Alan Wake è una popolare saga videoludica che ruota intorno ai tormenti psicologici dell’omonimo scrittore di thriller in fuga dalla città per risolvere il suo blocco creativo. In giro per la cittadina di Bright Falls, in cerca di relax campagnolo, trova misteriosi appunti sparsi.
“Nightingale cercò di dare un senso al manoscritto. Era frammentario e strano. Non ci capiva quasi niente, ma era tutto incredibilmente realistico. Tirò fuori la sua fiaschetta quando arrivò alla pagina che descriveva come era arrivato alla pagina che gli aveva fatto tirare fuori la fiaschetta. Vacillò, e non a causa dell’alcol”.
Cose scritte da Alan Wake ma di cui Wake non ricorda nulla. Il povero scrittore finisce con l’essere risucchiato dal lago Cauldron, calderone onirico e interdimensionale altrimenti noto come Luogo Oscuro, un garbuglio di sogni e finzioni, una sorta di inferno dove sembra essersi depositata tutta l’immaginazione horror dell’umanità. Lampi di Howard P. Lovecraft, Stephen King e David Lynch definiscono quello che sin dal primo capitolo è il selling point dell’epopea sviluppata dallo studio finlandese Remedy Entertainment: un ricchissimo universo narrativo citazionista condensato nelle notevoli sceneggiature firmate da Sam Lake, al secolo Sami Antero Järvi (quest’ultima parola significa “lago” in finlandese). Un universo coeso, un Remedy-verse (“Remedy Connected Universe” come lo chiama lo stesso Lake) che, oltre ai due videogiochi intestati ad Alan Wake, comprende anche i titoli Control e Quantum Break a condividere lo stesso continuum di fatti, persone e follie.
Quando la macchina da presa incontra il gamepad
Particolarmente interessante la spregiudicatezza con cui Sam Lake e Remedy distorcono l’usuale asse cronologico allo scopo di condurre una danza metalinguistica fatta di ombre senzienti, matrioske narrative e sfondamenti della quarta parete. Il cinema ha giocato con il montaggio per più di cento anni, proponendo sfide alla logica, stimolando il fruitore a unire i puntini con l’intelletto, ma sempre cercando di mantenere alta la suspense e la capacità di sorprendere. Certi capolavori come Quarto potere di Orson Welles hanno addestrato all’unificazione delle parti cercando nel flusso delle sequenze anche un nesso psicologico e non meramente logico. Un nesso che può suscitare emozioni diverse o pensieri sparsi lasciati volutamente a quel reame indistinto e della soggettività di chi è disposto a mettere insieme i pezzi. Come accade con Pulp Fiction di Quentin Tarantino per esempio. Il videogioco può fare altrettanto, proponendo perversioni logiche e cronologiche molto più invasive sul piano emotivo. In giochi come Alan Wake 2 il voltare pagina per capire meglio cosa accade costringe chi gioca a una simulazione che può portare ad abbracciare le logiche più bizzarre e contorte. Il primo capitolo della saga non è che una bozza di Alan Wake 2 in cui Remedy alza il tiro del suo audace metalinguismo. La geografia dei riferimenti di Sam Lake sguazza molto nella cinefilia. Personaggi catturati in infernali coazioni a ripetere e striscianti epidemie di follia collettiva ruotano attorno alla ricerca di un famoso scrittore di bestseller scomparso, proprio come quello in Il seme della follia (1994) di John Carpenter. Nel gioco si intensifica anche il coinvolgimento emotivo garantito da un impressionante fotorealismo fatto di spudorati eccessi chiaroscurali e un folle gameplay ricco di intuizioni come le scenografie che mutano al variare degli indizi raccolti. I tempi sembrano maturi perché anche il medium videoludico abbia il suo Quarto Potere.
Bright Falls non dista molto da Twin Peaks
In Alan Wake 2 entra in scena la povera Saga Anderson (l’altro personaggio protagonista manovrato dal giocatore insieme a Wake), incagliata in quella rete di invenzioni narrative ordite da Wake per alterare la realtà e consentirgli un modo per evadere dal Luogo Oscuro. Nel mettere insieme ambienti e personaggi, la sceneggiatura di Sam Lake insiste molto su David Lynch e su Twin Peaks. Non a caso Saga è un agente dell’FBI. E allora giù fiumi di caffè che scorrono da thermos marchiati “Oh Deer Diner” (ottima trovata per il merchandising che, in un video promozionale, Sam Lake definisce “la cosa più calda che abbiamo fatto quest’anno”) facendo il verso al “damn good coffee” sorseggiato dall’agente Dale Cooper in Twin Peaks.
