Una vita firmata Stan Lee,
Il Sorridente ma non troppo

Abraham Riesman
Stan Lee
La storia della Marvel
nella vita di un creativo
e uomo d’affari amato e controverso
Traduzione di Enrico Zigoni

Rizzoli Lizard, Milano, 2022
pp. 496, € 25,00

Abraham Riesman
Stan Lee
La storia della Marvel
nella vita di un creativo
e uomo d’affari amato e controverso
Traduzione di Enrico Zigoni

Rizzoli Lizard, Milano, 2022
pp. 496, € 25,00


L’ultima biografia su Stan Lee, scritta da Abraham Riesman, è con ogni probabilità lo scavo più neutrale e meticoloso realizzato finora su questo editore e sceneggiatore di fumetti così complesso e influente. L’autore cerca di caratterizzare il suo lavoro puntando sull’imparzialità, specificando continuamente le fonti documentali ma senza essere pedante e senza rinunciare al ritmo narrativo fornito da episodi ora divertenti ora malinconici. Oggi il marchio Marvel è arrivato fino al trionfo globale fuggendo via dalla gestione Lee e approdando all’acquisizione da parte della Disney nel 2009, per poi diventare, poco dopo, una compagnia focalizzata principalmente sulle produzioni audiovisive. Stan Lee non ha avuto un coinvolgimento diretto nel progetto che ha portato alle recenti esplosioni al box-office con il Marvel Cinematic Universe (cfr. Del Pozzo, 2021), ma il suo spirito aleggia. Stan Lee infatti è studiato e celebrato come supereroe di un’intera categoria, quella degli sceneggiatori o comunque di chi contribuisce concretamente alla creazione di storie e mondi, riscattando fondamentali professionalità da un regime di assoluto anonimato. Per una strana serie di circostanze c’è la sua presenza fisica (e quindi in qualche modo la sua firma) in tutte le pellicole del MCU girate fino alla sua morte nel 2018. La serie di brevissime apparizioni nella striscia seriale più costosa e vista di sempre costituisce un tributo a una carriera che è uno snodo cruciale dell’immaginario planetario novecentesco. Oggi il MCU è un pantheon di personaggi che trae linfa vitale dai fumetti in cui Lee ha avuto un ruolo creativo o comunque produttivo in senso lato. Un patrimonio culturale che appare oggi come una galassia talmente estesa e densa (e remunerativa) da rendere ancora più pregnante del solito l’interrogativo sull’influenza iniziale impressa da Stan “The Man” Lee, anche noto come “”The Smilin” ovvero Il Sorridente, durante il big bang di tutto ciò. Riesman introduce così la sua biografia sul fumettista-editore-imprenditore: “Mi sento come se stessi parlando di Charles Foster Kane. Chi era? Che cosa era?”.

L’autore prova ad affrontare la complessità di quel “cosa era” partendo dal contesto familiare da cui viene Stan il Sorridente e scorrendo gli episodi con un notevole livello di profondità. Riesman parte dal “comprendere le forze che plasmarono i genitori di Stan”, in particolare quel senso di emarginazione che si portavano dentro gli ebrei europei fuggiti in America all’inizio del Novecento e quello “spettro della povertà” capace di oscurare matrimoni e spaccare famiglie. Lo scavo di Riesman enuclea due nodi fondamentali: la fuga dalla povertà e i meccanismi su cui si basa il dare e ricevere fiducia. Non a caso il libro si apre con il ritorno di un figliol prodigo in un villaggio sperduto nella Romania orientale del 1899. L’emigrante ben vestito e ben nutrito che torna alle sue umili origini glorificando il mito di un posto dove persino “un ebreo poteva essere qualunque cosa volesse”. Forse i nonni di Stanley Martin Lieber erano tra i ficcanaso accorsi ad ammirare l’eleganza di quello che in realtà era un caposquadra in una fabbrica di reti da letto a New York. Profilo esistenziale ambiguo che però faceva intravedere il sogno di una Terra Promessa oltreoceano agli occhi dei suoi conterranei. Riesman è abile nel dare un’impressione di neutralità per poi orchestrare fatti e stralci di interviste con la piccante ironia delle polemiche e dei sogni imprenditoriali troppo grandi per non fallire. Per non parlare delle fragilità dietro la maschera sorridente. Lee considerava il fumetto una “routine” e si “vantava della sua velocità”. Il lavoro di Riesman descrive ombre che tutto sommato possono essere intuite anche partendo dall’autobiografia di Lee: “Anche se mi divertivo a fare fumetti, per me era solo un lavoro” (Lee, Mair, 2002). Poi Riesman ci mette del suo scavando tra vecchi documenti donati da Lee in giro:

“Circolo vizioso: spendevamo denaro perché sentivamo di meritarci qualcosa dopo tutto quello scrivere, e io continuavo a scrivere per poter mantenere lo stile di vita […] Non riuscivo a risparmiare, l’unica era cambiare il nostro stile di vita, ma allora qual è il senso di lavorare e guadagnare bene se non vivi al livello dei tuoi guadagni?”.

