Non risposte, ma domande:
i paradossi zen della fisica

Anthony Aguirre
Zen e multiversi
Traduzione di Luisa Doplicher

Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020
pp. 462, € 29,00

Anthony Aguirre
Zen e multiversi
Traduzione di Luisa Doplicher

Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020
pp. 462, € 29,00


Ci sono due modi di rappresentare l’universo: il primo è un grande macchinario fatto di ruote e pulegge, leve e piani inclinati, corrispondente alla visione di quella che oggi chiamiamo “fisica classica”; il secondo è un koan zen, un paradosso in cui due o più affermazioni apparentemente contradditorie si rivelano misteriosamente equivalenti. Non bisogna scomodare un precedente controverso e dibattuto come Il Tao della fisica di Fritjof Capra (1975) per datare il momento in cui questa rappresentazione dell’universo ha iniziato ad affermarsi. Basterebbe ricordare la passione di Niels Bohr per il simbolo taoista dello yin e dello yang, che lo spinse a elaborare il suo principio di complementarità per spiegare il paradossale dualismo onda-particella della meccanica quantistica, o classici come La scienza e il mondo invisibile (1929) di Sir Arthur Eddington e L’universo misterioso (1931) di Sir James Jeans, entrambi fisici rigorosi, per comprendere quanto questa rappresentazione sia ampiamente coltivata da una parte per nulla disprezzabile della comunità dei fisici teorici.
A testimoniarlo è Zen e multiversi, il libro di Anthony Aguirre che non si prefigge di “mettere a confronto la fisica e il misticismo orientale, né fonderli o equipararli, come è stato fatto” (dopo Capra, questi tentativi ‘concordisti’ hanno avuto enorme successo nella divulgazione scientifica, da La danza dei maestri Wu Li di Gary Zukav a testi più recenti come La pienezza del vuoto di Trinh Xuan Thuan), quanto piuttosto dimostrare come oggi la fisica teorica abbia bisogno, “come nello zen”, di giungere “a una comprensione profonda scardinando gli schemi di pensiero precedenti e adottando un punto di vista davvero nuovo sul problema”.

 

Che poi, a ben pensarci, è ciò su cui si basa il moderno metodo scientifico, a partire da Galileo, a cui non a caso sono affidati alcuni dei passaggi “narrativi” del libro, cinquanta brevi capitoli ciascuno dei quali aperto da un piccolo racconto in stile koan ambientato nel XVII secolo tra Oriente e Occidente. Fino a oggi, la nostra comprensione dell’universo si è evoluta grazie alla messa in discussione del nostro ordinario punto di vista. Eppure, sembra suggerire Aguirre, facciamo oggi più fatica che in passato ad abbracciare visioni paradossali che possano portarci più lontano; da qui l’esigenza di “risvegliare” il nostro gusto per il paradosso e vedere fin dove può portarci.

“E tutto quel che sai è quello che non sai”
John Wheeler
era uno di quelli che non si risparmiava, quando si trattava di fare affermazioni paradossali. Le sue teorie sulla schiuma quantistica, i wormhole, le particelle che si muovono indietro nel tempo, gli esperimenti di scelta ritardata e, non ultima, l’evocativa ipotesi secondo cui la realtà sia essenzialmente informazione forse non si sono tutte rivelate corrette, ma hanno fatto compiere passi da gigante alla nostra comprensione della realtà. Aguirre cita un semplice “esperimento mentale” di Wheeler: una persona deve indovinare una parola che sa che i partecipanti al gioco hanno deciso di comune accordo in precedenza; ciò che questa persona in realtà non sa è che i partecipanti non si sono messi d’accordo sulla parola da indovinare, ma solo sul metodo: risponderanno alle domande del giocatore in modo libero ma, man mano che il gioco va avanti, vincoleranno le loro risposte a quanto hanno risposto gli altri in precedenza, cosicché possa emergere, alla fine, una sola parola, non definita all’inizio, ma “co-creata” in modo partecipativo da tutti i giocatori.
Alla base di questo esperimento c’è una domanda, tanto semplice quanto fondamentale, le cui conseguenze sono state efficacemente sintetizzate da Roberto Calasso: “Se i costrutti matematici fossero invenzioni, il mondo esterno sarebbe una perpetua allucinazione. Se i costrutti matematici fossero scoperte, il mondo esterno sarebbe una prosecuzione della mente con altri materiali” (Calasso, 2016). Il dilemma più profondo su cui si interroga Aguirre nel suo libro è proprio quello che riguarda la natura della matematica. È un tema su cui è in buona compagnia.

