Collapse, “collasso”, era il nome del giornale di critica della Cybernetic Culture Research Unit (CCRU), il germoglio fondativo del movimento accelerazionista, all’Università di Warwick, nella metà degli anni Novanta. Se c’è un termine iconico del modo in cui il futuro è stato pensato, è proprio “collasso”. È il titolo di un celeberrimo saggio di Jared Diamond (2005), un invito a “imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio” (Diamond, 2014), per evitare che anche la nostra civiltà tecnologica faccia la stessa fine dei Maya o degli abitanti dell’isola di Pasqua.
È parte anche del titolo di un’opera mai tradotta in italiano, The Collapse of Complex Societies di Joseph Tainter (1988), ben nota ai “collassologi”, coloro che studiano i modi in cui la nostra civiltà rischia il collasso prossimo venturo. Nel loro libro Un’altra fine del mondo è possibile, gli ecologi Pablo Servigne, Raphaël Stevens e Gauthier Chapelle coniano il termine “collassosofia” per definire la filosofia del collasso, l’insieme delle strategie che ci permetteranno di sopravvivere alla fine della civiltà post-industriale, da loro attesa e auspicata.
Si definiscono “collassonauti”, in grado di navigare nel collasso e sopravvivergli. Ma c’è una distanza abissale tra collassonauti e accelerazionisti. Se entrambi guardano al futuro nella convinzione che il sistema attuale sia prossimo a una crisi esistenziale, le loro ricette non potrebbero essere più diverse: un “ritorno alla natura” per i primi, in base al principio per cui il problema di fondo dell’umanità contemporanea consiste nel suo divorzio dalla Natura; un’accelerazione tecnologica e turbocapitalista per i secondi, in vista di un futuro postumano dove saranno le intelligenze artificiali a governare il mondo. Non sono semplici dicotomie filosofiche: accelerazionismo e collassosofia rappresentano le avanguardie più avanzate, l’un contro l’altra armate, della grande battaglia in corso per il futuro della nostra civiltà.
“Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano”
Da alcuni anni di accelerazionismo si parla molto in Italia, perlomeno all’interno di una certa nicchia molto presente, ovviamente, sul web e sui social; questo “risveglio”, molti anni dopo l’ondata originale proveniente dall’Inghilterra, è stato favorito dalla traduzione in Italia del fondamentale testo dell’accelerazionismo “di sinistra” Inventare il futuro (2015) di Alex Williams e Nick Srnicek, del Manifesto accelerazionista degli stessi autori (2013), e poi delle fondamentali opere di Mark Fisher. Sono poi seguiti i meme, i gruppi, le pagine Facebook. A fare il punto sull’accelerazionismo è l’agile guida di Tiziano Cancelli How to Accelerate. Introduzione all’accelerazionismo, edita da Tlon. Innanzitutto, cosa bisogna accelerare? La risposta non si trova nei testi fondativi del movimento, ma in quella sorta di “bibbia” degli intellettuali accelerazionisti che è L’anti-Edipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari (1972): “Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, accelerare il processo, come diceva Nietzsche”.
Era un invito, quello di Deleuze e Guattari, a una generazione politicamente impegnata che sentiva forte la tentazione di un ritorno a uno stadio pre-industriale e pre-capitalista per sfuggire alla “schizofrenia” a cui il capitalismo sembrava condannare. Ma i tempi, allora, non erano maturi. Vennero poi gli anni Ottanta, con l’ingresso nelle case dei personal computer, e gli anni Novanta, con l’avvento di Internet. Quelle tecnologie, messe immediatamente al servizio del capitalismo avanzato, potevano essere usate per andare oltre, come immaginò tra gli altri Nick Land, il fondatore nel 1995 della CCRU a Warwick. Non era, per la verità, un’idea nuova. Dall’altra parte dell’Atlantico, la cybercultura aveva iniziato a radicarsi già più di dieci anni prima a partire dalle prime pionieristiche esperienze nella Silicon Valley. Il digitale come strumento di liberazione, come forza di accelerazione verso un futuro postumano: era il progetto dei primi transumanisti.
