Scrive Patrizia Zappa Mulas nella prefazione a La morte del padre, che, oltre a introdurci alla complessità del mondo di un’autrice assolutamente fuori dall’ordinario, ne omaggia, anche affettuosamente, il talento in un’analisi attenta che ce ne dischiude i segreti, quantomeno una parte considerevole:
“Ci sono scrittori per lettori, e ci sono scrittori per scrittori. Non è una distinzione pedante. Alla seconda categoria appartengono i giganti che i sondaggi non registrano nelle classifiche dei più letti ma possono sempre diventare fatali per un lettore appassionato. Ci vuole il tarlo, la tara, la pazzia letteraria. A questa categoria appartengono anche scrittori contemporanei che hanno scelto la strada in salita dell’esperimento. Alice Ceresa è tra questi autori di cui si può incantare chi scrive o chi ha con la letteratura un rapporto serio, sostanziale, non di puro passatempo”.
D’altronde, se la Ceresa non avesse posseduto i requisiti accennati, non le sarebbe stato facile ritagliarsi uno spazio tutto suo nella letteratura contemporanea attraverso una produzione letteraria assai scarna: ciò nonostante l’esordio, avvenuto con La figlia prodiga e apprezzato da Ignazio Silone, Goffredo Parise, Maria Corti, Italo Calvino, da Luigi Comencini e Giorgio Manganelli, giusto per citarne alcuni, avesse lasciato presagire un percorso letterario costellato di un numero di pubblicazioni adeguato alla misura del suo talento. In realtà Alice Ceresa scrive, ma scrive prevalentemente per sé, poco incline a trasmettere al mondo l’universo inquieto degli affetti che popolano il suo immaginario e che si ricompongono magnificamente, alla luce di un realismo travalicato dall’esigenza di generare quello che non c’è, senza che ciò equivalga a cadere nell’opposto dichiaratamente fantastico.
Sta in uno strano limbo la scrittrice. E vi sta perché nasce laddove un’abbondanza di tessere e un’inidoneità dell’ambiente a ricomporvele spingono verso altre mete. Nata a Basilea il 25 gennaio del 1923 all’interno di una famiglia patriarcale e di un sistema sociale, quale quello svizzero, che ne legittimava consensualmente la normazione della medesima in quanto tale, Alice Ceresa si sente in gabbia e fugge a sedici anni, muovendosi tra la costa francese e Zurigo in cerca di sé lungo un percorso in cui la scrittura non si pone mai come piano separato dal bisogno di accettazione, intima e sociale, in qualità di donna. Scrive:
“Lo sgomento di non potersi considerare un essere umano a pieno titolo è un’esperienza tremenda, che andrebbe analizzata. Non c’è accesso naturale, libero, gioioso alla vita per chi nasce donna”.
E, se è vero tutto questo, lo è altrettanto il fatto che la sua scrittura nasce esattamente da questo stato di assenza di libertà e di gioia, dall’artificio con cui ci tocca conquistare pari dignità, senza che ciò avvenga per ordine naturale delle cose. Dalla scomposizione che il vivere sociale, e talvolta familiare, impone alla nostra identità di donne scaturisce l’esigenza creativa della scrittrice: un bisogno di ricomposizione delle fratture che non è un meccanico ricongiungimento di pezzi lasciati per strada, ma un loro superamento mediato da una sotterranea pietas celata da un abbondante strato di coscienza e ironia narratologicamente e linguisticamente resi in anomale strutture e in un rigoroso uso della lingua senza precedenti che taglia, circoscrive, senza per questo privarsi di densità. Se la scrittura compensa l’aridità affettiva di un passato che si impone quale origine dello sgomento di non essere, essa è altrettanto in grado di agire su un piano più complesso che include lo stato di coscienza. Scrive sempre Alice Ceresa: “Sempre gli anni della nostra incoscienza sono e rimangono disabitati”. Dunque, un vuoto che lo scrivere non ha la presunzione di colmare. Ciò che è mancato è mancato e mancherà, ma in quelle terre desolate sarà possibile tornare con uno sguardo differente restituendo a sé stesse non un’altra verità storica, ma l’incontro tra la limitata circoscrizione in cui si sono mossi uomini e donne nelle loro dinamiche impedite e l’inesistente, quel margine con cui la finzione letteraria, più che concedere un’evasione, regala l’opportunità di una visione. È, in fondo, esattamente questo ciò che accade ne La morte del padre. Non è casuale ciò che scrisse al riguardo Alfredo Giuliani, riportato nella prefazione di Zappa Mulas:
“Un racconto mirabile: c’è una pacata visionarietà che fa pensare a certi racconti magici e fantasmatici di Kipling e di Henry James. Testo davvero straordinario”.
