Ci sono due lettere di J.R.R. Tolkien che sono tornate a essere frequentemente citate in occasione dell’uscita della prima stagione di The Rings of Power, il più costoso prodotto nativo per lo streaming mai realizzato finora. La prima è quella, piuttosto nota e risalente al 1964, in cui Tolkien esprimeva la sua profonda avversione per lo stile di Walt Disney, arrivando a porre il veto “su qualsiasi cosa possa essere influenzata dagli studi cinematografici Disney (per il quale lavoro provo un odio sincero)”. Ciò derivava in particolare dalla possibilità che una trasposizione cinematografica del Signore degli Anelli, che all’epoca era immaginata esclusivamente nella forma di film d’animazione (come sarebbe accaduto infatti con l’adattamento parziale di Ralph Bakshi), ricalcasse lo stile di Biancaneve e i sette nani, che avrebbe a lungo influenzato l’immaginario fiabesco legato a nani, streghe e incantesimi. L’altra lettera è del 1943: in piena guerra mondiale Tolkien scriveva al figlio Christopher, di stanza in Sudafrica e che in seguito avrebbe raccolto la sua eredità, un’osservazione profetica.
“Più le cose diventano grandi, più il mondo diventa piccolo e monotono o piatto. Si appresta a diventare tutto una piccola e provinciale periferia inaridita. Quando avranno introdotto gli impianti igienici, le tecniche motivazionali, il femminismo e la produzione di massa americani in tutto il Vicino Oriente, in Medio Oriente, in Estremo Oriente, nell’U.R.S.S., nella Pampa, nel Gran Chaco, nel Bacino del Danubio, in Africa Equatoriale, in Mumbolandia citeriore ulteriore e interiore, nella Gondwana, a Lhasa e nei villaggi del profondo Berkshire, quanto saremo felici”
(Tolkien, 2018).
Era un attacco a ciò che definiva “americo-cosmopolitismo”, bollato come “veramente terrificante”, e che a suo giudizio sarebbe risultato il vero vincitore del conflitto mondiale, come poi fu. Questa lettera è ovviamente stata perlopiù fraintesa, citata dai critici del “politicamente corretto” per attaccare le scelte della produzione della serie Amazon di aumentare i personaggi femminili e neri come richiedono i nuovi canoni etici. Una critica fuori fuoco, che ha preso di mira elementi del tutto secondari rispetto a quelli realmente problematici di The Rings of Power, esattamente come un’interpretazione semplicistica di queste lettere si limita a mettere in luce l’anti-americanismo e il tradizionalismo di Tolkien senza considerare il vero problema che l’autore intendeva esprimere.
“Un altro genere di musica”
Per capire la vera posta in gioco ci può aiutare un’altra lettera, scritta questa volta dall’amico e collega di Tolkien, C.S. Lewis, dopo la visione di Biancaneve e i sette nani nel 1939. Pur lodando molte delle scelte stilistiche del film, Lewis aveva non solo reagito indignato insieme a Tolkien per la resa dei nani come “ubriachi o comici di bassa lega”, ma era rimasto soprattutto perplesso sulla scena musicale jazz: “Suppongo che al povero scemo [Disney] non sia mai venuto in mente che potessero usare un altro genere di musica” (cit. in Grundhauser, 2017). A colpirlo maggiormente fu dunque il fatto che, pur all’interno di una cornice fiabesca di radicale alterità rispetto al mondo reale, il film non potesse fare a meno di inserire elementi tipici della cultura contemporanea, come se questa fosse universale. Per Lewis come per Tolkien si trattava ovviamente di un’idea assurda: gli elementi universali di una storia sono quelli che resistono al mutare delle epoche, delle loro mentalità e dei loro costumi, non certo quelli provenienti da mode culturali per loro natura soggette a rapida caducità.
