Esiste un mondo nel quale l’astronave Nostromo non è altro che un autobus e il tenente Ellen Ripley è una signora paffutella e ridanciana anzichenò. Sono qualcosa di più di semplici discrepanze, diremmo piuttosto anomalie sconcertanti perché l’eroina che conciò per le feste l’exomorfo che terrorizzò le platee di tutto il mondo abita oramai stabilmente nelle profondità del nostro immaginario assieme all’intero cast della storia. Le divergenze però non si esauriscono qui. In quello stesso mondo, l’ingegnere capo Dennis Parker (che venne interpretato da Yaphet Kotto, scomparso quest’anno) non è un omone del Black People dall’aria minacciosa ma un sessantenne bianco piuttosto pacioccone e l’ufficiale scientifico Ash è una donna giunonica di nome Jacqui Roe! Siamo in un’altra dimensione? Macché, questo pazzo, pazzo, pazzo mondo non è altro che la nostra Terra, o meglio quella piccola porzione del pianeta chiamata Dorset, la contea del Regno Unito e più precisamente la cittadina di Wimborne, dove agiscono i protagonisti di questo Alien alieno a sé stesso riadattato per il teatro da una compagnia che risponde al nome di Paranoid Dramatics (tutto un programma).
Una pietra miliare del cinema contemporaneo re-immaginata e al tempo stesso un’operazione ludica per occupare il tempo libero a fin di bene: una ri/creazione in entrambe le accezioni. Sulle prime si può anche essere ingannati, ritenere il tutto concepito da un clamoroso ritorno dei Monty Python, celati dietro le quinte a dirigere veri attori che si fingono non professionisti. Invece no, è tutto autentico. D’altronde non è raro imbattersi in documentari che si soffermano su vicende perennemente in bilico sui confini della realtà. Si pensi a Vienna Calling (2018) di Petr Šprincl dedicato alle avventure di tale Ondrej Jajcaj, un trafugatore di tombe che si proclama filosofo e artista e vanta tra i suoi trofei una manciata di denti di illustri compositori, tra cui Johannes Brahms.
Meno comune è adattare un film per rappresentarlo a teatro, piuttosto capita il contrario, come nel caso del celeberrimo Morte di un commesso viaggiatore, ma lì nel Dorset la sfida non ha intimorito i protagonisti della vicenda, sfoggiando, in questo senso, non meno coraggio di Ripley nell’affrontare la creatura xenomorfa. Date le premesse, però, di certo la singolare storia dell’alieno rimaneggiato aveva tutte le carte in regole per rimanere confinata tra i paeselli dell’Inghilterra meridionale e invece a donare notorietà alla vicenda ci hanno pensato Danielle Kummer e Lucy Harvey nel loro divertente documentario intitolato Alien on Stage, atterrato anche nel programma dell’edizione 2021 del Trieste Science+Fiction Festival. Sarà già chiaro da questi primi cenni che siamo di fronte a un’opera sopra le righe, quantomeno inclassificabile, anche se è possibile tracciarne qualche generica coordinata.
Una tipica storia inglese
Nel seguire l’avventura dei protagonisti di Alien on Stage bisogna intanto aver sempre presente quanto ciò a cui stiamo assistendo sia intimamente britannico, dal nonsense che lo pervade da cima a fondo al do it yourself che lo sorregge, per non dire dell’accento distante anni luce da quello yankee parlato sulla Nostromo e dei corpi stessi dei protagonisti, segnati inequivocabilmente dal consumo di uova strapazzate e di pinte di birra; un phisique du rôle che però si addice di più ai personaggi della classe lavoratrice d’oltremanica che abitano il cinema di Ken Loach che all’equipaggio della Nostromo. I conti tornano, perché di lavoratori infatti si tratta.
La storia è quella di una compagnia di teatranti dilettanti, autisti della Wilts and Dorset Bus Company, i quali assieme al loro entourage familiare e un po’ di amici sono soliti mettere in scena ogni anno uno spettacolo per raccogliere fondi per beneficenza, adattando classici come La bella addormentata nel bosco o Robin Hood. Di quelle pantomime c’è da averne a noia prima o poi, ed è stata proprio questa la molla che a un certo punto ha fatto scattare in Luc Hayward il desiderio di lavorare su altro, di scatenare la fantasia, di volare alto. Luc è il figlio di Lydia Hayward, la Ripley di cui sopra.
Il giovane Luc ha progetti ambiziosi, pensa a Kill Bill, Pulp Fiction forse a Le colline hanno gli occhi, oppure a Tombstone, poi si opta per Alien, il primo capitolo della saga con il quale Ridley Scott ne 1979 sconvolse le platee di tutto il mondo. Viene giudicato più adatto e gestibile sul palcoscenico perché in fondo “è un ottimo film per un adattamento […] molto semplice con pochi cambi di set”, precisa il talentuoso sceneggiatore. In men che non si dica, Luc stende il copione e si definiscono i primi ruoli: la mamma sarà Ripley e suo padre Dave Mitchell si occuperà della regia. In fondo sa tenere insieme una truppa, avendo undici anni alle spalle trascorsi nell’esercito. Quanto al nonno materno, Raymond, ex muratore e ora pensionato, il suo compito sarà quello di costruire il set il più dettagliato possibile, basandosi sull’aver visto il film “qualche volta”.
