L’Italia è un “crocevia migratorio” (Pugliese, 2018) il cui paesaggio demografico è costantemente ridisegnato da migrazioni interne, emigrazione e immigrazione. Eppure, sebbene i movimenti interni siano espressione della cronicizzazione del divario nord-sud che caratterizza il Paese sin dalla sua costruzione e nonostante l’emigrazione stia tornando a essere un fenomeno abbastanza consistente e con contorni inediti, è sull’immigrazione che il dibattito politico e l’opinione pubblica focalizzano la propria attenzione, in un clima forse solo apparentemente polarizzato. Un consenso trasversale si coagula intorno all’idea che l’immigrazione sia un fenomeno problematico sotto il profilo economico, politico e sociale. Di fatto le accuse attribuite ai fenomeni migratori, dall’invasione all’aumento della microcriminalità, possono essere smentite con il ricorso a dati facilmente rilevabili.
Tuttavia, anche quando il tentativo viene fatto, difficilmente si riesce a smantellare l’insieme di luoghi comuni che popolano l’argomento. Come suggerisce Alessandro Dal Lago (2004), l’immigrazione è prevalentemente un problema cognitivo. E lo è nella misura in cui è la percezione dell’immigrazione, e non già il fenomeno in sé, ad essere il fulcro della questione.
La problematicità allora riguarda non tanto le migrazioni in sé, ma le reazioni che esse suscitano. Questa linea interpretativa sembra accomunare tre recenti testi, abbastanza diversi per approccio e temi analizzati, che restituiscono un quadro sul tema multidimensionale e non privo di ambivalenze.
L’immigrazione alla prova dei dati
In L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni l’idea di fondo che guida Maurizio Ambrosini è che, se le migrazioni appaiono come un tema caldo, trattato attraverso un atteggiamento emotivo, impressioni e credenze, una presentazione contrappuntistica di dati statistici possa essere un buon punto di partenza per modificare la cornice di senso entro la quale tale discorso prende forma. Ambrosini sceglie per questo di focalizzare ogni capitolo su un luogo comune di cui mostrerà poi l’assoluta inconsistenza mediante un’interpretazione ragionata, fruibile anche per il lettore non specialista, di dati rilevati da organismi nazionali e internazionali, accademici e non. Così la “leggenda dell’assedio”, costruita sulla manipolazione della visibilità degli “sbarchi” di giovani “maschi, africani, musulmani” pronti a invadere il paese che li accoglie, non regge il confronto con le caratteristiche socio-anagrafiche dei cittadini stranieri presenti sul territorio, per la maggior parte donne, bianche, cristiane. E se c’è un dato in crescita è quello di cittadini italiani nati all’estero, coloro cioè che hanno avuto il tempo di maturare i requisiti per la cosiddetta naturalizzazione. Insomma, richiedenti asilo e rifugiati non sono per nulla quantitativamente rappresentativi del fenomeno migratorio, ma è intorno a loro che si articolano le promesse politiche e il malcontento popolare.
Secondo l’autore la minacciosità di questa componente della “popolazione migrante” si spiega più in termini di classismo che di razzismo: a produrre avversione non sarebbero tanto il colore della pelle o la differenza culturale, quanto la diversità coniugata alla povertà. E qui entra in gioco un altro stereotipo duro a morire: il nesso scontato tra migrazione e povertà. Una correlazione scorretta – basti pensare alle risorse materiali e alle reti sociali che una persona deve poter attivare per affrontare il viaggio migratorio – che potrebbe legittimare il tanto popolare “aiutiamoli a casa loro”. Ma i dati mostrano chiaramente che sono i paesi in crescita i maggiori “esportatori” di migranti nel mondo; se lo scopo fosse quello di bloccare le migrazioni, paradossalmente, bisognerebbe frenare la crescita economica dei paesi di origine e non già “aiutare a casa loro”.