Twin Peaks e Bright Falls sono entrambe ridenti cittadine dello stato del Washington nel nord-est degli Stati Uniti. I boschi che le circondano sono anticamere da cui sbirciare altre dimensioni. In Alan Wake 2 lunghe dissolvenze incrociate rivelano passaggi dimensionali e ricordano analoghe sovrapposizioni viste nei boschi di Twin Peaks, dove le apparenze sono ingannevoli quanto il mitico tronco senziente cullato dalla Signora Ceppo. Luoghi liminali ai confini della realtà come ci ricorda costantemente il misterioso Warlin Door in Alan Wake 2 mentre lancia il trailer dell’ultimo episodio di Night Springs, fittizia e seguitissima serie tv che nel Remedy-verse rende omaggio alla popolare Twilight Zone di Rod Serling proponendo divertenti inserti di alleggerimento. Ma qui c’è anche il riferimento a una popolare narrazione fantastica fatta di espedienti e fuoricampo, alla ricerca di una densità metaforica perseguita anche da Lynch e Lake. Selezionando Twilight Zone come ascendente Lake sottolinea la sua volontà di proporre una narrazione fatta di idee e non solo effetti speciali. Anzi proprio la cura dimostrata nei tanti testi scritti e nel sofisticato apparato epistolare disseminato nei giochi Remedy dimostra la vocazione transmediale dello studio finlandese, perfettamente coerente con l’inclusività della semiosi videoludica. Bright Falls e il vicino lago Cauldron sono veri e propri terminal di imbarco (e in questo capitolo anche sbarco) collegati con l’Ade rappresentato dall’immaginazione orrorifica imbottigliata dentro il Luogo Oscuro. Qualcosa di molto simile alla Loggia Nera e a tutto ciò che ne fuoriesce. Alan Wake, come Cooper, è l’eroe che si sacrifica dandosi in pasto all’oscurità interdimensionale. Entrambi eroi che ritornano dopo decenni.
Nella stanza dello scrittore al lavoro sull’ultima (?) bozza.
La prigionia di Cooper dura ventisei anni, ovvero l’intervallo tra la seconda e la terza stagione di Twin Peaks. Per Alan Wake sono quei tredici anni che separano il primo e il secondo capitolo della saga videoludica. Sono intervalli di tempo piuttosto lunghi, degni di autentiche odissee omeriche, tanto da far venire il dubbio che i novelli Ulisse non siano stati poi così male nell’oscurità. Certamente periodi che hanno giovato alla creatività di Lynch e di Lake, i quali hanno potuto accumulare idee ed esperienze per fare le cose con la giusta calma, protetti dai rispettivi mecenati, al riparo dai ritmi produttivi di quella parte dell’industria prona al consumo più ottuso e frettoloso di storie e personaggi. Come in Twin Peaks, Sam Lake si muove in una zona grigia tra la parodia (tutte le cutscenes con Warlin Door, in particolare le mirabolanti scene in cui il talk-show à la David Letterman esplode in allucinanti inserti musical) e il dramma strappalacrime (la figlia di Saga è morta sì o no?). L’altro fondamentale punto di contatto con Lynch è lo sdoppiamento della personalità dell’eroe Cooper/Wake. Quando Alan (scrittore di gialli) è alla sua postazione (nel Luogo Oscuro) a lavorare, sappiamo che il suo lavoro verrà presto rimaneggiato dal suo doppelganger chiamato Mister Graffio (scrittore horror a giudicare dalle sue modifiche). Comincia un duello in cui lo scrittore e il suo doppio si inseguono strappando a morsi parti della trama.
Una partita psicologica che sembra avere conseguenze concrete sugli eventi del cosiddetto mondo reale. Wake ha un ulteriore alter-ego: Thomas Zane. Se Graffio è il classico doppio malvagio, Zane funge brevemente da mentore in una ricerca creativa per sfuggire alla depressione e alla passività rappresentata dal Luogo Oscuro. In Twin Peaks – The Return: dall’agente Dale Cooper vengono fuori il tulpa Dougie Jones e il doppio malvagio BadCooper. Quest’ultimo è usato da Lynch come pretesto per richiamare l’archetipo della lotta bene/male e collocarlo all’interno del medesimo corpo. Sam Lake raccoglie quella stessa intuizione per restare in sintonia con la più classica tradizione narrativa americana del Novecento.
La ridente Bright Falls si prepara ad accogliere la Festa del Cervo.