Familiari e amicizie, si è detto, infatti della partita è anche un altro dipendente della Wilts and Dorset Bus Company: Peter Lawford. Lui fa i turni di notte ma è un bricoleur per natura e difatti si ingegna con polistirolo, fili, spugna isolante, compensato e quant’altro per fabbricare il costume dell’alieno, applicando soluzioni tanto geniali quanto divertenti per renderlo credibile, a iniziare dal movimento della coda. Per far le cose al meglio studia anche online.
Eroi improbabili per una sfida epica
Il cast prende forma e altri autisti scendono in campo: Mike Rustici e Jason Hill si assumono il compito di interpretare rispettivamente il succitato Parker e il capitano Dallas, a John Elliott tocca l’ingegnere tecnico Brett, mentre la navigatrice Lambert prende le forme di Carolyn White, altra autista dall’aria piuttosto fulminata. Il vero mattatore sarà il giovane Scott Douglas, che essendo un attore in erba, si fa carico di due personaggi: non solo interpreterà Kane, il vice di Dallas, ma anche e soprattutto vestirà i panni dell’alieno. Infine, una controfigura per Ash, un’altra autista, Susan Baird, la cui vera passione sono le moto. Dopo lunghi preparativi l’equipaggio si esibì all’Allendale Center di Wimborne ottenendo un fiasco clamoroso: venti spettatori circa, alcuni piuttosto smarriti. Non tutti però, perché l’idea spaziale dei Paranoid Dramatics era arrivata chissà come a Danielle Kummer e Lucy Harvey, che si recano ad assistere allo spettacolo.
La prima è già attiva come documentarista e pubblicitaria, l’altra è docente di design e cultura visiva, nonché stilista per il cinema, la moda e la pubblicità. Le due sono entusiaste del progetto, lo sostengono, parte anche una campagna di crowdfunding. Ora l’alieno è pronto per invadere la capitale. Obiettivo: il Leicester Square Theatre nel West End. Assieme alla spedizione su Londra nasce il documentario; tra interviste, preparativi, filmati delle prove, battute tra vecchi amici, che bevono e fumano appena possono, la prima parte di Alien on Stage scorre mostrando una galleria di personaggi quasi indecifrabili come l’alieno stesso, che pongono allo spettatore domande, gli instillano dubbi, stimolando riflessioni e considerazioni.
Interrogativi co(s)mici
Dobbiamo addebitare a una sana follia creativa la decisione di affrontare l’alieno sul palcoscenico che aveva ospitato eroi del beat, del rock e del punk come gli Small Faces, i Rolling Stones, gli Who, i Sex Pistols e i Clash, quando il teatro era chiamato diversamente? Oppure è tale la forza di alcune narrazioni di massa da sedimentarsi prima e smuovere sotterraneamente in seguito l’immaginario di una persona qualsiasi, come questa brava gente del Dorset? Oppure si fanno beffe di noi, di Ridley Scott e del suo alieno i Paranoid Dramatics, o ancora: credono davvero in quel che fanno? Stanno giocando a fare gli impacciati, li interpretano o lo sono davvero perché alle prese con qualcosa che non è alla loro portata? Non lo sapremo mai di certo, perché, qui viene ribadito una volta ancora che il vero alieno è l’umano. Qualche certezza resta; emerge di sicuro la coesione del cast e della troupe, come un equipaggio in fondo, un gruppo affiatato e mosso da rispetto reciproco. Repetita iuvant: l’uomo è un animale sociale. Inoltre si divertono da matti. Per studiare meglio le parti del copione di Luc, prima di recarsi a Londra guardano tutti insieme il dvd con le riprese dello spettacolo e si lasciano andare a sonore risate.
Si giunge così al gran finale. Nella seconda parte del documentario assistiamo alla messa in scena dei momenti chiave dello spettacolo (e dunque del film, a iniziare dal celeberrimo Facehugger accolto con un boato dal pubblico), al dietro le quinte con tutti gli stati d’animo vissuti dalla squinternata brigata, agli ooooh e gli ha!ha! del pubblico che si sganascia dal ridere, agli effetti speciali assai naïf realizzati per il palcoscenico e alla sala del teatro gremita (spettacolo sold out). Non resta da dire altro che tutta la faccenda è assai spassosa, che i coraggiosi ed entusiasti dilettanti allo sbaraglio la fanno franca (“è bello essere dilettanti, la si passa liscia”, confessa il regista a fine spettacolo), così seri e impassibili come sono nel recitare le loro eroiche battute, anche se capita che scappi da ridere anche a loro, che il pubblico li premi e che in fondo l’alieno colpisca ancora dritto in fondo nel nostro immaginario da par suo: in un modo che non ti aspetti.