Altro cliché (da campagna elettorale) smantellato è che politiche migratorie dure possano efficacemente contrastare il fenomeno migratorio e ridurne l’impatto sulla società di destinazione. In realtà l’inasprimento dei controlli alle frontiere, gli accordi con paesi che non tutelano i diritti umani e la riduzione della possibilità di ottenere una forma di protezione giuridica, producono illegalità e marginalizzazione, senza incidere in maniera efficace sui numeri della presunta invasione.
Il puzzle di luoghi comuni non confermati che ne viene fuori mina le basi della narrazione dell’invasione, non a caso aggettivata come “immaginaria” nel titolo del volume, con una conseguenza politica importante: se l’invasione è immaginaria, le politiche finalizzate a contenerla sono prive di senso, e i loro promotori poco credibili.
In chiusura del testo Ambrosini fornisce delle indicazioni che potrebbero sostenere una diversa gestione dei fenomeni migratori, come la revisione degli accordi di Dublino e l’implementazione dei corridoi umanitari. Sul piano discorsivo, secondo l’autore, la strada per decostruire lo sguardo deformante che racconta l’immigrazione è quella dei “buoni argomenti”:
“Se si vuole difendere la causa degli immigrati, occorre scegliere dei buoni argomenti. Per esempio quello basato sulle colpe dell’Occidente non mi pare tale, o comunque ha una portata circoscritta: la visione dell’immigrazione come esito della nostra indifferenza o anche del nostro sfruttamento nei confronti dell’Africa o di altre regioni del mondo, del colonialismo e di altre malefatte […] L’Occidente ha di certo molte responsabilità […] Ma è sbagliato pensare che l’immigrazione in generale sia un fenomeno da interpretare negativamente, indotto dall’ingiustizia globale e derivante dalla povertà o dalle catastrofi naturali”
(Ambrosini, 2020).
L’intento è quello di depatologizzare l’immigrazione e deideologizzarne il racconto. Non è detto però che l’analisi critica dei dati e la strada dei buoni argomenti, per quanto illuminanti, possano essere efficaci su un pubblico poco incline a fidarsi della voce di studiosi percepiti “di parte”, e ancora inconsciamente radicato in un immaginario sull’alterità che con “le colpe dell’Occidente” ha una relazione molto stretta.
Il razzismo che non si oltrepassa
Le colpe dell’occidente, passate e presenti, sono più volte chiamate in causa da Annamaria Rivera, antropologa e attivista, nel suo recente Razzismo. Gli atti, le parole, la propaganda, che raccoglie alcuni saggi scritti tra il 1999 e il 2019. I temi trattati, il cui spunto è spesso fornito dall’analisi di alcuni casi di “cronaca razzista” distorti o addirittura ignorati dalla stampa nazionale, sono i più vari: le dimensioni linguistiche del razzismo, gli atti di tanatopolitica (politica della morte) agiti dai governi italiani e dall’Unione europea nei confronti di chi prova ad attraversare il Mediterraneo, l’islamofobia e l’antiziganismo. Nel saggio introduttivo, l’autrice dichiara l’esigenza alla base della pubblicazione di questa raccolta: la costatazione di un impoverimento del fronte antirazzista, non solo sul piano dell’attivismo, ma anche sotto il profilo concettuale. Non è più possibile, sostiene l’autrice, giustificare l’uso di certe parole, la messa in atto di determinati comportamenti e l’orientamento di alcune politiche a partire da espressioni come “paura dell’altro”, “hate speech” o “guerra tra poveri”. Si tratta infatti di spiegazioni semplificatorie che occultano il carattere sistemico del razzismo.