Il sociologo dei fenomeni culturali Gino Frezza individua negli anni Trenta un periodo di reciproche influenze tra cinema, fumetto e letteratura. Qualcosa di molto simile a quello che avviene oggi tra cinema, tv e videogioco. In particolare Frezza segnala la pellicola di John Ford Tutta la città ne parla come interessante anticipazione delle fortune degli albi a fumetto e delle questioni identitarie aperte da Superman (cfr. Frezza, 1995). Si tratta di un gangster movie del 1935 che è anche una commedia di equivoci con al centro Edward G. Robinson che interpreta il doppio ruolo del feroce criminale Mannion e del mite impiegato Arthur Jones, che ha un bel lavoro d’ufficio proprio come quello del Dougie Jones lynchiano. Arthur è talmente simile al famoso killer da dover andare in giro con una lettera del procuratore distrettuale per non essere arrestato. Quando Mannion scopre il suo sosia comincia una lotta tra i due per l’identità, per la libertà e per la vita. A margine va ricordato che Paolo villaggio lo parodiò in Fracchia la belva umana diretto da Neri Parenti nel 1981.
Le amate torce, sempre utili per affrontare insicurezze e demoni interiori.
Il film di Ford comincia una riflessione sulla modernizzazione del mito del doppelganger che, proprio in quegli anni, verrà proseguita dal Superman DC Comics creato da Jerry Siegel e Joe Shuster. Nel fumetto esplode la trovata del corpo eroico dalla doppia identità: il giornalista Clark Kent è l’alter-ego terrestre del potente alieno Kal-El, a fare da capofila di una lunga serie di eroi in calzamaglia. Da Hollywood a Metropolis fino ad Alan Wake si avverte quel valzer di dualismi tra forza e debolezza, emancipazione e sottomissione che caratterizzano la convivenza civile nelle città moderne. Cosa può l’inerme cittadino (l’uomo-massa novecentesco) contro l’ondata di violenza scatenata da un gangster o da un supervillain proveniente da questo o da un altro pianeta? Insomma Alan Wake 2 non scherza affatto sia sul terreno dei riferimenti storici così come su quello delle contaminazioni tra cinema, televisione, letteratura mainstream, fumetto e fantascienza: coerentemente al mandato espressivo del videogioco che può contenere tutto. Sam Lake insiste anche sul fatto che il gemello cattivo è pur sempre parte dello stesso Alan Wake. Il doppio inscritto in un solo corpo definisce l’interazione di due distinte psicologie che si illuminano reciprocamente, come parti di una monade. Quando Wake vaga per i vicoli della sua New York/Luogo Oscuro è perseguitato da orde di NPC fatti di ombra che si rivolgono a lui sussurrandogli: “Alan Wake, esci dal mio racconto”. Parla Graffio? O sono proprio le ombre senzienti che reclamano una qualche condizione esistenziale? Anche Saga genera un suo doppio: nel suo palazzo mentale, la risoluta detective deve combattere la sua metà oscura che la tira giù verso l’insicurezza, la depressione e l’oscurità.
Inseguendo la luce per le strade di Noir York City.
Il tabellone degli indizi contiene la verità dietro i fatti ma anche l’orlo di un baratro quando tra le cartelle dei casi da investigare compare la sua stessa vita. Tra i foglietti riguardanti sospetti e indiziati, cominciano a comparire dettagli sulla sua stessa esistenza, le sue debolezze, le sue mancanze come madre, figlia e detective. Diventa debole e insicura anche nell’azione di gioco. Il Luogo Oscuro è pronto a divorarla. Riuscirà a divincolarsi per aiutare Wake a migliorare l’ultima bozza? Se Cooper e Saga sono coloro che cercano le connessioni sul campo, come fanno gli investigatori, Alan Wake è colui che quelle connessioni deve scriverle. E noi con lui. Ed è qui che sorge il grande dilemma del game designer: come trasformare una premessa narrativa così articolata in un gameplay coerente e che non risulti essere un banale film interattivo? Come fare in modo che le dinamiche di gioco siano degne di quanto scritto nella sceneggiatura? La risposta fornita da Remedy è anche nei radicali progressi nel gameplay tra il primo e il secondo Alan Wake. La sceneggiatura è affiancata da meccaniche di gioco coerentemente folli: mappe difettate (ci vuole un po’ per capire che non sono bug di programmazione quei cunicoli che portano giù quando dovrebbero portare su) ed enigmi ambientali basati sull’alternanza luce/buio, sul perturbante delle coazioni a ripetere. Il gameplay di Alan Wake 2 cerca e trova la sua strada verso un’equilibrata miscela di flussi audiovisivi attivi e passivi, mirando alla purezza primordiale nella paura, a quel lampo di assoluta verità emozionale perseguito da David Lynch con altri mezzi.
