La parete di legno di jarrah, di un marrone-grigio screziato da ampie sfumature rossastre, è massiccia e compatta. Quattro contrafforti verticali a gradini la scandiscono, evocando senza sforzo l’ingresso della tomba di Atreo a Micene. Sopra la porta, una finestra rettangolare incornicia una campana di cemento, tozza e grezza. È legata a una doppia fune, infilata in un anello di ferro. Citazione oggettuale, materica, plateale della Meditation XVII di John Donne: “Ogni morte d’uomo mi avvilisce, dacché vivo immischiato nel genere umano. E allora non star lì a chiederti per chi suona la campana: è per te che lei suona” (Donne, 2016, traduzione dell’autore, ndr). L’invito è silenzioso: il visitatore può afferrare la fune e suonare la campana. Forse. O forse no. Dipende da lui/lei, dal suo intuito, dall’istinto, dalla sua intraprendenza. Se la suona, i rintocchi pesanti, inusuali annunciano il suo ingresso nello spazio fuoritempo del giudizio finale. Subito, di fronte, tra due colonne di classica proporzione è la Porta della Morte: solenne, socchiusa, invitante. Solo il basamento, di sproporzionato spessore, accenna all’ultimo sforzo necessario per il passaggio estremo. A ciascuno il suo.
Anthony Caro, The Last Judgement Sculpture, Ausstellungsansicht Gemäldegalerie 2019, Sammlung Würth, ©Barford Sculptures Ltd, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie / David von Becker.
The Last Judgement Sculture è un’installazione di teatrale suggestione di Anthony Caro (1924-2013), scultore britannico astrattista della generazione successiva a Henry Moore (di cui fu assistente negli anni Cinquanta), tra i più affermati e celebrati artisti del secondo Novecento, soprattutto a partire dagli anni Sessanta. La prima personale si tenne alla Galleria del Naviglio a Milano nel 1956, e presenziò più volte alla Biennale di Venezia, dal 1966 in poi. In Italia, però, le sue opere hanno incontrato in buona sostanza un interesse senza clamori, e quindi una ridotta visibilità, se si eccettuano due retrospettive: una più site specific nel 1992 ai Mercati Traianei a Roma e l’altra più antologica nel 2013 al museo Correr, ancora una volta a Venezia.
A vent’anni dalla presentazione ufficiale di The Last Judgement Sculture a Venezia nel 1999, la Gemäldegalerie di Berlino ha voluto riproporne la visionarietà tardonovecentesca e metterla in diretta relazione con dieci quadri della collezione permanente del museo, quattro dei quali dedicati al Giudizio Universale.
A sinistra: Lucas Cranach Il Vecchio – Das Jüngste Gericht (1525 circa, copia da un originale di Hieronymus Bosch all’Akademie der Künste di Vienna). Al centro: Petrus Christus – Das Jüngste Gericht (1452). A destra: Beato Angelico: Il Giudizio Universale (1435-1440).
Quattro finestre sull’Apocalisse, aperte da pittori di rango come l’italiano Beato Angelico, i fiamminghi Petrus Christus e Jean Bellegambe (ma vissuti a sessant’anni di distanza) e il tedesco Lucas Cranach il Vecchio (con una copia del celebre trittico, denso di orrori chirurgici, di Hieronymus Bosch conservato a Vienna). Dall’alto medioevo fino al pieno Seicento, la divina tentazione di proiettare in anteprima l’ultimo spettacolo dell’umanità ha sfidato l’immaginazione e alimentato l’ambizione figurativa di tanti grandi pittori, e non solo per questioni didattiche e/o edificanti. Perché non trasmettere ai posteri la visione estrema, la voragine caotica e folgorante di ogni vicenda umana prima della sparizione del mondo? Ci si sono cimentati, tra gli altri, Giotto, Hennequin de Bruges (per i cartoni dell’arazzo di Angers), Rogier van der Weyden, Bosch, Luca Signorelli, Dürer (le quindici incisioni dell’Apocalipsis cum figuris), Michelangelo, Bruegel, El Greco e buoni ultimi Rubens e Jordaens. Dopodiché, con il suo fresco scetticismo, il laico, libertino, enciclopedico Settecento ha dato un poderoso colpo di spugna all’immaginario escatologico della Rivelazione, ne ha depotenziato il senso letterale, ha storicizzato le verità profetiche dell’evangelista Giovanni e le ha derubricate a invettive simboliche per rimettere in riga le comunità dissidenti e/o dissolute del suo tempo. Col secolo dei Lumi, dalla giustizia divina della Rivelazione s’è arrivati a quella umana della Rivoluzione, e i giudizi finali si son fatti in terra, anziché in cielo.