La linea teorico-interpretativa dell’autrice emerge con chiarezza in due saggi: “Razza”, cultura, etnicità, identità: a proposito di alcuni preconcetti e L’idea occasionale di natura. La continuità fra specismo, sessismo e razzismo. Il primo, pubblicato originariamente nel 1999, propone di intendere la “razza” come una metafora naturalistica il cui scopo consiste nella biologizzazione del sociale e nella conseguente legittimazione di fenomeni sociali di dominazione sulla base di “spiegazioni naturali”. Il secondo, del 2017, promuove l’idea che il dominio umano sugli animali, mediante la loro riduzione alla dimensione della bestialità, sia l’archetipo di altre forme di dominazione e subalternità, come il sessismo e il razzismo, per cui “la bestialità di coloro che sono in posizione dominata o subalterna diventa la garanzia di umanità di coloro che sono in posizione dominante” (Rivera, 2020). Proprio la dicotomia tra il mondo umano e il regno della natura, in cui si possono avvertire gli echi di Dialettica dell’illuminismo (Horkheimer e Adorno, 1966), suggerisce che il razzismo biologico, che l’Occidente credeva di essersi lasciato alle spalle dopo l’Olocausto, funziona ancora nella contemporaneità, anche quando non è espressamente nominato come tale. Questa dimensione biologico-naturalista del razzismo è stata alla base delle imprese coloniali e dell’immaginario sull’altro/a che lo ha legittimato. Ecco perché, come recita il titolo di un altro saggio della raccolta, Il nuovo razzismo è già vecchio.
Rivera invita perciò a riportare in superficie una serie di rimossi latenti nella storia italiana: la vergogna per il passato di emigrazione, l’antigiudaismo cattolico e l’antisemitismo fascista, il pregiudizio antimeridionale e antizigano, il razzismo coloniale. Ciò che viene interpretato come nuovo razzismo, in un paese spesso descritto come storicamente accogliente, ha radici antiche e richiederebbe un esercizio collettivo di memoria autocritica. Questo immaginario, che costruisce come “naturale” l’inferiorità dell’altro, potrebbe essere forse il maggiore ostacolo alla possibilità che i “buoni argomenti” di cui scrive Ambrosini possano un giorno trasformarsi in saperi condivisi. Nel saggio conclusivo, il più recente, del 2019, l’autrice riflette sul “salto all’estremo” che il razzismo sta compiendo oggi in Italia, non perché presenti caratteri nuovi, ma perché la politica ha prodotto una de-tabuizzazione della razza e l’ammissibilità sociale della ricerca del capro espiatorio.
In fondo l’intero volume, ripercorrendo con uno sguardo diacronico gli ultimi vent’anni della storia italiana, mostra perché quanto accade oggi nel Mediterraneo e in Libia, con cui gli stessi governi italiani stringono ripetutamente accordi, sia accettabile agli occhi degli italiani, e più in generale degli europei. Del resto anche la recente e supposta “crisi dei rifugiati”, sostiene Rivera, è espressione di un:
“cattivo passato, ben più forte di convenzioni e carte internazionali per la tutela dei diritti. Perfino la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta europea dei diritti fondamentali sono spesso violate col negare alle persone in fuga diritti fondamentali o con l’intendere questi ultimi non già come incondizionati e spettanti a ognuno/a, bensì come da concedere eventualmente e solo a determinate condizioni” (Rivera, 2020).
Ospitalità: un favore o un dovere?
Di segno opposto alle scelte politiche europee sono invece alcune pratiche di ospitalità messe in atto sempre più frequentemente dalla società civile e da privati cittadini in opposizione all’ostilità delle politiche migratorie dei propri governi. Ne parla Michel Agier in Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità. Il contesto a cui l’autore fa riferimento è prevalentemente quello francese, anche se non mancano riflessioni che si allargano all’Europa e riferimenti all’Italia e al suo sistema di accoglienza diffusa sul territorio. Anche Agier, come Ambrosini e Rivera, sembra suggerire che la crisi migratoria contemporanea è tale non tanto per sue caratteristiche intrinseche, quanto per le reazioni che suscita. Essa è in primo luogo una crisi degli stati nazionali, incapaci di gestire le sfide poste dalla mobilità degli esseri umani secondo i dettami antropologici dell’ospitalità. Si sta verificando però su scala micro-locale una forte politicizzazione delle pratiche di ospitalità, concepite come atti di disobbedienza civile in un modo in cui l’ospitalità non sembra più essere una virtù. Ma non è sempre stato così, come mostrano la “ricerca sul terreno” di matrice antropologica e l’archivio etnografico che ne deriva, di cui Agier offre diversi esempi.
