Anni Cinquanta,
il decennio aureo di Totò

Massimo Moscati
Totò ‘50
Bibliotheka Edizioni, Roma, 2021

pp. 254, € 17,00

Massimo Moscati
Totò ‘50
Bibliotheka Edizioni, Roma, 2021

pp. 254, € 17,00


È una sfida impegnativa scrivere “l’ennesimo libro su Totò”, come ammette lo stesso Massimo Moscati, esperto di cinema, autore di Totò ‘50, nuovo tributo dedicato ad Antonio de Curtis, alias Totò (15 febbraio 1898 – 13 aprile 1967), il “Principe della risata”, nato a Napoli, nel quartiere Rione Sanità, da Anna Clemente e dal marchese Giuseppe de Curtis che lo riconobbe legalmente solo nel 1928 (cfr. Bispuri, 2000).
Totò ‘50 fa parte della collana Cinema del 900 dell’editore Bibliotheka, ideata e diretta da Moscati, che rievoca cento anni di cinema italiano attraverso i ritratti di 10 attori/registi: Filoteo Alberini (anni Zero), Giovanni Pastrone (anni Dieci), Francesca Bertini (anni Venti), Mario Camerini (anni Trenta), Alessandro Blasetti (anni Quaranta), Ugo Tognazzi (anni Sessanta), Federico Fellini (Settanta), Nanni Moretti (anni Ottanta), Carlo Verdone (anni Novanta) e Totò, appunto, per gli anni Cinquanta.
Il picco produttivo di Totò coincide proprio con gli anni Cinquanta, decennio nel quale gira 48 film, quasi la metà di tutta la sua filmografia, sebbene anche nei Sessanta non manchino pellicole ancora oggi cult: Signori si nasce, Letto a tre piazze, Chi si ferma è perduto, Totò Peppino e…la dolce vita, Totòtruffa, I due colonnelli, Gli onorevoli, Lo smemorato di Collegno, tutti girati tra 1960 e 1963, come si può evincere dalla filmografia, utilissima e ben fatta, che chiude il libro e comprende le schede di 97 film, da Fermo con le mani (1937) a Le streghe, episodio de La Terra vista dalla Luna, 1967, di Pier Paolo Pasolini.

Il decennio 1950 parte alla grande per Totò con Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, e si chiude (1959) altrettanto bene con I tartassati, La cambiale (protagonisti i cugini Posalaquaglia, interpretati da Totò e Peppino de Filippo), e Arrangiatevi!, diretto, quest’ultimo, da Mauro Bolognini, che riprende il tema della crisi degli alloggi (siamo nella Roma del secondo dopoguerra), già affrontato nel Totò cerca casa del 1949, regia di Steno e Mario Monicelli. Arrangiatevi! è la storia di una famiglia che trova finalmente una sistemazione (in affitto) in uno splendido palazzo che, si verrà a sapere dopo, è una ex casa chiusa rimasta vuota dopo la legge Merlin. Anche questo film, vietato ai minori di 16 anni, ebbe non pochi problemi con la censura.

Storia del cinema in un decennio
Attore formatosi nel teatro d’avanspettacolo, dove esordisce nel 1922, Totò debutta nel cinema a 39 anni con Fermo con le mani! (1937), un film un po’ scombiccherato che, scrive Moscati “riecheggia alla lontana certe commedie alla Charlot, alla Mack Sennett, ai fratelli Marx o alla Laurel&Hardy”. Gli inizi della sua carriera cinematografica sono tutt’altro che facili. La critica non di rado va giù pesante: “pensare a un Totò attore nel senso completo della parola è una delle tante aberrazioni della corrente retorica teatral-cinematografica” scrive Vincenzo Talarico su L’Indipendente nel 1945 all’indomani de Il ratto delle sabine.
La vera carriera di Totò sul set, racconta Moscati, comincia con I due orfanelli (1947), dove recita con Carlo Campanini, sua prima spalla sul grande schermo, e l’incontro con il regista Mario Mattoli, che lo dirigerà anche in Fifa e arena (1948), Totò al Giro d’Italia (1948), I pompieri di Viggiù (1949) e – negli anni Cinquanta – in Totò Tarzan (1950), Totò sceicco (1950), Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà (1954) e Il medico dei pazzi (1954), la cosiddetta trilogia scarpettiana. A Mattoli, il primo fra i grandi registi di Totò, si alterneranno negli anni Cinquanta e Sessanta, Camillo Mastrocinque, Steno, Mario Monicelli, Carlo Ludovico Bragaglia, Vittorio De Sica, Luigi Comencini e Sergio Corbucci.

