“Tutti i miei libri sono un unico libro” dichiarò William Seward Burroughs a Philippe Mikriammos nell’ultima delle interviste che concesse vivendo in Europa, a Londra. Era il 4 luglio 1974. Il giorno dopo avrebbe lasciato il Vecchio Continente ritornando definitivamente negli USA. L’intervista compone, insieme a quasi un centinaio di altre rilasciate nell’arco di circa un trentennio, il monumentale volume Burroughs Live, assemblaggio a cura di Sylvère Lotringer, ora disponibile anche in italiano, grazie a il Saggiatore, con il titolo Interviste.
Tutti i suoi libri non sono altro che un unico libro, dunque: instabile, mutante, eccessivo, rimescolato, disturbante, revisionato, riscritto. Burroughs lo ribadì a Gérard-Georges Lemaire quattro anni dopo in un’intervista pubblicata dal parigino Le Matin (Terrorismo, utopia, e narrativa, 3 luglio 1978, si riporteranno sempre i titoli delle interviste, luogo e data, ndr): “Tutti i miei libri formano un solo libro”. All’epoca si riferiva ai romanzi della quadrilogia formata da Il pasto nudo, Nova Express, Il biglietto che esplose e La morbida macchina, ma la considerazione è valida per l’intera sua opera, tutta in qualche modo commentata, illustrata, interpretata dall’autore stesso insieme ai suoi interlocutori lungo le oltre milleduecento pagine del volume.
La saga Nova è la fase più sperimentale di Burroughs. È l’ennesimo, forse l’ultimo sguardo rivolto verso l’abisso, giù in fondo dove si innalzano le distopie più disperate e i peggiori incubi della fantascienza, dove nel buio fitto oscuro come pece occhi di ghiaccio osservano impassibili lo strazio della carne, laggiù nel cuore del peggiore universo concentrazionario, laddove si complotta e si esercita il controllo delle menti con ogni mezzo, precipitando e sprofondando ancora: è lì che inizia la scrittura di Burroughs.
“In Pasto nudo e nella Macchina morbida ho diagnosticato una malattia, e nel Biglietto che esplose e Nova Express propongo un rimedio. In quest’opera sto cercando di creare una nuova mitologia per l’era spaziale. Penso che le vecchie mitologie siano definitivamente distrutte e inadeguate al presente. In questa mitologia ci sono complotti Nova, una polizia Nova e criminali Nova. Ho eroi e cattivi in rapporto alle intenzioni generali riguardo a questo pianeta”
(L’algebra del bisogno, Londra, 1964).
Nei suoi universi privi di pietà e innocenza, abitati da viventi inumani, alieni e corpi infetti che fungono da ospiti di virus di ogni genere e nei quali scorrono droghe di tutti i tipi, si svolgono guerre nello spazio tempo, si sbriciolano testi e si rimescolano storie fatte di allucinazioni, paranoie e terrori reali.
“Questo è un universo in guerra. Guerra per tutto il tempo. È questa la sua natura. Potrebbero esistere altri universi basati su ogni genere d’altro principio, ma il nostro sembra essere basato su guerra e giochi. Ogni gioco è fondamentalmente ostile. Vincitori e vinti”
(L’universo in guerra, Lawrence, 1990).
Burroughs è oltre la disperazione. È giunto laddove la fantascienza non si è mai avventurata, un genere, va ricordato, che amava, apprezzava e utilizzava: “Con la fantascienza si hanno margini di libertà talmente ampi da poter dire, in effetti, molte più cose che in qualsiasi altra forma (Gli operatori allucinatori sono reali, New York, 1965). Burroughs si avventura nell’incubo, nel disfacimento della parola, nelle trame occulte del potere, nella violenza degli strumenti che adopera, nell’ossessivo/paranoico controllo sotteso al mondo, nelle metamorfosi del corpo. Solo da questa prospettiva si può percepire il comune sentire con altri due scrittori novecenteschi, Howard Phillips. Lovecraft e Philip K. Dick. È all’ombra di questa triade che prospera tutto l’immaginario della tarda modernità e il loro legame si chiama orrore.