Nella prima parte del volume propone infatti una riflessione di ampio respiro sul significato antropologico del termine “ospitalità” e, a partire alla sua etimologia greca, ricorda come lo xenos fosse uno straniero destinato a essere trasformato in un ospite, e dunque in un prossimo. L’ospitalità coincide con il gesto iniziale con cui ci si relaziona a chi arriva da fuori, è una fase temporanea, ma cruciale per la relazione che si stabilirà in seguito con quella persona: qualcuno da accogliere o qualcuno da escludere? In entrambi i casi, sostiene Agier, parlare di ospitalità significa riconoscere la condizione peculiare dello straniero, ovvero la sua estraneità alla società o alla comunità presso la quale giunge. Una condizione che va colta nella sua dimensione politica, perché politica è anche la scelta di ospitare, o viceversa di non farlo. Se storicamente l’ospitalità è stata incardinata in serie di pratiche rituali caratterizzate da norme e obbligazioni collettivamente condivise, oggi, e questa è la tesi centrale di Agier, diventa una “declinazione di solidarietà”, un gesto esplicitamente volontario in cui la relazione sociale non riguarda solo l’ospite e l’ospitato, ma include un terzo soggetto, lo Stato contro cui si mobilita chi sceglie di perseguire la strada dell’ospitalità.
Queste forme contemporanee di ospitalità, vengono discusse dall’autore nella loro complessità, mettendone in luce meriti e ambivalenze dovuti alla politicizzazione che le caratterizza. Se l’accoglienza diffusa sul territorio, nelle città e nei contesti locali, si oppone a ciò che lo Stato non fa, è anche vero che l’ospitalità spontanea non può sostenere la sfida che le migrazioni oggi rappresentano su scala globale, in un tempo in cui “spostarsi e condividere uno stesso mondo è diventato tecnicamente realizzabile. Resta il problema di renderlo politicamente applicabile e ammissibile fra gli uomini” (Agier, 2020).
Se le pratiche individuali e collettive di ospitalità non possono risolvere un problema di tale portata, quantomeno si oppongono alla carenza di ospitalità che caratterizza oggi l’Europa nelle sue scelte politiche. Perché è nella relazione di ospitalità che si instaura con lo straniero che si dà riconoscimento e si trova posto per chi arriva da fuori varcando una frontiera geografica, giuridica e culturale. Ma quando, come accade oggi, gli Stati si sottraggono al principio dell’ospitalità si verifica
“un’ipertrofia della frontiera e un’ipertrofia di quel momento del passaggio, segnato da un tempo di disidentificazione: che cos’è uno straniero che rimane alla frontiera? Outsider lasciato fuori, foreigner al minimo dei diritti civili? Che cosa se ne fa della sua stranezza culturale di stranger? È uno straniero in generale, anonimo, senza alcuna possibile caratterizzazione, che va verso il nulla. Nasce così una quarta figura, in forma di spettro o fantasma, che si può accostare all’invenzione dell’alien. L’immaginario estetico e politico costruisce l’alien come un “altro” assoluto e radicale, il quale non è però altro che noi stessi al più basso livello di mobilità, del riconoscimento dei diritti civili e della relazione culturale”
(Augier, 2020).
Su questa figura si costruisce l’invasione immaginaria e si rigenera il circolo vizioso del razzismo. Eppure, conclude Agier, è proprio l’invenzione dell’alien, e l’ammissibilità della sua morte alla frontiera o nel tentativo di attraversarla, ad aver generato in molti l’esigenza di praticare l’ospitalità come gesto politico, un atto di disobbedienza civile. Certo, si tratta di una soluzione temporanea, un monito nella strada per fa sì che l’ospitalità non sia un “favore” dipendente dalla volontà di alcuni, ma una “regola del diritto” a cui può appellarsi lo straniero che viene.
- Alessandro Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 2004.
- Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966.
- Enrico Pugliese, Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana, Il Mulino, Bologna. 2018.