A un capolavoro di atmosfera neo-realista come Guardie e ladri (1951) diretto da Mario Monicelli e Steno, dove debutta la coppia Totò-Aldo Fabrizi, seguono film comico-brillanti di taglio teatrale come la già citata trilogia scarpettiana formata da Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà (1954) e Il medico dei pazzi (1954), nei quali è pressoché costante il sottofondo tematico della povertà, dell’arte d’arrangiarsi e della lotta per la sopravvivenza. Sempre negli anni Cinquanta Totò recita da protagonista in film decisamente comici, di evasione, ma di buon livello, dove è spesso affiancato da Peppino de Filippo, come La banda degli onesti (1956) e Totò, Peppino e…la malafemmina (1956), diretti da Camillo Mastrocinque, con la celeberrima scena della lettera, il cui testo è riportato nel libro di Moscati.
Totò riesce a brillare, però, anche quando non è protagonista assoluto: ne I soliti ignoti (1958), di Monicelli, impersona Dante Cruciani, consulente scassinatore di una banda di sei ladri improvvisati – interpretati magistralmente da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Tiberio Murgia, Memmo Carotenuto, e Carlo Pisacane alias Capannelle – che ricordano molto l’Armata Brancaleone: e non a caso Vittorio Gassman è protagonista nell’uno e nell’altro film. Inoltre, per rimanere in un ambito a metà tra commedia all’italiana e neo-realismo, Totò ritorna protagonista nel 1959 con I tartassati di Steno, che ripropone ai massimi livelli la coppia Totò-Fabrizi, il primo nei panni del commendator Pezzella, il secondo nel ruolo del maresciallo Topponi: titolare di un signorile negozio di abbigliamento, Pezzella cercherà di sfuggire ai risultati dell’ispezione fiscale con un espediente riprovevole: il furto della borsa che contiene la documentazione. Alla fine si ravvederà: suo figlio, innamorato della figlia del maresciallo Topponi, rimprovera il padre per l’escamotage del furto concepito insieme al commercialista, interpretato da Louis de Funès. Pezzella, suo malgrado, restituisce il maltolto. L’unica speranza è fare 13 al Totocalcio, come gli suggerirà paternamente lo stesso maresciallo Topponi.

Siamo uomini o caporali?
Esattamente a metà degli anni Cinquanta esce Siamo uomini o caporali? (1955), diretto da Camillo Mastrocinque, dove Totò presenta una delle sue più celebri tesi socio-filosofiche:

“L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno, li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza. Ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa: a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

La storia è quella di una comparsa teatrale, Antonio Esposito, che, stanco di innumerevoli angherie, minaccia di uccidere il suo impresario; per questo viene ricoverato in manicomio dove comincia a raccontare allo psicanalista, interpretato da Nerio Bernardi, un’esistenza di soprusi cominciati con la guerra:

“è una metafora di situazioni negative che si sviluppano temporalmente, ma dove i suoi persecutori hanno la stessa faccia (che è poi quella di uno strabiliante Paolo Stoppa). Di volta in volta è il direttore di teatro, il soldato fascista, il criminale nazista, l’ufficiale americano, il giornalista senza scrupoli, e l’imprenditore lombardo”
(Moscati, 2021).