Lo ha trattato, per esempio, il suo collega Max Tegmark nel suo libro L’universo matematico (2014): Aguirre e Tegmark hanno fondato insieme, nel 2005, il Foundational Questions Institute (per gli amici, FQXi), audace pensatoio in cui fisici e filosofi avanzano le loro idee sulla natura fondamentale della realtà, e le domande sulle basi matematiche dell’universo sono tra quelle più gettonate. Anche il Nobel fresco di nomina Sir Roger Penrose ne ha discusso in apertura alla sua imponente e audace sintesi La strada che porta alla realtà (2004), dichiarandosi platonico e convinto assertore dell’esistenza di un iperuranio dove risiedono i costrutti matematici. Ma tutto partiva dal celebre e breve saggio di Eugene Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali (1960), un tema che nel suo libro Aguirre riassume così:

“Come fisico, non smetto mai di stupirmi che si possa considerare una situazione nel mondo reale, rappresentarla matematicamente, poi fare un po’ di matematica pura, righe e righe di matematica, tralasciando quasi del tutto il mondo fisico, e infine ritradurre la matematica in un enunciato sul mondo fisico. E quell’enunciato sarà vero”.

Wheeler era particolarmente attratto dall’idea che, a differenza della rappresentazione meccanicistica e copernicana dell’universo, la realtà fondamentale prevedesse qualche ruolo per la coscienza e quindi per l’essere umano. Questa idea, foriera di facili deviazioni pseudoscientifiche, è sempre stata guardata con sospetto dagli scienziati più rigorosi, ma per molti fisici teorici non è mai stata un tabù. L’esperimento mentale del gioco della parola segreta esemplifica la sua visione del mondo: le leggi non sono là fuori, in attesa di essere scoperte, ma sono il frutto di un processo di co-creazione tra l’intelligenza umana e la natura. Aguirre si spinge lungo questa strada. È vero, osserva, che esistono leggi e verità valide anche prima della nascita degli esseri umani; ma ciò non vuol dire che significhino qualcosa. Esistenza e significato non necessariamente coincidono.

“Gli uomini non sopportano troppo la realtà”
Tanto l’indeterminismo della meccanica quantistica, che esclude l’esistenza di uno stato “fondamentale” della realtà alla scala microscopica, quanto l’entropia, che impone per gli oggetti macroscopici (come gli esseri umani) un’esplicita asimmetria tra passato e futuro, che sembrerebbe non esistere alla scala fondamentale, dove i fenomeni fisici sono simmetrici per inversione temporale, pongono stringenti limiti al nostro desiderio di una conoscenza oggettiva e omnicomprensiva del mondo.

Di fronte a tali limiti, il sogno positivista dell’Uomo moderno si scontra con crescente frustrazione; ma un monaco zen del XVII secolo ci inviterebbe a discutere del problema di fronte a una tazza di tè, e lo risolverebbe con un koan. Accetterebbe l’idea che non sia possibile guardare il mondo dal di fuori, assumendo “l’occhio di Dio”, ma solo dal di dentro; e questo implica l’accettazione di una realtà paradossale, che emerge dai diversi punti di vista situati nel mondo. La logica conseguenza di questo approccio è tuttavia il solipsismo. “Come faccio a sapere che non è tutto un trucco?”, è la domanda che Aguirre si pone a un certo punto. Se non c’è una realtà fondamentale, lì fuori, come facciamo a essere convinti di quel che esperiamo?
Prendiamo la macchina di Turing universale, questo computer ideale che è in grado di emulare qualsiasi altra macchina di Turing. Se, in linea teorica, ogni algoritmo è computabile dalla macchina universale, ciò potrebbe valere anche per noi esseri umani. Max Tegmark sostiene per esempio che la simulazione dell’intero universo non sia, in linea teorica, impossibile. Aguirre sembra pensarla diversamente: sappiamo che esistono problemi non-Turing completi, ossia che una macchina di Turing non sarebbe in grado di emulare a meno di non riprodurre ogni minimo elemento del problema, cosa impossibile a livello computazionale.
L’essere umano e la sua coscienza sembrano appartenere a questo ordine di problemi. Non è possibile ottenere una copia perfetta di noi stessi, perché se producessimo un’emulazione solo approssimata di certo non funzionerebbe e morirebbe nell’arco di un istante. Una copia perfetta e indistinguibile dall’originale, tale per cui ciascuna di esse fosse convinta di essere l’originale, dovrebbe raggiungere un livello di emulazione alla scala quantistica. Ma questo non è possibile. Ce lo dice il teorema di non clonazione (no-cloning), che è una semplice derivazione del principio di indeterminazione: uno stato quantistico non noto a priori non è “clonabile” perfettamente (cosa che peraltro sembra porre un vincolo invalicabile al sogno del teletrasporto). Che importanza ha tutto questo? Innanzitutto, è una messa in discussione dell’idea, esplorata da Aguirre, del multiverso, così tanto di moda. L’ipotesi che esistano innumerevoli o infiniti universi paralleli, molti dei quali peraltro possiederebbero delle copie pressoché identiche di ciascuno di noi, è senz’altro un modo efficace di “pensare fuori dagli schemi” per risolvere un problema, e un mistico zen non faticherebbe ad accettarla. Essa, però, si scontra con l’apparente unicità delle nostre identità, le quali sembrerebbero non replicabili.