E ancora:

“Alla fine ho deciso che odiavo essere calvo e ho comprato un parrucchino. Ma sentivo comunque che non stavo andando da nessuna parte: come potevo invecchiare sempre più e continuare a scrivere fumetti? Quando e come avrei smesso?”.

Chi ha creato cosa
L’argomento più scabroso della carriera di Lee, su cui Riesman si sente in dovere di soffermarsi a lungo principalmente a causa delle cifre economiche in gioco nelle sedi giudiziarie, argomento molto sentito dagli statunitensi, resta l’attribuzione dei meriti creativi dietro ai grandi successi Marvel. Secondo Riesman:

“L’intera concezione che si può avere di Stan è legata proprio al credere o meno che fu lui il creatore del pantheon che ha cambiato il mondo”.

Ma poi lo stesso Riesman ammette:

“Nei primi anni Sessanta l’industria del fumetto era troppo aleatoria perché qualcuno producesse e conservasse documentazione aziendale su chi aveva fatto cosa. All’epoca l’ordine del giorno era buttar fuori quanto più materiale possibile su un argomento e poi passare a quello successivo”.

L’universo Marvel è e sarà sempre un “intricato arazzo di storie” ideate per essere connesse tra loro e i personaggi saranno sempre intercambiabili così come i narratori che si alterneranno al comando creativo. Proprio il ragionamento sul concetto di ambiguità e di fiducia introdotta dall’operaio rumeno che fa ritorno in patria ben vestito all’inizio del libro serve a tenere legati tutti gli episodi in un unico racconto biografico a partire dal titolo originale: True Believer: The Rise and Fall of Stan Lee. Solo pensando come un “vero credente” è possibile amare l’istrionico Lee e non rovinarsi il feeling epico generato dalle gesta dei vari supereroi. Solo da credenti si può avvicinare quella che Stan Lee definiva “la casa delle idee”, risolvendo ironicamente il groviglio di polemiche che ha sempre accompagnato i successi dei fumetti Marvel. Ma in fondo fino a che punto si può biasimare un imprenditore che, con piglio da front-man, ha scoperto e valorizzato giacimenti chiamati Kirby, Buscema o Claremont? Riesman si sofferma sul “metodo Marvel” ideato e perfezionato da Lee durante la collaborazione con i numerosi disegnatori con cui ha lavorato. Prassi che assegna grande importanza all’intuizione grafica nel definire l’idea di fondo, base per le successive fasi di sviluppo del soggetto. In un contesto del genere come è possibile assegnare l’origine precisa di un racconto di successo e delle sue evoluzioni? Proprio Jack Kirby, una delle principali “vittime” creative apparentemente vampirizzate (o perlomeno offuscate) da Stan Lee, diceva:

“le idee non possono essere ricondotte a un punto d’origine. Rimbalzano da una persona all’altra finché non entrano in gioco i responsabili e scelgono quella che ritengono una formula di successo”
(in Howe, 2013).

Come nota il Riesman, appare ironico che il primo grande successo di Lee sia stato il numero uno dei I Fantastici Quattro negli anni Sessanta. C’erano “protagonisti che si odiano l’un l’altro quasi tanto quanto odiavano i loro superpoteri”. La Marvel con Stan Lee come front-man emerge perché per la prima volta si propone al pubblico uno stuolo di supereroi “dal volto umano” e questa “svolta per la cultura popolare mondiale” è forse in parte anche un’ammissione autobiografica che vede nel conflitto creativo la via maestra per dare ai racconti quelle fondamentali sporcature che bilanciano le pose eroiche. Ma ne I Fantastici Quattro di Jack Kirby e Stan Lee c’era anche Galactus, il potente divoratore di mondi, che si chiede quale importanza possano mai avere le brevi e anonime vite degli umani rispetto ai suoi disegni cosmici.

Cosa contano le istanze dei singoli autori rispetto al grande disegno collettivo e co-creativo di quella catena di montaggio che era la Marvel anni Sessanta e Settanta? Dinamiche simili a quelle dell’oggi in cui è difficile che ci si chieda chi sia il regista o lo sceneggiatore di questo o quel film del MCU. Un contesto creativo in cui anche narratori folli e coraggiosi come Sam Raimi si lasciano assorbire dal flusso di un poderoso sistema multi-generazionale di sogni in cui la paternità di una determinata idea sembra davvero irrilevante. Il tipico supereroe Marvel dell’epoca Lee è un anonimo individuo emarginato, incompreso, facile preda di radiazioni segnanti, destinato a risorgere dalle ceneri dell’incidente, della guerra, dell’esperimento scientifico andato storto, dell’aberrazione contro-naturale. Radioattività come perfetta metafora di contaminazione creativa e di tossicità capitalistica: tutto materiale buono non solo per le strisce seriali novecentesche ma anche per la ricodifica postmoderna di tutti i meccanismi seriali conosciuti.

