Natura, non per questo scompare l’antropocentrismo”.
Obiettivi e conclusioni
Le ambizioni dell’autore però non si limitano certo alla classificazione, per quanto solidamente costruita. È la domanda intrinseca al tema stesso che deve essere posta sul tavolo, di fronte allo spettatore (e al lettore). Malagnini usando le parole de La grande cecità di Amitav Ghosh, testo cardine della letteratura antropocenica (cfr. Ghosh, 2017),
“[…] arriva alla conclusione che nell’Antropocene «il nostro passato è racchiuso nel presente» perché «gli eventi dell’odierno mutamento climatico rappresentano anche il capolinea della storia». È una conclusione che questo libro fa propria nella sostanza: quando parliamo di Antropocene stiamo in realtà ponendoci la domanda: «Come uscirne?»”.
Vi sono diversi modi per tentare di far emergere la risposta. Senza dubbio vi è una visione psicoanalitica, dove il concetto freudiano di perturbante aiuta a riconoscere la rimozione che compiamo di ciò che abbiamo di fianco e che riconosciamo come totale alterità. Vedere l’alieno nel tuo prossimo: questo è l’orrore, o almeno è anche questo. Ciò che rimane, compiuta la rimozione, e sublimato il nostro sentimento in un film, è quello slittamento di senso che deposita il perturbante, e che ci induce a notare la differenza tra reale e immaginario.
“Il fondatore della psicoanalisi si prenderebbe oggi sicuramente una rivincita, constatando la popolarità che il meccanismo della rimozione ha riscosso al cinema, ogni volta che la scena primaria riemerge nel presente storico, a perturbare la quotidianità del vissuto. […] I riferimenti a questo rimosso si presentano spesso nella narrativa horror dell’Antropocene come i conti in sospeso con l’ambiente e il contesto dei fattori climatici manomessi”.
Vi è inoltre una risposta linguistica:
“[…] ci si interroga sulla nostra destinazione come specie, ma sfuggono ancora le nostre responsabilità come «potenza geologica». Questa consapevolezza, in concreto non è garantita neppure oggi dai termini del discorso – Antropocene, specie, postumano – che appaiono subito insufficienti e indeterminati […]”.
Siamo sempre all’interno dell’Antropocentrismo, quindi, e così come abbiamo costruito questa terminologia, ci chiediamo, insieme a Jeffrey Jerome Cohen (in Iovino, 2016),
“e se né la parola né il mondo fossero così passivi? Cosa succederebbe se il linguaggio fosse una interfaccia ecologica, che risuona di attività non umane?”
Ed è di fronte a queste domande che l’analisi si conclude, con l’ambizioso tentativo di individuare non tanto dei discorsi prossimi, quanto delle immagini, dei film che ci possano proiettare su nuove relazioni, nuovi organismi. Questi sono Jacob’s Wife, di Travis Stevens (2021), Non sarai sola, di Goran Stolevski (2022), Titane di Julia Docournau (2021). Come si vede tre opere recentissime, in cui vede incarnarsi quell’essere liminale che va cercando.
“Film al termine di un percorso […] Film per cominciare a familiarizzare con i pezzi di un immaginario che […] già pulsa nel recondito del nostro inconscio sovraindividuale […]”.
- Jerome Cohen, Posthuman Environs, in Serenella Iovino (a cura di) Environmental Humanities, New York, 2016.
- Amitav Ghosh, La grande cecità, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
- Richard Matheson, Io sono leggenda, Mondadori, Milano, 2020.
- Frank Darabont, The Walking Dead, 11 stagioni, Fox – Disney+, 2010-2022.
- Julia Docournau, Titane, I Wonder Pictures, 2021.
- Craig Mazin, Neil Druckmann, The Last of Us, stagione 1, HBO, 2023.
- Adam McKay, Don’t Look Up!, Netflix, 2021.
- Travis Steven, Jacob’s Wife, Alliance Media Partners International, 2021.
- Goran Stolevski, Non sarai sola, Universal Pictures, 2022.