Alla fine del racconto il medico libera Antonio Esposito perché, lungi dal ritenerlo pazzo, lo considera fin troppo saggio. Secondo Moscati, è il film più sentito di Totò, che firma soggetto e sceneggiatura. Anche questo film non passa indenne la censura. D’altronde, è sempre del 1955 la pellicola più tartassata dai tagli, Totò e Carolina, regia di Mario Monicelli, sceneggiatura di Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, e Mario Monicelli su soggetto di Ennio Flaiano. Totò interpreta il ruolo dell’agente di pubblica sicurezza Antonio Caccavallo che durante una retata di prostitute a Villa Borghese, a Roma, arresta anche una ragazzina incinta, fuggita di casa. Scrive Moscati:

“La trama del film si scontra con la visione bacchettona dell’Italia di Mario Scelba dell’epoca: già emendato in fase preliminare di sceneggiatura, Totò e Carolina viene bocciato in censura ormai interamente girato perché ‘offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza, nonché del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della forza pubblica’. Il capo del Governo non può tollerare la satira sui celerini”
(ibidem).

Ancora oggi Totò e Carolina – che pure è visibile su YouTube in versione integrale – è uno dei film meno trasmessi dalle tv italiane, esattamente come Umberto D. (1951, Vittorio de Sica), storia di un povero pensionato che medita il suicidio non potendo più tirare avanti economicamente.

Un attore senza eguali
Soprattutto agli inizi della sua carriera cinematografica Totò punta molto su una comicità basata sul corpo che spesso muove come una marionetta, e sulla mimica facciale dove tocca vertici esilaranti in film come Totò le Mokò (1949), Totò sceicco (1950) o I pompieri di Viggiù, memorabile per lo sketch di un Totò dongiovanni che, scoperto dal marito di una sua conquista, si trasforma in manichino per non farsi scoprire. Totò a colori (1952), regia e soggetto di Steno, dal repertorio di Michele Galdieri e Totò stesso, è una summa dei più famosi sketch totoeschi, compresa la scena del Totò-marionetta, e quella ormai mitica del wagon lit con Mario Castellani nei panni del (bistrattato) onorevole Cosimo Trombetta. Questo episodio, insieme a quello degli esistenzialisti capresi provengono da una rivista del 1947, C’era una volta il mondo. Queste performance, che ricordano le esperienze di Totò nel teatro d’avanspettacolo e nelle riviste di Michele Galdieri, qualunque raffronto con attori comici soprattutto stranieri è sempre azzardato. Totò è unico e i suoi maestri sono semmai italianissimi, napoletani in primis, e si identificano con la tradizione dei macchiettisti alla Nicola Maldacea e alla Gustavo de Marco, maestri di Totò.

Moscati riprende nella prefazione del suo libro una disputa memorabile, “assurda, quanto inutile” (de Crescenzo, in de Curtis, 2000) sorta tra Renzo Arbore e Tullio Kezich: chi è più importante, Chaplin o Totò? Per Arbore non c’è dubbio: Totò. Di avviso contrario Kezich, che riteneva Chaplin superiore all’attore partenopeo. Nella diatriba tra chapliniani e totòmani, i primi adducevano come prove della sua superiorità, il fatto che Chaplin curasse i suoi film con attenzione millimetrica, senza trascurare il minimo dettaglio, provando e riprovando ogni scena numerose, per non dire infinite, volte; i totòmani, sostenevano invece che il bello di Totò, l’essenza della sua arte, consisteva nell’istintività e nel talento per l’improvvisazione. A dirimere la querelle, arrivò il critico Claudio G. Fava spiegando il perché Totò non avesse mai valicato i confini della patria:

“Chaplin amava il cinema muto. Il sonoro lo fece, ma solo dopo molti tentennamenti, e, anche quando lo fece, si affidò più alla comicità dell’immagine che non a quella della parola. Totò, invece, era un comico di linguaggio, e come tale non fu mai esportabile”
(Fava in De Curtis, 2000).