Non va infatti dimenticato il loro background di medievisti, specializzati rispettivamente nella letteratura (Lewis) e nella filologia (Tolkien). Per entrambi, il punto essenziale consisteva nel riuscire a riportare alla luce mentalità e visioni del mondo ormai perdute, come è evidente dai lavori di Tolkien sul Beowulf, sui romanzi trecenteschi Sir Gawain e Pearl e sul testo duecentesco Ancrene Wisse, che offre uno spaccato di una cultura a noi distantissima, quella di donne che sceglievano la solitudine dei monasteri per dedicarsi alla fede. Anche importanti saggi di Lewis, come L’allegoria dell’amore (1936) e il testo postumo L’immagine scartata (1964) sulla visione cosmologica medievale, rappresentano importantissimi sforzi nell’ambito di quella che oggi chiamiamo “storia della mentalità”.
Ora, è stato giustamente osservato che, a dispetto del background medievista di Tolkien, Il Signore degli Anelli sia un romanzo moderno, che tanto nello svolgimento quanto nella caratterizzazione dei personaggi non avrebbe potuto essere stato scritto che nel Novecento (Shippey, 2005). Tolkien non lo nascondeva, né aveva intenzione di farlo passare come un testo che imitasse i romanzi medievali che aveva studiato. La scelta di seguire il viaggio di scoperta del mondo da parte di uno hobbit – in tutto e per tutto simile a un signorotto inglese di campagna della piccola borghesia dell’età edoardiana, quindi al più risalente a qualche decennio addietro rispetto all’epoca della composizione dell’opera – mostrava la consapevolezza dell’autore sulla necessità di dare al Signore degli Anelli un tono assai diverso da quel corpus di testi che egli aveva iniziato a scrivere molto prima, fin dal periodo della Prima guerra mondiale, e che a più riprese e senza successo provò a far pubblicare dai suoi editori: le storie poi confluite nel Silmarillion curato dal figlio Christopher avevano tutt’altro tono, ispirato a un’epica d’altri tempi che trovava giustificazione nel fatto che si trattava di storie dei “tempi antichi” rispetto ai “tempi moderni” della Terza Era del mondo in cui è ambientato Il Signore degli Anelli (o, se si vuole, la distanza che c’è tra l’Antico e il Nuovo Testamento). Ciò rifletteva le profonde convinzioni dell’autore, secondo cui la lingua è strettamente connessa alla cultura di cui è espressione: in un’opera di narrativa la conseguenza è che ogni cultura ha il suo stile e un’opera che nella cornice di finzione è scritta in epoca più antica sarà evidentemente scritta con uno stile lontano da quello moderno. Diventa ora evidente il vero problema di una trasposizione di un’opera di Tolkien, in cui la storia rappresenta solo la superficie.
The Rings of Power non ha, evidentemente, fatto i conti con tutto questo, nonostante il ruolo di consulente di Tom Shippey, unanimemente considerato il maggior esperto del pensiero tolkieniano, che però a quanto sembra avrebbe preso in seguito le distanze dalla produzione. Non è sufficiente usare qualche parola antiquata per ricreare un’epoca lontana, se poi ovunque ci muoviamo nella Terra di Mezzo troviamo all’opera gli stessi meccanismi e processi mentali di un qualsiasi altro prodotto di intrattenimento. Si pensi al rapporto di amicizia tra Elrond e Durin o alla relazione romantica tra Arondir e Bronwyn, in entrambi i casi implicanti persone di razze diverse. Nel capitolo finale del Silmarillion, “Degli Anelli del Potere e della Terza Era”, leggiamo delle buone relazioni intessute da Elrond con i Nani di Moria, ben sapendo delle frizioni tra i due popoli legati a enormi distanze culturali. Nella serie vediamo in effetti un’iniziale rappresentazione di questa distanza, che si traduce in costumi e usanze molto diverse e in equivoci diplomatici come quello (poi rivelatosi inventato) che commette il re elfico Gil-galad con la tavola di pietra usata durante il pranzo con Durin fatta di una pietra che sarebbe sacra per i Nani. Tuttavia, le vicende successive mostrano una dinamica di relazione famigliare e di coppia (quella tra Durin e la moglie) e tra padre e figlio (Durin e il padre omonimo) che è esattamente quella che potremmo trovare in un qualsiasi film o serie televisiva di oggi.