Burroughs è questo e altro. È uno sciamano della parola, ardito come pochi autori nel Novecento e un autore picaresco in un certo senso, come egli stesso precisa più volte: “Anche Pasto nudo potrebbe essere definito un libro di fantascienza, sebbene fosse semplicemente uno sviluppo dei temi ricorrenti in tutti i miei romanzi. Uno di questi è l’elemento picaresco” (ibidem).
La sua opera letteraria può certamente essere letta come una dolorosa autobiografia e una denuncia degli effetti devastanti delle droghe, ma anche in questo caso ci si ferma in superficie, così come non sono esaurienti le vicende che lo vedono protagonista tra i protagonisti della beat generation e le sue avventure da scrittore maledetto in giro per il mondo, in particolare in quel di Tangeri, dove strafatto restava a guardarsi la punta dei piedi per tutto il giorno. Su tutto questo si torna e si ritorna nelle interviste. A seconda delle stagioni, i temi si danno il cambio, sebbene alcuni ritornino a ondate in modo ossessivo.
La parola come virus e il controllo:
“La mia previsione è che le parole siano un vero e proprio virus, un virus che ha raggiunto un equilibrio con il suo ospite e perciò non è riconosciuto come virus. […] Cioè, si replicano all’interno delle cellule dell’ospite, ma non le danneggiano”
(Rolling Stone intervista Burroughs, Londra, 1972)
Le droghe e la creatività:
“Un impiego efficace dell’esperienza con la droga dipende dalla bravura di chi scrive. Ma ho sempre pensato che le sostanze sedative, che riducono la consapevolezza – i narcotici, i barbiturici, il consumo eccessivo di alcol e così via –, riducano allo stesso tempo anche le capacità creative di un autore”
(La rivoluzione della droga, tavola rotonda di Playboy, New York, 1970).
La rivoluzione:
“Chi lotta ai margini, con pistole ed esplosivo, non ha nessun vero accesso al potere in una società industriale”.
(La spazzatura dell’establishment, Parigi, 1970).“La prima cosa da fare per un partito rivoluzionario sarebbe impadronirsi dei mezzi d’informazione. Chi ha in mano i mezzi d’informazione oggi controlla il paese. Più di quanto non sia mai accaduto nella storia
(Rivolta!, New York, 1968).
L’evoluzione della specie:
“Non vedo che una speranza per la nostra specie: la vita nello spazio. Ne sono sempre più convinto. Trasferirsi nello spazio implica una mutazione. Non puoi pensare di andare nello spazio così come sei […] un effettivo trasferimento nello spazio implicherebbe una mutazione, una serie di cambiamenti radicali, come nella transizione dall’acqua alla terra […] Devono prodursi precisi cambiamenti biologici, delle mutazioni”.
(Mutazione, utopia e magia, New York, 1981)
Il sapere e il potere:
“Sono assolutamente contro la scienza perché penso che la scienza sia un complotto per imporre come unico universo reale quello de-gli scienziati stessi – sono loro che hanno una dipendenza dalla realtà – hanno bisogno che le cose siano reali per poterci mettere le mani sopra”
(Il trucco tempo-nascita-morte, con Gregory Corso e Allen Ginsberg, 1961).
La reincarnazione:
“Lei si è reincarnato? Be’, presumo di sì”
(The Beat Goes On, New York, 1978).
L’arte pittorica, la passione per le armi e la singolare commistione che prese vita nell’ultima parte della sua vita:
“A volte faccio un dipinto mediante tecniche casuali come sparare vernice con un fucile su tutta la tela”
(Arte spaziale, St. Louis, 1989).“Niente sarà in grado di dividermi dalla mia vecchia Colt”
(L’universo in guerra, Lawrence, 1990).
Sessualità:
“A breve saremo in grado di procurarci qualsivoglia piacere sessuale attraverso stimolazioni elettroniche. E non riguarderà solo la percezione visiva, ma anche tattile”
(Il desiderio di essere qualcun altro, New York, 1976).