Riflessione sull’artista e sull’atto creativo
Alan Wake non può scrivere quello che vuole per evadere dal Luogo Oscuro perché ha dei vincoli morali. La riscrittura del reale (ovvero ogni scostamento tra l’elemento di ispirazione e la sua trasposizione narrativa) implica l’immissione di una certa dose di oscurità nel reale stesso. Alan può solo provare a spingere un po’ le cose a suo favore definendo piccoli dettagli sparsi per il gioco come ad esempio il clicker (il pulsantino che accende la lampada alla base degli enigmi luce/ombra di New York) o i thermos del caffè infinito che fungono da stazioni di salvataggio. Insomma, sul filo di MacGuffin, deus ex machina e altri espedienti narrativi, Alan Wake 2 ci porta nella stanza dello sceneggiatore e Sam Lake ci mostra i dilemmi del creativo tra svolte, vincoli dettati dalla morale e da logiche industriali. La Stanza dello Scrittore (quando si manovra Alan Wake) e il Luogo della Mente (quando si manovra Saga Anderson) sono modalità di gioco richiamabili in qualsiasi momento dal giocatore. L’azione si ferma e si ha la possibilità di tirare il fiato e mettere in ordine le informazioni raccolte in specifiche stanze dall’aspetto familiare. A ciascuno la sua Fortezza della Solitudine, tornando per un attimo a Superman. La stanza mentale di Alan è piuttosto lugubre. Una mansarda buia e spoglia.
L’inquadratura d’ingresso mette spesso in evidenza le due finestre dalla forma circolare, occhi puntati verso di noi e verso il nulla del buio esterno. La Stanza dello Scrittore è contemporaneamente una sandbox e un loop infernale per Alan Wake che cerca di scrivere una trama in grado di farlo evadere dal Luogo Buio. Anche Saga Anderson ha il suo rifugio mentale. Con il suo tabellone degli indizi la detective crede di poter penetrare i misteri della trama. Dal canto suo Alan può addirittura cambiare parti della scenografia con un clic. Ma il flusso impetuoso della sceneggiatura è incontrollabile. Ogni investigazione sembra inutile. Vediamo nel prologo la sorte del povero agente Nightingale dopo anni di indagini sulla scia di sangue che circonda la sparizione di Alan Wake. Lo stesso dicasi per le piccole perle di disillusione hard-boiled che hanno come protagonista Alex Case, fittizio investigatore noir-newyorkese uscito dalla penna di Wake. Insomma ogni pensiero alfabetico e procedurale appare un’inutile perdita di tempo. Resta solo la potenza delle immagini e delle sensazioni correlate. Ma questa estrema ma temporanea chiarezza non è una conquista, piuttosto il lasciarsi andare al mistero di un linguaggio confuso e impraticabile nella vita quotidiana: quello delle immagini e dei suoni che sostituiscono i testi scritti.
Il videogioco è un medium freddo
I luoghi mentali di Saga e Alan esprimono la costante antropologica di un essere umano che ha da sempre fame di scrivere, di prendere appunti, di costruire ridicoli schedari come quelli kafkiani giocati in Control: tutti argini che mirano a un fluire ordinato, senza tracimazioni, ma che non possono nulla per contrastare lo scorrere del tempo e delle mode. Quello che invece resta sempre è il gioco. Negli spazi virtuali incarniamo personaggi che, a loro volta ci incarnano. E cresciamo così, istintivamente consapevoli dei giochi di ruolo di volta in volta attivati a seconda del momento e del contesto sociale. Proprio nei giochi elettronici risulta ancora più evidente la qualità dei media industrializzati come protesi della coscienza umana: essi non sono tanto veicoli di messaggi o idee quanto piuttosto parte di noi e del nostro sistema di pensiero. I progressi nella potenza computazionale implicano quasi automaticamente una maggiore immersività e quindi un maggior coinvolgimento emotivo nel videogame. Di fronte al fotorealismo di Alan Wake 2 e a quanto questa qualità dell’immagine venga programmaticamente sfruttata per scopi patici viene da interrogarsi sulle potenzialità di una simile macchina per creare emozioni. Non sono ancora chiari nel dettaglio i modi concreti in cui questa potenza computazionale/emozionale possa avere un impatto sociale, culturale e politico. Intanto il suo raggio d’azione non sembra illimitato perché, pur avendo raggiunto il rango di industria più ricca nel campo dell’intrattenimento, il videogioco (almeno oggi) non sembrerebbe in grado di raggiungere il livello di penetrazione conseguito dalla televisione e dall’internet in quanto strumenti comunicativi.