A differenza dei transumanisti, perlopiù nerd smanettoni e ingegneri prestati alle startup, gli accelerazionisti nascevano nell’accademia: erano intellettuali che si affacciavano su un mondo nuovo con l’obiettivo di piegarlo alle proprie categorie di pensiero. Smanettavano col codice binario, ma leggevano Jean-François Lyotard, Michel Foucault, Deleuze e Guattari, autori che oltreoceano non avevano cittadinanza. Così, se da un lato in California nasceva il tecnognosticismo tratteggiato con tanta maestria da Erik Davis (1998), una sorta di “religione tecnologica”, in Europa nasceva l’accelerazionismo, nuova ideologia politica per “accelerare il processo”, verso il post-capitalismo.
“Nascondere l’abissalità dell’Altrove”
Accelerazionisti e collassonauti condividono una convinzione: che la postmodernità abbia come suo obiettivo primario quello di “nascondere l’abissalità dell’Altrove” (Cancelli, 2019). Un po’ come nei romanzi di Howard Phillips Lovecraft (non a caso sempre più tirato in ballo in anni recenti), l’Altrove è tutto ciò che non rientra nel perimetro ben delimitato della società tardo-capitalista e post-industriale. Per i collassonauti, questo Altrove è l’insieme del mondo non-umano.
Riprendendo le tesi dell’antropologo Arturo Escobar, “i pilastri dell’ontologia moderna sono la fede nell’individuo, nell’economia, nella realtà e nella scienza, incarnate in una volontà espansionistica di sviluppo su scala planetaria” (Servigne, Stevens, Chapelle, 2020). Questa visione del mondo si contrappone alle altre ontologie di tipo relazionale che persistono al di fuori dell’Occidente postmoderno. Il collasso fa allora paura perché riporterebbe un’umanità anestetizzata e incapace di relazionarsi con i viventi non-umani a una condizione pre-moderna, dove la natura selvaggia torna a dominare. È l’Altrove di cui parlano gli accelerazionisti: per loro non si tratta del passato domato, ma del futuro che tarda a venire. È l’insieme delle possibilità negate al presente, che devono essere liberate e riportate all’interno dell’orizzonte di attesa futura, affinché si avverino.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che i primi guardino al passato e i secondi al futuro. In entrambe le avanguardie, il futuro rappresenta l’oggetto del discorso e l’obiettivo a cui aspirare; entrambe condividono l’assunto che la postmodernità abbia annullato ogni discorso riguardo al futuro. La differenza radicale sta proprio nel futuro che essi auspicano. Qui, gli accelerazionisti sono certamente più divisi. Cancelli ricorda le tre principali differenziazioni all’interno del movimento: l’accelerazionismo di sinistra (L/Acc), l’accelerazionismo di destra (R/Acc) e un più apolitico ma meno incisivo “accelerazionismo incondizionato” (U/Acc). Nick Land, il fondatore della CCRU, dopo la fine della breve ma intensa esperienza di Warwick (“più simile al raduno di un sabba che a un think tank universitario”, scrive Cancelli), ha rinnegato ogni iniziale apertura a sinistra per diventare, da Shangai, la voce più rappresentativa del R/Acc, il cui obiettivo è quello di sostituire alle fragili democrazie liberali una tecnocrazia ultracapitalista, unica via al raggiungimento dell’Altrove, all’avvento della postumanità.
Land, finanziato dal Partito comunista cinese, è diventato l’oracolo di stato di un “accelerazionismo neo-cinese”, in cui il grande esperimento di controllo sociale attraverso big data e riconoscimento facciale viene considerato come l’avanguardia di un nuovo modello politico che sostituirà le democrazie occidentali e favorirà il collasso del capitalismo e l’avvento di una società cyborg (cfr. Pieranni, 2019).