E poi ancora parla a proposito di sesso, violenza e censura, donne, omosessualità, le sue letture pubbliche, gli eventi in suo onore, come la newyorkese Nova Convention, tre giorni di conferenze, tavole rotonde, film underground, mostre, performance, reading e concerti rock, il cinema, i tentativi di adattare Le ultime parole di Dutch Schutz e Il pasto nudo (quest’ultimo realizzato da David Cronenberg), i ricordi dell’infanzia, quelli della tossicodipendenza, l’elogio dell’apomorfina, l’amicizia e lo sconfinato rispetto per Brion Gysin, la dream machine, i gatti, Allen Ginsberg e tutta la beat generation, per non dire delle invettive estemporanee, come quelle rivolte a Elisabetta II, “quella maledetta regina. La troia. Se ne sta lì a prosciugare le energie di quaranta milioni di persone. La gente dice: «La regina non conta niente. È solo un fantoccio». Un fantoccio della sottomissione. Un fantoccio a cui leccare il culo. Una sciacquetta insulsa. Dovrebbe pulire i pavimenti” (Rivolta!, New York, 1968); oppure delle previsioni come un novello Nostradamus impasticcato che indica i segnali dell’Apocalisse prossima ventura: “un collasso del sistema monetario, un ciclo di sovrappopolamento, la diminuzione delle risorse, la costante eventualità di una guerra nucleare, qualche serio incidente nucleare, e l’intensificarsi di radioattività di basso livello. Alcuni scienziati parlano di epidemie che potrebbero improvvisamente scatenarsi sotto forma di pandemie e dilagare. Potremmo avere anche un’accelerazione nella proliferazione dei tumori” (Festa mobile, intervista radiofonica, 1986).
Tutto scorre, si ripete anche qui come nelle sue storie. A più riprese illustra anche i meccanismi della sua scrittura, le tecniche adoperate, il cut-up o montaggio libero (basato sul taglio arbitrario e sulla mescolanza di pagine differenti, una tecnica già anticipata dal dadaista Tristan Tzara) e una sua estensione chiamata fold-in:
“Una pagina di testo, mia o di altri, viene piegata a metà e posizionata su un’altra; poi si legge il testo composito, formato da due metà differenti. Il fold-in introduce anche nella scrittura il flashback che si usa nel cinema, consentendo allo scrittore di spostarsi in avanti e indietro sulla sua linea del tempo. Questo metodo, naturalmente, si usa nella musica, in cui ci fanno continuamente spostare avanti e indietro sulla linea del tempo tramite la ripetizione e i nuovi arrangiamenti di alcuni temi musicali”
(L’algebra del bisogno, Londra, 1964).
Non è l’unica liaison musicale presente nella scrittura burroughsiana, che si caratterizza anche per l’uso reiterato di veri e propri riff e dall’impiego di pattern: la musica è nella scrittura stessa di Burroughs:
“Quando scrivo, vedo la cosa come un insieme. C’è un copione, ci sono immagini, e c’è una colonna sonora. E molto spesso la colonna sonora è musicale. In effetti, mi sono servito abbastanza di alcune tecniche: per esempio, una frase da cantare avendo in mente una canzone precisa”
(Rolling Stone intervista Burroughs, Londra, 1972).
A meno di non voler tenere per buona l’ipotesi di un’invasione extraterrestre nel 1914, anno in cui formalmente nacquero sia lui che Sun Ra e quel Jack Parsons che inventò il combustile per razzi, questo approccio alla scrittura probabilmente spiega in coppia con la biografia da ribelle del rock (droga, violenza disperazione, nichilismo) come mai Burroughs sia diventato lo scrittore più omaggiato, citato, coinvolto e rispettato di tutta la storia della musica del Novecento e forse di sempre.
Una mescola di cinema, musica e poesia fu la sua apparizione nel film sperimentale Chappaqua diretto da Conrad Rocks, che lo vedeva in compagnia di Moondog, Ornette Coleman (che scrisse la colonna sonora) e Ravi Shankar.