“Il suo centro di interesse non è negli Uomini, ma negli Elfi”
Mentre Il Signore degli Anelli conserva il punto di vista umano attraverso il ruolo degli Hobbit (che, non va dimenticato, sono considerati dall’autore esseri umani, seppur minori di statura rispetto agli Uomini della Terra di Mezzo, per simboleggiarne le piccineria mentale dell’inglese medio), Tolkien precisò nella famosa lettera 131 a Milton Waldman – che rappresenta la compiuta sintesi degli scopi profondi della sua opera creativa – che il corpus di storie del Silmarillion è “diverso da tutte le cose simili che conosco in quanto non è antropocentrico”. Questo perché “il suo centro di interesse non è negli Uomini, ma negli Elfi”. Ovviamente, precisava, gli Uomini “ci entrano inevitabilmente: dopotutto l’autore è un uomo, e se avrà un pubblico di lettori questi saranno Uomini” (Tolkien, 2018). Tuttavia, questa affermazione di un’opera non antropocentrica è rivelatoria del fatto che per Tolkien l’aspetto peculiare delle storie della Prima e Seconda Era consiste nell’assumere il punto di vista elfico, che si differenzia da quello umano essenzialmente per l’immortalità e per tutto ciò che ne deriva. Questo rovesciamento del centro di interesse dagli Uomini agli Elfi rispetto al Signore degli Anelli è solo tentato, ma non realizzato ne Gli anelli del potere.
Il tema del rapporto tra un elfo e un mortale è un tema fondante nell’opera di Tolkien, a partire dal primo dei Grandi Racconti del suo legendarium, quello di Beren e Lúthien. Lo troviamo anche nel Signore degli Anelli, nella vicenda – solo accennata nel romanzo e discussa in dettaglio nelle Appendici – tra Aragorn e Arwen. La sua peculiarità deriva dal fatto di poterla usare per esplorare la profonda distanza tra due visioni del mondo diverse, l’una influenzata dall’inevitabile destino mortale degli esseri umani (doomed to die, “destinati alla morte”, come recita la celeberrima poesia dell’Unico Anello), l’altra dal dono – che è al tempo stesso un fardello – dell’immortalità, derivante dall’essere gli Elfi i primi nati da Ilúvatar (il Dio unico), il popolo eletto che in origine ha dimorato nello stesso regno degli dèi, Valinor. Il passo in cui Arwen accompagna il marito nei suoi ultimi giorni di vita, preparandosi a una lunga esistenza solitaria, è quanto di più bello sia mai stato scritto da Tolkien, e meriterebbe di essere riportato per intero, ma ai fini di questo discorso basteranno alcuni cenni. Aragorn, giunto agli ultimi giorni, invita Arwen a pentirsi della sua scelta della mortalità, recarsi ai Porti grigi da cui suo padre e i signori elfici sono partiti per ritornare nella terra natìa di Valinor e quindi abbracciare nuovamente l’immortalità, ma Arwen rifiuta, pur ammettendo di rendersi conto solo ora dell’amarezza della morte.
“«Così sembra», egli disse. «Ma non lasciamoci sopraffare dalla prova finale, noi che anticamente rinunciammo all’Ombra e all’Anello. In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!»”.
Aragorn spira, e Tolkien ci lascia questa folgorante descrizione squisitamente rappresentata in una scena della trasposizione cinematografica di Peter Jackson: “Egli giacque a lungo là, immagine dello splendore dei Re degli Uomini immersa nella gloria raggiante precedente al crollo del mondo”. Arwen, ormai “fredda e grigia come la notte d’inverno senza una stella”, parte invece per il Lórien, “e vi dimorò sola sotto gli alberi pallidi fino al giungere dell’inverno”. Lì, dove “tutto era silenzio”, perché i signori degli elfi sono ormai partiti, un giorno lontano
“mentre cadevano le foglie dei mallorn e la primavera era ancora lontana, ella si distese sul Cerin Amroth; e quella sarà la sua verde tomba finché il mondo cambierà, e i giorni della sua vita saranno del tutto obliati dagli uomini che nasceranno, e l’elanor e il niphredil non fioriranno più a est del Mare”.