A sinistra, invece, Williams e Srnicek invitano la sinistra ad abbandonare ogni tentazione primitivista, sposando le nuove tecnologie e politicizzandole per far esplodere le contraddizioni del tardo capitalismo. Accelerare significa, per loro, portare il capitalismo alle sue più estreme conseguenze, automatizzando del tutto il sistema produttivo attraverso le macchine e gli algoritmi per poi consentire alla sinistra di appropriarsi della ricchezza generata per costruire una società post-capitalista caratterizzata dalla “piena automazione” e quindi da un infinito tempo libero in cui potremo finalmente realizzare i nostri sogni.
“La lenta cancellazione del futuro”
Se il futuro di Land assomiglia molto a quello di Terminator, per Mark Fisher il futuro immaginato dal capitalismo assomiglia ad Avatar. Nel suo celebre articolo Terminator vs. Avatar (2012), Fisher accusava il capitalismo di proporre, come visione del domani, “nient’altro che un pastiche neoprimitivista”, poiché Avatar – film campione d’incassi mondiale – “descrive perfettamente, secondo Fisher, quel desiderio continuo di ritorno dell’uguale, quella paura del futuro che terrorizza il capitale spingendolo unicamente a remixare continuamente la stessa traccia, senza mai permetterne la creazione di nuove” (Cancelli, 2019).
Fisher riprende questo tema nel 2014 in Spettri della mia vita, dove dà ragione a Franco ‘Bifo’ Berardi sulla “lenta cancellazione del futuro” prodotta dalla postmodernità. Come risultato, il presente sarebbe infestato da spettri di passati nostalgici (il “non più”) e di futuri abortiti (il “non ancora”), resi inattuabili dal presente continuo imposto dalla logica capitalista contemporanea. L’invito di Fisher all’ideologia di sinistra è di scendere a patti con la modernità, senza cadere preda degli spettri che popolano il presente, tra cui appunto la tentazione del primitivismo (cfr. Fisher, 2019).
Quanto quest’invito sia attuale lo dimostra proprio Un’altra fine del mondo è possibile, dove gli autori “collassonauti” sostengono che per smettere di preoccuparsi e amare il collasso sia necessario immaginare fin da oggi il mondo che verrà, improntato a un esplicito ritorno alla natura. Avatar, da questo punto di vista, rappresenta un’ottima metafora del futuro post-collasso: l’ambizione colonizzatrice della postumanità trionfante che si scontra con l’utopia totemista del pianeta Pandora e ne esce sconfitta. La “rinaturalizzazione” (rewilding) discussa da Servigne, Stevens e Chapelle nel loro libro è apparentemente una retroutopia: addirittura si arriva a immaginare “una rinaturalizzazione di tipo pleistocenico” (proposta dall’ambientalista americano Paul Shepard):
“Si tratterebbe di reintrodurre una megafauna molto più ricca, simile a quell’epoca, e di affidarsi alla nostra biologia assopita, ancora ben adattata al mondo dei cacciatori-raccoglitori che precedettero il Neolitico, che non esiterebbe a riapparire se solo ne avesse l’opportunità”.
Ma la tesi è più complessa e si riallaccia alle visioni del futuro tracciate da Donna Haraway nel suo libro Chthulucene (2016): una “nuova diplomazia” tra esseri umani e viventi non-umani che costruisca un pluriverso dove gli interessi di tutti vengano salvaguardati.
“Inventori pazzi, contadini agroecologici, survivalisti”
Da questo punto di vista, la distanza con l’accelerazionismo è lunare. Anzi, pur senza citarlo esplicitamente, gli autori tacciano di “pato-adolescenza” (adolescenza patologica e prolungata) le tesi di coloro i quali affermano “cha la crescita infinita è possibile, o che la tecnologia salverà il mondo” (Servigne, Stevens, Chapelle, 2020), ossia il punto di vista di Land e della R/Acc, o più in generale del transumanesimo d’oltreoceano. Come ricostruisce Cancelli, infatti, a un certo punto le idee di Land vengono introiettate dal movimento dell’alt-right americano e in particolare dai seguaci del venture capitalist Peter Thiel, noto per il suo turboliberismo e il soluzionismo tecnologico estremo (Thiel è il co-fondatore di PayPal, ma anche finanziatore di SpaceX e di numerose startup eccentriche, da quelle che lavorano a sconfiggere la morte a quella che intendono privatizzare Internet).