Una comicità basata sul linguaggio
In effetti, è complicato, se non impossibile, trasferire in una lingua diversa dall’italiano, non solo il significato, ma anche il senso comico di tantissimi tormentoni totoeschi come “Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo” (il maestro Antonio Scannagatti); ); per non parlare di decine di espressioni che possiamo scegliere dal totoese, come “eziandio”, “mi scompiscio”, “tomo tomo cacchio cacchio”,  “pinzillacchere” “Questo caffè è una ciofeca” “La donna è mobile, e io mi sento mobiliere” (Ottone Spinelli degli Ulivi detto Zazà); “E io pago!” come ripete ancora il nobile spiantato Ottone degli Ulivi detto Zazà nel film cult Signori si nasce (1960), regia di Mario Mattoli. Nessun attore comico, italiano o internazionale, ha deformato la propria lingua madre (l’italiano, nel caso di Totò), mescolando voci dialettali, latino, termini colti, citazioni, storpiando volutamente nomi, cognomi e toponimi, come, per citare un esempio memorabile, ne La banda degli onesti, diretto da Camillo Mastrocinque, dove Totò-Antonio Bonocore, non riuscendo, o non volendo, memorizzare esattamente il cognome del collega Lo Turco (Peppino de Filippo) lo declina nelle più esilaranti e improbabili variazioni: Lo Turzo, Lo Curto, Lo Tricoli, Lo Struzzo, Gian Turco, Turchetti.

“La sostituzione dei suoni poteva consistere nel cambio di una lettera o di un suono; oppure nella trasposizione di fonemi all’interno di una parola (metatesi), ‘fedigrafo’ per fedifrago; o di parole diverse, ‘che topi di tipi’ al posto di ‘che tipi di topi’; o nell’alterazione dell’ordine delle parole di un’intera frase: ‘un amico vestito da prete’ diventa ‘ un prete vestito da amico’. Ma Totò utilizzava spesso anche un’altra figura retorica (quanto consapevolmente?), l’inquadramento di una parola in una serie esclusivamente per associazione fonetiche o morfologiche (paretimologia): un classico la sua abitudine nel mescolare continuamente le lingue. Un vero vortice linguistico quello dell’attore, nel cercare – e creare – somiglianze semantiche tra parole, partendo dalla somiglianza fonetica (magari per deformarla ulteriormente): «noio…volevam…volevam savoir…l’indiriss…ja»”
(Moscati, 2021)

Quanto al raffronto Chaplin-Totò, l’opinione di Moscati coincide con quanto scrisse Umberto Eco in una sua Bustina di Minerva (la sua rubrica su L’Espresso) intitolata A prescindere da Totò è meglio Chaplin. Pur premettendo di essere un fan di Totò, e di non stancarsi mai nel rivedere i suoi film, Eco riteneva Chaplin un grande artista come Honorè de Balzac o Antonio Vivaldi, mentre Totò resta un artigiano ineguagliabile. Moscati ammette, però, che per ammirare l’unicità di Totò bisogna “sgomberare il campo da imbarazzanti paragoni – Charlot, Buster Keaton, Laurel&Hardy”.

Letture
  • Alberto Anile, Totò proibito. Storia puntigliosa e grottesca dei rapporti tra il Principe De Curtis e la censura, Lindau, Torino, 2005.
  • Autori vari, Il pianeta Totò (sito).
  • Autori vari, Totò. Associazione Antonio De Curtis in arte Totò (sito).
  • Autori vari, Omaggio ad Antonio de Curtis in arte Totò (sito).
  • Ennio Bispuri, Vita di Totò, Gremese, Roma, 2000.
  • Antonio de Curtis, Totò,A livella, Gremese, Roma, 2000.
  • Franca Faldini, Goffredo Fofi, Totò, Tullio Pironti, Napoli, 1988.
  • Emilio Gentile, Caporali tanti, Uomini pochissimi, Laterza, Bari, 2020.
  • Enrico Giacovelli, E poi dice che uno si butta a sinistra. Tutti gli sketch integrali e le battute più divertenti di tutti i film di Totò, Gremese, Roma, 1994.
  • Roberto Escobar, Totò avventure di una marionetta, Il Mulino, Bologna, 2013.
  • Paolo Isotta, San Totò, Marsilio, Venezia, 2021.
  • Massimo Moscati, Breve storia del cinema, Bompiani, Milano, 2010.
Visioni
  • Camillo Mastrocinque, Siamo uomini o caporali?, Mustang, 2007 (home video).
  • Mario Monicelli, Guardie e ladri, Terminal Video, 2008 (home video).
  • Mario Monicelli, Totò e Carolina, Terminal Video, 2008 (home video).
  • Mario Monicelli, I soliti ignoti, Mustang, 2014 (home video).
  • Steno, I tartassati, Mustang, 2020 (home video).