Il testo nacque su commissione della Radio Svizzera Italiana e fu probabilmente l’esigenza di contenere il tutto nei limiti di una trasmissione radiofonica, registrata e trasmessa nel 1978, un anno dopo la morte realmente avvenuta del padre della Ceresa, che la indussero a smussare gli angoli della propria rigorosa e più estesa idea di letteratura. Il risultato fu talmente innovativo e notevole da finire pubblicato l’anno successivo nel numero 62 della famosa rivista Nuovi Argomenti, diretta da Alberto Moravia, Attilio Bertolucci ed Enzo Siciliano. Il racconto è la storia di una trasformazione, quella che fisiologicamente vive il corpo del padre defunto, ma anche quella per effetto della quale il ricordo del padre assume fattezze fantasmatiche nel passaggio che precede il definitivo abbandono, anche nell’ottica visionaria di cui sopra, della dimensione terrena. Lo esplicita un passaggio:
“Adesso la figura del padre stranamente inizia una sua lunga serie di metamorfosi molto simili alle laboriose spoliazioni di certi rettili della famiglia degli anellidi”.
Lui abbandona le originarie forme, mentre la moglie e i tre figli sanno di essere i primi responsabili di un altro abbandono, quello inversamente rivolto al padre malato: “Adesso quello che morde i loro cuori è l’abbandono di cui si sono resi colpevoli”. Dunque, la trasformazione investe prepotentemente il racconto, ma questo accade unitamente a un altro tema fondante, quello della separazione che, in qualche modo, al primo si lega. L’evento della morte del capofamiglia viene vissuto da ciascun membro in maniera personale: madre, figlie e figlio, per effetto della sua scomparsa, si trasformano inevitabilmente, diventano altro o si consolidano in forme di resistenza alla tangibilità dell’assenza, agiscono verso una direzione, ma ognuno lo fa in autonomia rispetto all’altro, senza punti di congiunzione e generando lo sfaldamento dell’unità familiare tenuta insieme dall’autorità paterna. Ed è esattamente questo il punto o uno dei punti cruciali, provenendo in fondo dall’esperienza patriarcale autobiografica vissuta dall’autrice: venuto meno ciò che ne imponeva lo stare saldi e congiunti, ciascuno si incammina liberamente verso sé stesso, abbandonando il terreno monocromo delle radici familiari. Ma cosa resta del padre? Come affronta, quel che rimane della famiglia, il vuoto della relazione con cui farà inevitabilmente i conti e conseguentemente il ricordo che infierirà sul primo? Scrive Alice Ceresa:
“Lentamente negli autonomi luoghi della mente degli altri evolve nelle circonvoluzioni oramai intangibili di una sua ultima vita che infine si localizzerà anch’essa in un solo atteggiamento ripetitivo e ieraticizzato destinato a raccogliere e a ricomporre i ricordi di sé, ora ancora sparsi e molteplici e compresi nell’inquieta ricerca di un finale riposo”.
Scrive questo l’autrice e lo fa ponendo un filo sottile tra la vita fantasmatica del padre e l’evoluzione del ricordo in ciascuno dei suoi familiari, quasi fossero questi gli ultimi responsabili del suo destino, abbandono inevitabile incluso, anche solo nella forma sostitutiva di una verità storica con ciò che è sostenibile nella fatica di un cammino che da un’eredità non può prescindere. La figlia maggiore, “esclusa dai suoi affetti”, lo incorpora, trovando “un modo organico e vivo e in fondo conviviale di comunicazione ancora o finalmente con la figura di sempre del padre”: è in fondo la più fragile, perché, mancando della relazione con il padre, per poterne vivere l’eredità deve in qualche modo farlo esistere per la prima volta. Lo fa in un atto di cannibalismo, lo fa introiettando il corpo paterno salvato dalla scomparsa e dalla “sempre più debole e dissolvente figurazione mentale”. La figlia maggiore cresce in questo modo, cresce e risorge dalle ceneri dell’inesistenza, diventa quello che non è mai stata, non più “intimidita e malsicura”, ma una creatura latrice della vittoriosa fierezza della condizione di primogenita. E, “in questi gaudenti fasti”, finirà per dimenticare il padre in un apparente paradosso destinato a dissolversi di fronte alle conseguenze dell’acquisizione di un ruolo, insieme al corpo, in cui l’amore è un atto di dominio, “la sapienza e la conoscenza del bene altrui” che si impone sulla libertà dell’altro, fosse anche il proprio padre.
The slain lemminkäinen (1899) di Akseli Gallen-Kallela.
La figlia minore è l’altra parte della storia familiare preclusa all’identità femminile, un’infelicità che non ha uno sbocco se non nella distorsione del dato storico quel tanto che basta a rendersi eredi senza troppo soffrire al seguito. Qui un padre è esistito, seppure nelle forme in cui non avremmo voluto, ma ricompare nella visione filiale attraverso irrequiete scansioni di luce e buio che, nel loro rapido e nervoso alternarsi, impongono una stabilità, quella della formulazione dei pensieri: ne nasce una sorta di “padre concettuale”, che vive di “vita impropria”, nella partecipazione a “densità esistenziali” mai sentite o nel tremolio del dubbio. In entrami i casi impastandosi, talvolta, di materia realmente accaduta:
“Lentamente si ricompone fuori di lei un essere sconosciuto e autonomo di cui si sa e si è conosciuto poco o nulla”.