È qui che l’accelerazionismo completa la sua deriva oscura e inquietante, dando vita alla corrente neoreazionaria del Dark Enlightenment, che propugna un’estensione su scala globale del modello della Silicon Valley: non più Stati-nazione, ma aziende che controllano fette di territorio in stile feudale, simili alle zaibatsu del cyberpunk, in cui i capi di stato sono sostituiti dai CEO e le elezioni da “reclami da indirizzare verso il customer care”:
“I bitcoin come futuro della finanza, le corporazioni di città-stato come futuro del governo, Detroit come simbolo perfetto del fallimento dei governi contemporanei e le armi stampate grazie alle stampanti 3D come esempio dell’incontro fra tecnologia ed esigenza di bypassare leggi inefficaci”
(Cancelli, 2019).
Ecco il sogno di Land. Cosa può esserci di più distante da quello proposto dalla collassosofia, che chiede di costruire comunità del futuro fatte “da scienziati e insegnanti”, da “artisti, ingegneri low-tech, inventori pazzi, contadini agroecologici e survivalisti”, da “attivisti, zadisti, militanti”, da “persone dedite alla meditazione e coinvolti in cammini spirituali”, da “antropologi, ecopsicologi, pionieri della permacultura umana” (Servigne, Stevens, Chapelle, 2020)?
“La realtà diventa un campo da gioco”
Eppure, una connessione c’è. Il termine-chiave è iperstizione. Neologismo di Land, l’iperstizione potrebbe essere banalmente liquidato come un sinonimo modaiolo e postmoderno di “profezia che si autoavvera”. Ma il concetto è molto più sottile. L’iperstizione è un’idea, una visione del futuro che produce effetti nel presente. Scrive Cancelli:
“L’idea, nata nel presente, si proietta in avanti oltre sé stessa immaginando un obiettivo, una dimensione, un evento futuro: in questo modo, attraverso la semplice proiezione in avanti, viene messa in moto tutta una serie di meccanismi in grado di attrarre l’idea verso il presente, quindi verso la sua realizzazione”
(Cancelli, 2019).
Terminator e Avatar sono, nell’esempio di Fisher, iperstizioni. Lo è il cyberpunk, cioè l’immaginario futuristico prospettato dalla fantascienza di William Gibson negli anni Ottanta: una parte importante di quell’immaginario è finita per coincidere con la nostra idea di futuro e ha trovato realizzazione nel nostro presente, che era il futuro di Gibson. Assume allora importanza cruciale l’invito dello scrittore di fantascienza francese Alain Damasio a “mettere in atto immaginari che rendono desiderabile qualcos’altro” (cit. in Servigne, Stevens, Chapelle, 2020). Gli autori di Un’altra fine del mondo è possibile, anche senza citare il concetto di iperstizione, se ne servono quando ricordano che “la fantascienza è un modo per esplorare il futuro”, per cui le buone storie di fantascienza servono a “sperimentare le nostre capacità di trasformazione”. Gli autori citano Ursula K. Le Guin: “È soprattutto attraverso l’immaginazione che conquistiamo la percezione, la pietà e la speranza” (la citazione è da Le Guin, 1986).
Land si convinse talmente dell’importanza dell’iperstizione da finire per sprofondare nell’esoterismo di Alesteir Crowley, certo dell’esistenza di forze magiche in grado di dare forma reale alle idee. Nell’occultismo, l’iperstizione trova il suo analogo nell’eggregora, una forma-pensiero che assume consistenza fisica e genera trasformazioni nel presente. Su quest’idea, il movimento neoreazionario americano ha costruito la sua guerra dei meme nel 2016 a supporto della campagna presidenziale di Donald Trump, imbracciando gli strumenti della Chaos magick (termine coniato da Crowley), per cui “la realtà diventa un campo da gioco, una ‘caotica’ finzione del mondo presa temporaneamente per vera”, come ha sintetizzato Gary Lachman nel suo magistrale studio La stella nera (2017).