Anthony Caro, The Last Judgement Sculpture, Ausstellungsansicht Gemäldegalerie 2019, Sammlung Würth, ©Barford Sculptures Ltd, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie / David von Becker.
Il progressivo affievolirsi del ruolo devozionale e didattico della pittura sacra ha fatto il resto, e dopo il contorsionista Jacob Jordaens, praticamente nessun pittore di chiara fama internazionale s’è più cimentato nel reportage del gran finale del genere umano.
Unica eccezione a metà Ottocento, l’inglese John Martin: l’immaginifico pittore postromantico, specializzato in spettacolari sfracelli della natura e infocati cataclismi della storia e della Bibbia, tra 1851 e 1853 (un anno prima di morire) dipinge il trittico del Giudizio Universale, dove minimizza il côté religioso, lasciandolo sullo sfondo, e spinge il pedale della suggestione sulla grandiosità sublime degl’interminati spazi della natura.
Sarà un successone: subito dopo la sua morte, il trittico andrà in tournée nei musei e nelle gallerie di tutto il Regno Unito, con tanto di letture ad alto pathos, programmate in ore serali alla luce delle lampade a gas per aumentarne la suggestione. E svilupperà un proficuo mercato di stampe e riproduzioni, tanto da approdare anche a New York e in Australia e arrivare alla cifra record (pare) di otto milioni di visitatori. In soldoni, un lontano antenato dei film apocalittici hollywoodiani: dove, giusto per stare al passo coi tempi, l’antica paura della collera divina e del suo castigo implacabile per l’umanità scellerata viene soppiantata dal terrore puro della persecuzione accanita degli angeli spietati sui tripodi catapultati dallo spazio profondo, come nel cupo La guerra dei mondi di Steven Spielberg. Dopo Martin (e se si tralascia la potente Guernica di Pablo Picasso), ci vuole un altro secolo e mezzo ancora, ed è a questo punto che ritroviamo il nostro Anthony Caro: disposto più a passeggiare tra le rovine delle cicliche apocalissi umane, che non a rappresentare l’arrivo catartico di un’impossibile giustizia ultraterrena.
Anthony Caro, Civil War (The Last Judgement Sculpture), 1995-1999, Beton, Holz, Messing und Stahl, Sammlung Würth, Inv. 5434, ©Barford Sculptures Ltd. Foto: David Buckland.
Sollecitato dal riemergere della guerra entro i confini europei nell’ultimo scorcio del Novecento (i conflitti jugoslavi degli anni Novanta), Caro concepisce un ambizioso testamento culturale di fine millennio, in nome del quale vira a 180° dall’ispirazione astratto-formale a una pratica figurativo-simbolica. E organizza un pellegrinaggio silente tra i simulacri delle civiltà europee, in un lungo spazio a navata delimitato da 25 installazioni, al tempo stesso cappelle sconsacrate e armadi da rigattiere, dove si celebra un’arte heavy metal, tutta di materiali industriali e grezzi, di acciaio, ferro, legno, ceramica, cemento.
Qui riporta a galla miti greci, icone cristiane, incubi storici, pietre miliari delle culture europee del secondo millennio, da Dante Alighieri a William Shakespeare a Thomas S. Eliot, in uno sforzo di sintesi e d’ispirazione, con cui s’impegna a contrastare l’irrisione programmatica e la rinuncia di tanti linguaggi artistici di fine millennio a incidere su coscienze storiche e collettive sempre più informate e sempre meno consapevoli.
L’invito per tutti è quello di ri-collocarsi nel teatro della propria coscienza storica e culturale: di riprendersi la parte di protagonisti del proprio destino e di cercarvi il filo conduttore nella foresta di simboli e di corrispondenze dell’apocalittico quotidiano, senza mai lasciarsene sopraffare.
- John Donne, Devotions Upon Emergent Occasions: Together With Death’s Duel, Ann Arbor, The University of Michigan Press, USA, 2016.
- John Martin, Apocalypse at Tate Britain, 6 settembre 2011.
- Steven Spielberg, The War of Worlds, Universal Pictures Video, 2015 (home video).