Il suo esordio esclusivamente in musica però data 1967, nella stagione dell’amore e dei figli dei fiori. Una band proveniente da Canterbury, che già nel settembre dell’anno prima aveva abbandonato il vecchio nome, Mister Head e preso a prestito il titolo di un suo romanzo per ribattezzarsi The Soft Machine, registrò un quarantacinque giri, non pubblicato all’epoca, She’s Gone, che vedeva spuntare nei crediti la voce di William Burroughs “appena udibile”. Accadde nel giugno del 1967, ma in quel mese il vero grande palco su cui Burroughs salì fu quello allestito dai Beatles che lo inserirono nella terza fila, partendo dal basso, dei personaggi che compaiono nella copertina del Sergent Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Un inizio col botto.
A decidere d’inserirlo fu McCartney che aveva condiviso con Burroughs un seminterrato di Montagu Square di cui era proprietario Ringo Starr, trasformato in un piccolo studio di registrazione privato. “Paul e Bill andarono subito d’accordo. Bill gli spiegò tutto dei cut-up e parlarono parecchio anche di erba” (Miles, 2017). Siamo nel 1966 e McCartney rivelò anni dopo che “parlandone con Bill avevo pensato di buttarmi nei cut-up e in cose del genere e avevo in mente di usare quello studio apposta. Ma alla fine mi servì per un uso più pratico. Ho pensato di lasciare che fosse Burroughs a fare lì i cut-up mentre io andavo a farci dei demo. Avevo appena scritto Eleanor Rigby così quando avevo qualche giorno libero scendevo da solo nel seminterrato. Mi portavo una chitarra e basta, e lo usavo come studio per registrare i demo” (ibidem). E così uno dei brani più belli mai scritti da McCartney nacque con la silenziosa benedizione di Burroughs, che a sua volta ricordò così quei giorni e quel giovanotto: “Lui veniva e lavorava alla sua Eleanor Rigby. Ian [Sommerville, suo ex compagno, ndr] registrava le sue prove, quindi ho visto quella canzone prendere forma. Una volta di più, visto che ero un po’ digiuno di musica, capii che sapeva il fatto suo. Era molto piacevole e attraente. Un ragazzo molto bello, e che lavorava sodo” (ibidem). Morale: “fu probabilmente William Burroughs a usare lo studio più di chiunque altro, conducendo una serie di esperimenti stereo con Ian noti come i nastri Hello, Yes, Hello” (Miles, 1997).
Forse il concetto sottostante la copertina, accostamento improbabile di figure distanti per più versi, venne instillato a livello subliminale proprio da Burroughs e tutto sommato, trasformatasi nel tempo nel testo sacro dell’ermeneutica pop, quella copertina ci autorizza questa lettura. Il legame tra Burroughs e le nuove musiche era stretto per sempre. Nel 1968 comparve negli USA un altro gruppo che lo omaggiò chiamandosi Insect Trust, come i mostruosi esseri de Il pasto nudo.
Da allora, Burroughs a modo suo ha fatto anche una grande carriera musicale, non soltanto per le numerose registrazioni effettuate e pubblicate a suo nome, nelle quali legge con il suo timbro inconfondibile (comme il faut per tutti i grandi del rock), biascicato, nasale, non terrestre. Carriera che solo in parte traspare dalle interviste nelle quali spesso cita i Rolling Stones, indicandoli come rivoluzionari; tranne poi dichiarare “La loro musica non mi piace. Non mi piace il rock’n’roll, punto!” (Miles, 2017). Negli anni si troverà a essere intervistato insieme a David Bowie, in seguito con Patti Smith, con i Blondie, con Jello Biafra, il cantante dei Dead Kennedys. Spia di un fenomeno Burroughs ha investito tutte le nuove musiche. Qualche esempio. Nel 1984, i Duran Duran realizzeranno uno dei loro videoclip più belli e giustamente famosi, Wild Boys, dichiaratamente ispirato all’omonimo romanzo. Nello stesso anno, Burroughs compare con un brano (The Five Steps) realizzato con sovraincisioni e delay nell’antologia Myths. Instructions 1 (1984) in compagnia di sperimentatori sonori come i Camberwell Now, Mark Stewart + Maffia e il duo Martyn Bates/Peter Becker degli Eyeless in Gaza.