Nel Luogo Oscuro, regno delle ombre senzienti.
Rispetto ai videogame, web e serial tv hanno maggior consonanza con il quotidiano, infiltrandosi e confondendosi con i tempi del lavoro e dello studio, strutturandosi come presenza costante. Il vissuto sintetico proposto dal gaming di grande impatto emozionale ha invece bisogno dei suoi tempi e dei suoi spazi. Ma se non si può ancora dire che il videogioco sia diventato il filtro attraverso il quale l’essere umano percepisce la realtà, resta interessante il lavoro di software house come la Remedy Entertainment che proprio di questa capacità di filtrare, manipolare e corrompere il flusso percezione/memoria fanno il loro parco giochi. Divertente leggere tanti anni dopo le premesse del Remedy-verse disseminate nei testi e nelle poesie del blog This House of Dreams, materiale scritto probabilmente dallo stesso Sam Lake anche se la blogger in questione è una tale Samantha. Ritmi e modalità di consumo nella fruizione di un videogioco sembrano molto più simili alla lettura di un romanzo che non alla visione di un film. Ma a ben vedere i videogiochi sono l’evoluzione odierna dei giochi ovvero qualcosa che fa parte dell’essere umano da un tempo antecedente alla parola scritta, certo antecedente a tutti gli altri media. I giochi si evolvono insieme a noi, e noi con loro.
Le maschere chiaroscurali proposte da opere come quelle di Remedy testimoniano anche il compimento di una trasformazione nella composizione anagrafica del pubblico videoludico globale. O comunque un cambio nei temi e nelle modalità espressive introdotte nelle sceneggiature dal lato produttivo. Trasformazione che probabilmente comincia proprio con le ansie dei primi horror a immersione tridimensionale, a partire dall’inquadratura semi-libera di Silent Hill 2, pietra miliare del videogioco che cerca equilibrio tra sceneggiatura, esplorazione di mondi immersivi e gameplay emozionale. Da lì in avanti per innescare processi produttivi in questo filone servirà solo quella disposizione emotiva che potremmo definire apertura al fantastico o alla trasfigurazione fantastica. Diventa così problematica la valutazione di un target demografico preciso per i videogame.
Il ritorno di chi? Di Alan Wake o del suo doppelgänger?
Oggi, tornando a Roger Caillois e alle sue categorizzazioni del gioco (cfr. Caillois, 2000), possiamo ipotizzare che l’Agon, la competizione, che pure ha avuto un importante ruolo di stimolo per lo sviluppo tecnico del videogioco, stia lasciando spazio all’Ilinx ossia alla vertigine fomentata da una inedita potenza computazionale/emozionale. Con Remedy la trama nel videogioco ambisce a essere una forza estranea sulla quale nessuno (in parte nemmeno il creatore) può avere il controllo. Distruggendo nessi causali e bruciando piani cartesiani, facendosi beffe del concetto di spoiler (auto-spoilerandosi nel corso del gioco), abbracciando la verità delle forzature quantistiche, sacralizzando le rivelazioni dell’onirico: ecco come Alan Wake 2 sancisce per il videogioco (come è accaduto a tutti gli agli altri media narrativi) l’uscita dalla dittatura della linearità dell’intreccio. Certo non siamo ancora dalle parti di sogni metalinguistici estremi come Inland Empire o Mulholland Drive di David Lynch ma probabilmente ci arriveremo.
Ripensando all’esperienza videoludica proposta da Alan Wake 2, si ha la sensazione di essere stati rapiti da alieni intergalattici come quelli vagheggiati in Twin Peaks e restituiti alla vita normale dopo una manciata di minuti, totalmente immemori dei dettagli del sequestro, ma consapevoli di aver vissuto una lunga ed estenuante avventura. Alan Wake 2 ci lascia custodi lucidi di uno sgomento che viene dall’affaccio orrorifico su quanto siano disconnesse e contraddittorie le profondità della mente umana.
- Roger Caillois, I giochi e gli uomini, la maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 2000.
- Gino Frezza, La macchina del mito tra film e fumetto, La Nuova Italia, Firenze, 1995.
- Samantha, The House of Dreams.
- John Carpenter, Il seme della follia, Warner, 2013 (home video).
- John Ford, Tutta la città ne parla, AER Productions, 2020 (home video).
- David Lynch, Twin Peaks – La collezione completa, Paramount, 2021 (home video).
- Remedy Entertainment, Control, 505 Games, 2020 (videogame).
- Remedy Entertainment, Quantum Break, Microsoft, 2016 (videogame).
- Rod Serling, Ai confini della realtà, Koch media, 2005 (home video).