È, forse, lei che sperimenta maggiormente l’esperienza dell’abbandono: un amore complesso, un desiderio di accettazione, una tensione, una delusione, un padre che manca rispetto ai nostri desideri, una ricostruzione sulle falle. Il figlio è quello che ha travalicato la posizione filiale e, divenendo padre egli stesso, senza incorporarlo, ne ha riprodotto le medesime dinamiche di partenza: un solco già tracciato, un sentiero da percorrere, un imperativo a seguirlo e un andare meccanico. Tutto nella logica di una ripetizione, una scansione temporale rapida e quasi asettica, come le immagini che si stagliano nella sua mente, di un padre e di un figlio di età diverse, immagini che si susseguono “contenute e uguali”. Il padre è esistito e se ne è garantita la prosecuzione dinastica. La madre sperimenta una partecipe indifferenza alle sorti del marito: ne porta con sé la sapienza, ma non ne conosce da tempo la comunicante vicinanza, divenuti i due l’emblema dell’estraneità tra monadi suggellata dal rito del matrimonio. Compare nel presagio del cane che lo accompagnerà nell’ultimo transito terreno e nella coscienza di un altro tempo, silenzioso e profondo, e di un altro luogo, quello delle distese di lapidi, che sarà presto anche il suo, il senso nostalgico di un antico affetto. È la “motivata coercizione della parentela” a tenerli tutti uniti oramai. Anche se ciascuno è già dentro il proprio viaggio e l’unità un antico ricordo destinato a scomporsi come i resti del padre. Nonostante l’osservazione di Giuliani che volge la sua attenzione alla componente visionaria, il tratto caratteristico di partenza della scrittrice di Basilea rimane l’adesione a un certo realismo dentro cui la prima si fa necessariamente strada.
Alice Ceresa (Basilea, 25 gennaio 1923 – Roma, 21 dicembre 2001).
Un intero capitolo è dedicato all’allontanamento del padre dagli oggetti della casa, quasi non si potesse prescindere da un passaggio materiale, eppure immaginario, per restituire anche al defunto la libertà del viaggio, di un altro viaggio. Persino la lingua non è esente da questa dinamica, seppure artificiosamente camuffata dall’estetica impiegata: il pensiero si articola in forma estremamente complessa, spingendo verso universi inimmaginabili il lettore che, distolto dal reale, si perde in arzigogolate fantasmagorie prima di accorgersi che la narrazione è estremamente realistica, lo è tanto da imporre un’adesione al dato di realtà che il tecnicismo trapelante qua e là rivela senza ombra di dubbio. Proprio questo aspetto ce ne consente una distinzione rispetto al rapporto con il reale di Anna Maria Ortese. Scrive Matteo Moca efficacemente:
“La centralità di questo sguardo sul reale che, ferito dalla violenza del mondo di cui è primo responsabile l’uomo stesso, necessita di uno schermo mediatore per poter essere messo in scena, mette in campo l’annosa questione dell’adesione di Anna Maria Ortese al genere fantastico. Ma se […] la definizione di fantastico calza in maniera abbastanza precisa per alcuni frangenti dell’opera di Ortese proprio in relazione allo sguardo della narratrice che invita all’esitazione per poi mostrare come dentro quelle rappresentazioni sia presente il vero mondo che abitiamo, credo che non si possa in alcun modo perdere di vista la questione del doppio sguardo leopardiano […]: il fantastico di Ortese […] ha una sua carica politica difficilmente arginabile, perché l’utilizzo di elementi soprannaturali, al confine tra realtà e sogno, è l’unica via per mostrare un reale altrimenti irrappresentabile, le brutture e le violenze, le sopraffazioni e l’egoismo che costellano il mondo reale, vissuto quotidianamente con sofferenza e spiccata sensibilità dalla scrittrice”
(Moca, 2022).
Dunque, un fantastico che offre paradossalmente ingresso all’orrore del mondo e aiuta a sostenerlo. In Alice Ceresa lo sguardo è immediatamente rivolto al reale che entra nelle pagine con tutto il suo carico di limiti. La lingua ne smussa gli angoli elevandosi sulla miseria del mondo e apre la strada alla visione dentro una prospettiva per effetto della quale, agendovi il tempo, ogni cosa verrà restituita per quello che è stata. E un padre sarà finalmente e semplicemente “solo” un padre.
- Matteo Moca, Un’esigenza di realtà, LiberAria, Bari, 2022.