L’iperstizione si coniuga con la theory fiction, altro neologismo accelerazionista: una nuova forma letteraria in cui invenzione narrativa (fiction) e teorizzazione saggistica (theory) si fondono, per elaborare un discorso in grado di generare trasformazioni nel presente. Ciò è reso possibile, secondo Land, dalla fusione e confusione tra reale e virtuale realizzata dalla postmodernità. Si tratta allora di spingere fino in fondo questa confusione, di farla propria e metterla al servizio di nuovi obiettivi. Come sintetizza Claudio Kulesko nell’introduzione al libro di Cancelli: “Per la CCRU l’universo è un campo di battaglia sul quale le forze dell’ordine e del caos si affrontano, in una guerra la cui posta in gioco è il dominio del tempo e la possibilità di decidere cosa attende l’umanità alla fine del tunnel”.
“La posta in gioco è il dominio del tempo”
Siamo di fronte a una rivoluzione copernicana del modo in cui intendiamo il futuro. Non è una novità, ma ora sta diventando mainstream. Forse il primo a tracciare i contorni di questa rivoluzione è stato il teologo protestante Jürgen Moltmann. Da cristiano, Moltmann non poteva accettare l’assunto della futurologia classica, per cui il futuro è una mera estrapolazione del presente; piuttosto, il cristiano sostituisce al futurum l’adventus, che è il futuro promesso dalla rivelazione, i “nuovi cieli” e la “nuova terra” del Regno di Dio. Moltmann sosteneva quindi l’esigenza di sostituire al “futuro che diviene” il “futuro che viene”: non un processo che dal presente muove verso il futuro, ma al contrario un processo che dal futuro muove verso il presente. Alla previsione, Moltmann sostituisce l’anticipazione: concetto che sarà ripreso solo molto più tardi nell’ambito della futurologia, quando, in anni recenti, si è accettata la sostanziale imprevedibilità dell’avvenire e l’esigenza di sostituire al futuro prevedibile il futuro preferibile, che incorpora le speranze e le utopie del presente (cfr. Arnaldi, Poli, 2012). L’anticipazione ha a che fare con l’iperstizione. L’iperstizione non è il futuro che diviene, ma il futuro che viene. Anticipando tanto Land quanto Fisher, Williams e Srnicek, Moltmann scriveva già nel 1977 che:
“il futuro desiderabile non è affatto vuoto, né aperto. Dietro la riduzione del pensiero del futuro a pensiero tecnico si nasconde il chiaro desiderio di perpetuare i rapporti di forza esistenti”
(Moltmann, 1993).
Williams e Srnicek, nel Manifesto accelerazionista, scrivono analogamente che “è il Capitale stesso che impedisce al futuro di compiersi perché, negando la possibilità di qualsiasi alternativa all’unico sistema «realisticamente percorribile», ci costringe a un eterno presente costitutivamente ostile a qualsiasi ipotesi altra” (Williams e Srnicek, 2018). Se il futuro non è vuoto, non è nemmeno politicamente neutro. Controllare la narrazione del futuro significa controllare il presente. Questo principio è alla base tanto dell’accelerazionismo quanto della collassosofia, perché alla fine il futuro sarà di chi sarà riuscito a sostituire alla narrazione egemonica dominante del tardo capitalismo la nuova narrazione, la propria iperstizione. Lo aveva intuito, nel 2015, Valerio Mattioli, che in Italia introdurrà per primo, negli anni successivi, alcuni testi fondativi del pensiero accelerazionista. In un lungo articolo per la rivista Prismo, Mattioli distingueva tra i due tipi diversi di accelerazionismo e scriveva:
“Il futuro immaginato da una parte e dall’altra, è di radice diametralmente opposta: da una parte, una specie di tecnocrazia «illuminata», genericamente progressista ma intrinsecamente tirannica, competitiva e orgogliosamente individualista; dall’altra, la sempiterna aspirazione a un mondo più equo, non-competitivo e, be’, giusto. Il futuro insomma, è un campo di battaglia. E lo è già adesso, nel presente, possibile ultimo capitolo di un passato che mai più ritornerà”
(Mattioli, 2015).
