In Italia e negli Stati Uniti, Possession di Andrzej Żuławski uscì deturpato, stravolto, mutilato. Vennero tagliati ben tre quarti d’ora, le restanti scene rimontate dalla distribuzione italiana non secondo l’ordine stabilito nella sceneggiatura originale; addirittura furono ottantuno i minuti decurtati nell’edizione statunitense. Non solo, vennero sostituite le musiche originali e alterati i cromatismi del film in stampa, stravolgendo il lavoro realizzato dal direttore della fotografia, Bruno Nuytten, allora compagno di Isabelle Adjani, l’immaginifica protagonista. Infedele, infine, anche il doppiaggio che venne fatto in italiano. Fece giustizia nel 2008 un’edizione “Director’s cut” un dvd di RaroVideo e ora giunge più che benvenuta la riedizione in blu ray di un’opera sconcertante, provocatoria, forte, letteralmente impressionante.
Żuławski ci lavorava già quando ancora risiedeva in Polonia, dove, però non era neanche da parlarne di realizzarlo. Aveva in realtà già dovuto rinunciare alla produzione di quello che avrebbe dovuto essere il suo opus magnum, Na srebrnym globie, ovvero Sul globo d’argento, film di fantascienza al cui confronto le peripezie distributive di Possession possono ben dirsi poca cosa. In Polonia era rientrato dopo alcuni anni di esilio in Francia (dal 1972 al 1975), per via della censura che aveva subito il suo film Diabel (Il diavolo). Rimpatriò, invitato dal governo, soltanto dopo l’uscita di L’important c’est d’aimer (L’importante è amare) con Romy Schneider e Klaus Kinski, la cui grande bellezza formale non potè essere ignorata neanche dai burocrati di partito. Żuławski si tuffò con entusiasmo nella nuova impresa, la trasposizione cinematografica di un romanzo di fantascienza (siamo pur sempre nella terra di Stanislaw Lem) scritto da un suo prozio, Jerzy Żuławski, ne girò quattro quinti tra Polonia, URSS e il deserto del Gobi, ma poi tutto fini in cenere o quasi, perché si subodorò che alcune scene alludessero allegoricamente alla lotta del popolo polacco contro la dittatura socialista. Presto detto: fu ordinata la distruzione delle bobine, dei set, dei costumi, degli oggetti di scena. Le bobine però si salvarono grazie a coloro che avevano lavorato alle riprese. Żuławski lo completò anni dopo, dapprima presentandolo a Cannes (nel 1988), poi ufficialmente dopo la caduta della Repubblica Popolare di Polonia. Lo integrò con spezzoni documentaristici, spiazzanti, niente affatto fantascientifici, supportati da un audio che altro non è che voce del regista stesso che racconta i passaggi della storia di trama mai ripresi. Fu così che se ne tornò in Francia, avviò un nuovo film, Possession di produzione francotedesca ed è per questo che la location non fu più Varsavia ma Berlino, all’epoca (1981) ancora tagliata in due dal muro, segno netto di separazione che in più occasioni entra nelle inquadrature. Il film rivisto oggi non ha perso nulla della dimensione allucinatoria nella quale sono immersi i personaggi e dove anche lo spettatore inesorabilmente sprofonda. Ancora oggi la viscida e aberrante creatura lascia il segno quando si mostra, creatura per la quale ci si avvalse dell’arte di Carlo Rambaldi, che ai tempi si era già aggiudicato due Oscar per gli effetti speciali realizzati per King Kong (Guillermin, 1976) e Alien (Scott, 1979) e che di lì a poco avrebbe fatto il tris con E.T. (Spielberg, 1982), oltre ad aver già lavorato per Profondo Rosso (Argento, 1975) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg, 1977).
A questo punto, però, occorre un sunto della storia, poiché questo film può sì definirsi un horror, ma è anche molto altro. Intanto è una storia di tradimenti, infedeltà, gelosia e della violenza che tutto ciò riesce ad agitare dentro di noi. Capita all’agente segreto Marc (Sam Neill) al rientro da una missione. Anna (Isabelle Adjani), sua moglie, è cambiata ed è subito chiaro che c’è di mezzo un altro. La crisi della coppia assume subito toni drammatici. Storia di un triangolo? Macché, un amante Anna l’ha avuto, Heinrich (Heinz Bennent), ma ora ha piantato in asso anche lui per tuffarsi anima e corpo in una relazione assoluta. Prende il via da qui un gioco di sdoppiamenti, di allucinazioni, di violenza, di riflessioni sul bene e sul male, sulla dialettica corpo/anima, di sangue che scorre sempre più a fiumi, di pedinamenti per scoprire l’identità del nuovo amante di Anna, di tentativi disperati di ricostruire il nucleo familiare (i due hanno un bambino, Bob, dotato di poteri di preveggenza), doppelgänger, assassinii e visioni sconvolgenti della cosa che possiede la donna: un mostro senza nome e anche abbastanza senza forma nella prima inquadratura, poi vagamente più antropomorfo in una malvagia metamorfosi. Reale o partorito dalla fantasia della donna, alieno o demone, poco importa in un film che azzarda un incrocio tra temi morali, psicoanalitici e riflessioni sulla coppia da un lato, e abominii degni del solitario di Providence, Howard P. Lovecraft, dai cui abissi il mostro sembra provenire, quasi un aggiornamento del catalogo cthulhuliano di Dunwinch e dintorni e più in generale rimanda a figure teratologiche ben radicate nell’immaginario da tempi immemorabili, come la piovra, la creatura tentacolare archetipo della mostruosità. Fatto sta, che nel seguito della storia, Anna si sbarazza di ben due detective ingaggiati da Marc per scoprire la vera identità del suo amante e l’indirizzo della loro alcova, e in seguito farà fuori anche la comune amica Margie (Margit Carstensen). Marc, a sua volta in uno stato di esaltazione crescente, si sbarazzerà di Heinrich con estrema ferocia. In seguito alla scomparsa del figlio morirà poi anche la madre di Heinrich (Johanna Hofer). Le morti però non finiscono qui e neanche le metamorfosi del mostro…
Una menzione particolare merita poi la prova di Isabella Adjani, che dopo essersi messa in gioco con un altro regista dell’estremo, Werner Herzog (nel Nosferatu, 1979), qui toccò vertici ineguagliabili, in costante stato di trance (e di grazia), con rari momenti di quiete, allucinata, impossibile. Basterebbe la terrificante scena della possessione/parto/aborto/spurgo nei corridoi della metropolitana per giustificare la visione di un film tuttora sconvolgente, ancora oggi disponibile a nuove letture. La Adjani ricevette per Possession il premio per la migliore interpretazione femminile al trentaquattresimo Festival di Cannes dove il film venne presentato. Infine, altra protagonista di questo film amatissimo da David Lynch (che lo elogiò quando ritirò Leone d’Oro alla carriera a Venezia nel 2006), è Berlino, che qui appare quasi deserta, con le sentinelle che dall’altra parte del Muro scrutano senza posa, testimoni silenziosi di una storia dove dominano il colore blu e il rosso del sangue. Per dirla proprio con Lynch: una storia oscura e inquietante.