Queste righe restituiscono il senso profondo della distanza tra due mondi, quello degli Uomini mortali e quello degli Elfi immortali, su cui Tolkien ha fondato tutta la sua narrazione. Se la storia d’amore tra un elfo e una donna non viene letta all’interno di questa complessa cornice, il tutto si riduce a un banale amore interraziale.
“Nel momento in cui l’incredulità si manifesta, l’incantesimo è rotto”
Lo stesso problema si riscontra per il tema della forgiatura degli Anelli del Potere. Quando Bilbo Baggins scopre l’Unico Anello nelle pagine de Lo Hobbit, si trova in un’epoca molto più vicina a noi di quando tali anelli furono forgiati, e nella cultura della Terza Era un anello non è che un gingillo, mentre nell’era precedente la loro produzione risponde a concezioni ben più profonde; è esattamente la distanza che intercorre tra il nostro modo di intendere un amuleto egizio e la costellazione di significati da cui il senso ultimo dell’amuleto trae origine migliaia di anni prima.
Questa distanza, che nel Signore degli Anelli viene gradualmente disvelata al lettore, è ben chiara nella lettura del Silmarillion. Si tratta di ricostruire un mondo in cui la forgiatura di anelli dotati di particolari poteri è possibile e sensato. Celebrimbor, il maestro dell’arte orafa elfica, li forgia sulla base della convinzione che gli Elfi possano attraverso di loro migliorare la Terra di Mezzo per renderla più simile a Valinor, ossia più circonfusa della luce divina da cui gli Elfi traggono il nome stesso (Eldar, la cui radice -el sta per “stella”, mentre i grandi personaggi di Gil-galad e Galadriel hanno nella loro radice il termine -gal che sta per “luce”). È un tentativo sconsiderato di ricreare la luce divina, similmente a quanto già avevano fatto gli Elfi nell’era precedente forgiando i Silmarilli, che li condussero alla rovina. In The Rings of Power il principio è molto diverso: la luce degli Elfi sta svanendo, costringendoli a lasciare la Terra di Mezzo, e per impedirlo si scopre che è possibile usare il mithril, il minerale argenteo scavato dai Nani di Moria. Ciò riduce la questione a termini strettamente materiali, equivocando del tutto il senso di questo grande leitmotif che accompagna tutta l’opera tolkieniana, ossia lo spirito degli Elfi che lentamente va spegnendosi a causa della lontananza dalla luce divina di Valinor e che li vede abbandonare le sponde della Terra di Mezzo lasciata al dominio degli Uomini, che ne raccolgono l’eredità. Si tratta di un concetto profondamente romantico, quello della sehnsucht, lo struggimento verso qualcosa che si è perduto, “l’inconsolabile desiderio” come lo definì C.S. Lewis, che si traduce nel progressivo raffreddarsi della luce degli Elfi. Mentre il concetto è ben presente e rappresentato nella trasposizione di Peter Jackson, The Rings of Power lo rende in modo più confuso: il desiderio di Valinor è al centro di una delle scene più belle della serie, quella degli Elfi che si avvicinano al Reame Beato e di Galadriel che volta le spalle alla luce, ma lo struggimento si riduce a foglie d’oro che cadono (un richiamo alla celebre poesia elfica del Signore degli Anelli, “Namárië”, pronunciata da Galadriel, che inizia con i versi “Ah! Come oro cadono le foglie al vento…”) e a un ben più prosaico rischio di morte degli Elfi per il venir meno delle condizioni della loro sopravvivenza nella Terra di Mezzo.
Vengono così a mancare quelle condizioni che per Tolkien erano indispensabili per una sub-creazione ben riuscita. “Sub-creazione”, ossia una creazione letteraria o in generale finzionale, di genere inferiore alla vera Creazione, ma comunque illuminata della luce della Verità, secondo il pensiero dello scrittore inglese. Per essere tale, l’opera di finzione deve soprattutto essere coerente, vale a dire che ciò che i suoi personaggi dicono o fanno deve trarre motivazione dal contesto più ampio in cui si muovono. Se questa coerenza viene meno, per esempio quando vediamo personaggi che operano sulla base di ragionamenti propri della nostra cultura anziché di quella di appartenenza, la sub-creazione fallisce.