Semplicità e accessibilità come retaggio
A dispetto del protagonismo del Sorridente Lee, i fumetti Marvel dell’epoca hanno sempre denotato una grande umiltà (narratologicamente parlando). Lo sceneggiatore-imprenditore non disdegnava di bazzicare dalle parti del realismo psicologico e delle metafore sociali ma senza mai dimenticare di essere come un commesso in un grande supermercato dell’immaginazione, spingendo il limitato carrello dell’attenzione da riempire per conto del cliente. Agli occhi del pubblico l’incantesimo Marvel si basa forse ancora oggi sulla promessa di una gran varietà di temi ma sempre affrontata garantendo uno svago apparentemente semplice in virtù delle antiche radici fumettistiche. Una fiducia guadagnata anche per via della disinvoltura con cui Stan Lee e soci giocavano con qualsiasi materiale narrativo o riferimento letterario, compreso le mitologie (Thor, per esempio) candidando le creazioni Marvel a costituire il ponte ideale tra serialità moderna e postmoderna. La Marvel di Lee ha anche ampiamente dimostrato come fosse possibile proporre continue novità sbriciolando dall’interno le gabbie dei generi narrativi moderni definiti principalmente da Hollywood nella prima metà del Novecento.

Il dinamismo della connessione cinema-fumetto viene oggi esemplificato dalla sfera comunicativa dei social media digitali che rendono le reazioni del pubblico più chiare. In particolare l’espressività creativa dello spettatore che diventa parte in causa cadendo come un insetto avvinto dalla ragnatela del gioco dei meme. Una partecipazione che genera affezione e militanza nerd e che per diversi anni ha individuato nella persona di Stan Lee un riferimento. Questa connessione che si colloca al centro di quel complesso universo espressivo e tecnologico che Henry Jenkins chiama “transmedia storytelling” (Jenkins, 2014). La consapevolezza di instaurare un continuo dialogo con il pubblico viene anticipata proprio dalla pratica delle “lettere dai lettori” ospitate negli albi Marvel. A tal proposito Riesman riporta una dichiarazione del Sorridente:

“Adoravo il fatto che ci fossero le lettere e i commenti dell’autore. Leo Edwards era l’unico che lo faceva. Forse mi sono ricordato la sensazione di calore e amicizia che mi davano quelle lettere”.

Inoltre, a chi, tra i lettori storici degli albi a fumetti, non mancano quelle buffe didascalie artigianalmente metalinguistiche che iniziavano le storie presentando contemporaneamente il supereroe e i suoi autori? Oggi, nei film del MCU, quel calore e quella amicizia sembrano spostarsi nel dialogo con le tecnologie, presenze sempre più intime nel quotidiano dello spettatore e organi di didascalizzazione che accompagnano ogni storia Marvel. Come quando Spider-Man parla con la sua tutina o come quando Teenage Groot si rinchiude nella sua egosfera, camerette hi-tech piene di chat, musica e consumi culturali. In sostanza il vero retaggio Marvel, derivante dal pensiero di Stan Lee, non è tanto l’originalità di questo o quel personaggio ma è lo sviluppo di storie che guardano con attenzione alle abitudini del pubblico. L’universo Marvel ha avuto un ruolo via via sempre più importante nelle profonde trasformazioni che oggi rendono le narrazioni il modo più efficace per definire lo spirito del tempo, seppur in chiavi metaforiche e fantasmatiche. Probabilmente il MCU costituisce l’attuale standard narrativo mainstream anche perché ha saputo portare nel cinema e nella televisione qualcosa di quel senso di intimità che un tempo, tra tutti i media di massa, solo il fumetto riusciva a interpretare. Il lavoro costante e resiliente dell’editore Stan Lee ha saputo portare alla ribalta quel contatto umano conquistando la fiducia del pubblico un sorriso alla volta.

Letture
  • Diego Del Pozzo, Marvel Cinematic Universe. Dal fumetto agli audiovisivi digitali: i film di supereroi tra convergenza mediale e nuova serialità, Cento autori, Villaricca (NA), 2021.
  • Sean Howe, Marvel Comics: una storia di eroi e supereroi, Panini Comics, Modena, 2013.
  • Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo Education, Milano, 2014.
  • Stan Lee, George Mair, Excelsior!: The Amazing Life of Stan Lee, Atria Books, New York, USA, 2002.
Visioni