Un celebre esperimento mentale di Max Tegmark, quello del suicidio quantistico, prevede di usare una pistola collegata a un generatore di eventi casuali fondato sul principio di indeterminazione per svolgere una versione estrema di roulette russa: se la teoria del multiverso fosse vera, il colpo non dovrebbe mai partire, perché a sperimentare la morte sarebbero altri noi stessi in altri universi, ma resterebbe sempre almeno una nostra copia in vita a conservare il nostro flusso di coscienza e la percezione di essere ancora viva (questo esperimento mentale è sfruttato in una scena della serie Devs di Alex Garland). Aguirre non sembra convinto che l’esperimento possa funzionare. Ma nemmeno propende per l’idea che la nostra identità sia un indiscernibile. Per spiegarlo, cita Nāgārjuna: “Se il sé fosse uguale agli aggregati, esso sarebbe soggetto a nascita e distruzione. Se esso fosse diverso dagli aggregati, sarebbe sprovvisto dei caratteri degli aggregati”. Paradosso!

“E la fine del nostro esplorare sarà arrivare dove partimmo”
Zen e multiversi è una straordinaria sintesi di ciò che sappiamo della realtà: introduce il lettore ai paradossi della teoria della relatività e della meccanica quantistica, agli enigmi della cosmologia e ai dilemmi del principio antropico, che sembrano suggerire un ruolo determinante della coscienza nella trama della realtà. Ogni capitolo si chiude però rapidamente e quasi brutalmente, proprio quando il lettore ha iniziato a prendere familiarità con il concetto e vorrebbe saperne di più. Da questo punto di vista, Aguirre non offre certo un’introduzione completa o esaustiva: non ne ha alcuna intenzione. Ogni capitolo racchiude un koan il quale, per sua natura, non offre una visione definitiva della verità, ma solo un punto di vista, un indizio, una strada da esplorare. Non ci sono, in questo libro, né risposte nuove né nuove teorie; ci troviamo piuttosto tra le mani una mappa di ciò che non sappiamo e Aguirre si dimostra un perfetto cartografo dell’ignoto.
Le domande che ci lascia sono tra le più radicali della ricerca scientifica. Esiste il libero arbitrio, se è vero che la teoria della relatività ci offre la visione di un universo-blocco dove tutti gli istanti di tempo passati e futuri sono già tutti esistenti? Esiste davvero qualcosa di fondamentale, dal momento che pur scomponendo “le cose in pezzi più piccoli”, alla fine “scopriamo che i pezzi non esistono”? Esiste forse solo forma, informazione?

“Se le cose sono forme di forme di forme di forme, e se le forme sono ordine, e l’ordine è definito da noi (che definiamo i macrostati), dalla storia (che li rende reali) e dall’Universo (che sta alla base dell’ordine), quelle forme non sembrerebbero allora esistere in sé e per sé. Sembrerebbe che esistano soltanto perché create da noi e dall’Universo, e in relazione a queste due cose. Come direbbe il Buddha, esse sono vuoto”.

I grandi saggi del buddhismo zen usano i koan perché vogliono spingerci a mettere in discussione la nostra concezione della realtà. Non ci offrono mai risposte, ma stimoli, domande. Nell’esperimento mentale di Wheeler, quello del gioco in cui bisogna indovinare una parola che i partecipanti scelgono man mano che il gioco procede, non è importante la risposta (la parola da indovinare), ma le domande che il giocatore pone. Sono quelle a delimitare le infinite possibilità, fino a produrre un unico esito. Wheeler, con la sua la teoria dell’informazione, affermava esattamente questo, suggerendo che “ciò che chiamiamo realtà emerge in ultima analisi dal porre domande binarie sì/no e registrare le risposte sui nostri dispositivi” (Wheeler, 1989).
Se questo è vero, allora con Zen e multiversi Anthony Aguirre non ci porta affatto fuori strada, ma riconduce la scienza alla sua dimensione fondamentale: non trovare risposte definitive, ma imparare a porre le domande giuste.

Letture
  • Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, Milano, 2016.
  • Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano, 1989.
  • Arthur S. Eddington, La scienza e il mondo invisibile, Fratelli Bocca Editori, Milano, 1953.
  • James Jeans, L’universo misterioso, Treves – Treccani, Milano-Roma, 1932.
  • Roger Penrose, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, Milano, 2018.
  • Max Tegmark, L’universo matematico, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.
  • John A. Wheeler, Information, Physics, Quantum: The Search for Links, «Proceedings of the 3rd International Symposium Foundations of Quantum Mechanics», Tokyo, 1989.
  • Eugene Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Adelphi, 2017.
  • Trinh Xuan Thuan, La pienezza del vuoto, Ponte alle Grazie, Milano, 2017.
  • Gary Zukav, La danza dei maestri Wu Li, Corbaccio, Milano, 2015.
Visioni
  • Alex Garland, Devs, Hulu, 2020.