Questo è ovviamente tanto più importante quando si tratta di ricreare vicende reali, ossia nelle fiction storiche. Ciò che c’è di più inquietante in serie o film storici recenti, come per esempio in Bridgerton, non è tanto la scelta del cast multietnico o di diverso orientamento di genere, quanto il fatto che tutti i personaggi agiscono come se vivessero al tempo presente, che è esattamente quello su cui tanto Tolkien quanto Lewis mettevano in guardia: il rischio di non riuscire nemmeno a immaginare che possano esserci altri schemi di pensiero, altre concezioni del mondo, ingabbiando la realtà in un eterno presente. Ma questo non significa che il problema debba essere ignorato se parliamo di fantasy. Anzi, proprio l’ossessione di Tolkien per la coerenza del suo mondo lo rende tanto diverso dalla piattezza della maggior parte delle opere di fantasy, in quanto dotato di profondità.
Nel suo saggio-manifesto Sulle fiabe, elaborazione della Andrew Lang Lecture tenuta all’Università di St. Andrews nel 1938, Tolkien affermava:
“È comunque essenziale, per una fiaba genuina, in quanto distinta dall’uso di questa forma a fini secondari o degradati, che essa sia presentata come «vera»”
(Tolkien, 2000).
Questa verità non ha però nulla a che fare con il realismo. Oggi agli sceneggiatori si raccomanda di scrivere dialoghi “realistici”, e lo spettatore potrebbe alzare un sopracciglio ascoltando alcuni dialoghi certamente non realistici di The Rings of Power, concludendo che per questo la serie “stona”. Ma il problema non sta affatto in questo. Un dialogo stona se fuori dal contesto del mondo fittizio, non di quello reale. Un anello del potere non ha alcun significato nel nostro mondo, ma è invece radicato nella cultura del mondo sub-creato da Tolkien, esattamente come lo è Andvaranautr, l’anello magico che produce oro posseduto dal nano Andvari e sottrattogli da Loki nella saga norrena dei Nibelunghi.
In una storia ben riuscita – spiegava Tolkien – alla domanda che i bambini spesso pongono a chi gliela legge, ossia “è vero?”, la risposta non può che essere: “Se avete costruito bene il vostro piccolo mondo, sì. È vero in quel mondo”:
“Di conseguenza ci si crede, mentre vi si è, per così dire, dentro. Nel momento stesso in cui l’incredulità si manifesta, l’incantesimo è rotto; la magia, anzi l’arte, ha fatto fiasco. E rieccoci allora nel Mondo Primario, a guardare dall’esterno il piccolo, abortito Mondo Secondario”
(ibidem).
In una delle scene finali dell’ultimo episodio della prima stagione di The Rings of Power, Celebrimbor avvia la forgiatura dei Tre Anelli elfici chiedendo a Galadriel il pugnale che le regalò l’amato e perduto fratello Finrod. “La vera creazione richiede sacrificio”, le spiega il maestro artigiano. È forse la frase più tolkieniana di questa serie, perché per Tolkien creazione e sub-creazione devono essere strettamente legati: e come la creazione è resa possibile dal sacrificio della divinità che negando sé stessa permette al mondo di esistere, così la sub-creazione è possibile se l’artista che la crea riesce a rendere invisibile la sua presenza e consentire ai suoi personaggi di esistere nel mondo che ha creato.
- Eric Grundhauser, The Movie Date That Solidified J.R.R. Tolkien’s Dislike of Walt Disney, “Atlas Obscura”, 25 aprile 2017.
- Tom Shippey, J.R.R. Tolkien: La via per la Terra di mezzo, Marietti, Genova, 2005.
- John Ronald Reuel Tolkien, Albero e foglia, Bompiani, Milano, 2000.
- John Ronald Reuel Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2019/2020.
- John Ronald Reuel Tolkien, Lettere (1914-1973), Bompiani, Milano, 2018.