“Il futuro non è affatto vuoto, né aperto”
La distanza tra le correnti dell’accelerazionismo sembra tale da suggerire che nulla abbiano in comune. Ma invece il concetto diventa più chiaro quando viene confrontato con ciò che è al di fuori di questo contenitore e che partecipa ugualmente alla battaglia per il futuro. Non è affatto vero, come si potrebbe immaginare, che L/Acc e collassosofia abbiano uno stesso orizzonte. Benché in comune abbiano l’ideologia di sinistra, la loro visione del domani è radicalmente diversa e la linea di demarcazione è data dalla diversa concezione del mondo post-collasso.
Secondo l’accelerazionismo, “quella che per l’umano verrebbe concepita come «catastrofe», in termini postumani muterebbe nel concetto di «anastrofe»: letteralmente non il passato che cade a pezzi ma il futuro che prende forma nel passato” (Cancelli, 2019). È un’accezione condivisa dai collassonauti, per i quali “una volta che smettiamo di fingere che [il collasso] non possa accadere, siamo liberi di pensare seriamente al futuro” (Servigne, Stevens, Chapelle, 2020). Ma il mondo dopo la fine del mondo è molto diverso nelle due correnti di pensiero. Per l’accelerazionismo, sia di destra che di sinistra, sarà dominato dalle intelligenze artificiali, dai robot, dai postumani, messi al servizio di un progetto tecnocratico di dominio in grado di garantire la vita eterna e il benessere di pochi oppure di una società post-lavoro dove tutti godremo dei benefici della pianeta automazione. Per i collassonauti, il mondo che verrà sarà un mondo rinaturalizzato dove esseri umani e altre specie viventi conviveranno equamente nella biosfera. I primi ritengono pensabile e auspicabile una nostra espansione interplanetaria, i secondi ritengono essenziale un ritorno alla terra. Per dirla con Donna Haraway, il futuro dei primi è nel cyborg, il futuro dei secondi è nel compost (cfr. Haraway, 2018 e 2019).
Forse il collasso è già arrivato, forse abbiamo già superato il punto di non ritorno: d’altronde, il collasso arriva sempre troppo presto, per quanto ci sforziamo di prevederlo. Se è così, allora diventa cruciale comprendere le forze in gioco nella guerra per il controllo del futuro.
Oggi è una guerra di idee, per sostituire alla logica del there is no alternative una visione nuova, per “riaprire” un futuro chiuso. Una guerra di meme, di storie di fantascienza, di iperstizioni. Ma dobbiamo prenderla terribilmente sul serio: perché in gioco c’è nientemeno che la vita del mondo che verrà.
- Simone Arnaldi, Roberto Poli, La previsione sociale, Carocci, 2012.
- Erik Davis, Techgnosis, Ipermedium, Napoli, 2001.
- Jared Diamond, Collasso, Einaudi, 2014.
- Mark Fisher, Spettri della mia vita, mimimum fax, Roma, 2019.
- Donna Haraway, Manifesto Cyborg, Feltrinelli, 2018.
- Donna Haraway, Chthulucene, Nero, 2019.
- Gary Lachman, La stella nera. Magia e potere nell’era di Trump, Tlon, 2019.
- Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Editori Riuniti, Roma, 1986.
- Valerio Mattioli, Il ritorno del futuro, Prismo, 5 ottobre 2015.
- Jürgen Moltmann, Futuro della creazione, Queriniana, Brescia, 1993.
- Simone Pieranni, Un (ex) accelerazionista nella Neo Cina, il manifesto, 17 dicembre 2019.
- Alex Williams, Nick Srnicek, Inventare il futuro, Nero, 2018.
- Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, 2018.