Si infatua di lui un altro esponente della industrial music: Genesis P-Orridge, ovvero la metà più esoterica dei Throbbing Gristle che in seguito darà vita ai ben più occultisti Psychic TV e soprattutto sperimenterà sul proprio corpo quelle tecniche di cut-up impiegate da Burroughs, letteralmente incollando parti reciprocamente con la compagna Lady Jaye, ovvero Jacqueline Mary Breyer, con degli interventi chirurgici per divenire un essere pandrogino. Un’altra grande estimatrice di Burroughs è Laurie Anderson, che dapprima partecipò con Giorno a realizzare un album a sei mani, You’re The Guy I Want To Share My Money With (1981), poi chiamò Burroughs a prestare la sua voce nel brano Sharkeey’s Night nell’album Mister Heartbreak (1984) e ancora nel video dello spettacolo Home of the Brave (1986) balla brevemente con lui mentre intorno a loro musicisti alieni suonano facendo sfigurare quelli del bar di Star Wars, mentre risuona il ritornello che recita: “Language is a Virus”, uno dei mantra preferiti da Burroughs. I tributi, gli omaggi e le collaborazioni si diffondono come un virus: intrattiene una relazione artistica con Kurt Cobain che solo la morte di quest’ultimo interrompe.
I Sonic Youth si recano come in pellegrinaggio a fargli visita nel suo ultimo ritiro a Lawrence in Kansas, un altro musicista radicale, John Oswald, sperimenta qualcosa di analogo ai sui montaggi di testi, una prassi sonora che chiama plunderphonic, grossomodo saccheggiofonia. I Ministry ritagliano e cuciono filmati e voce di Burroughs per il brano Just One Fix (1992). Robert Wilson e Tom Waits lo coinvolgono per lo spettacolo The Black Rider (1993, Burroughs ne parla diffusamente in Interviste). Il pezzo forte della sua discografia data 1990 quando incastona le sue letture nelle partiture di una serie d’artisti che lo accompagnano nell’album Dead City Radio, tra cui i Sonic Youth John Cale e Donald Fagen. L’anno dopo la sua scomparsa, nel 1998, i Material di Bill Laswell gli dedicano l’album The Road To The Western Lands cointestandolo anche a lui. In un misto di generi davvero bizzarro, un po’ reggae un po’ ambient, gli svizzeri Dub Spencer & Trance Hill lo campionano in lungo e in largo per l’album William Burroughs In Dub e siamo al 2014, perché gli omaggi non si sono mai interrotti.
Resta un’ultima considerazione da fare: forse anche tutte le interviste a Burroughs sono un’unica grande intervista reiterata. Non amava le interviste, ricorda il curatore, Lotringer, eppure ne concesse una moltitudine. Forse per tentare di fallire meglio, per dirla come uno dei pochi scrittori che dichiarò apertamente di stimare, Samuel Beckett. Sarà per questo che dichiarò:
“Alla fine delle interviste sono sempre molto insoddisfatto. In qualche modo, ho sempre la sensazione che qualcosa che si sarebbe dovuto dire non sia stato detto. In seguito, mi vengono in mente cose che avrei dovuto dire. In effetti, quando rispondo alle domande, sono così tante quelle a cui non è possibile rispondere”
(Tracce Mnemoniche, New York, 1974).
- AA.VV., Myths. Instructions 1, Sub Rosa, 1984.
- Laurie Anderson, Mister Heartbreak, Warner Bros., 1999.
- William Burroughs, Dead City Radio, Island, 1990.
- Dub Spencer & Trance Hill, William Burroughs In Dub, Echo Beach, 2014.
- Material, The Road to the Western Lands, Triloka Records, 1999.
- Ministry, Just One Fix, Sire, 1992.
- Gérard-Georges Lemaire, William Burroughs: una biografia, SugarCo, Milano, 1983.
- Barry Miles, Paul McCartney. Many Years from Now, Rizzoli, Milano, 1997.
- Barry Miles, Io sono Burroughs, il Saggiatore, Milano, 2017.
- Laurie Anderson, Home of the Brave, Wmv, 1991 (home video).
- David Cronenberg, Il pasto nudo, Eagle Pictures, 2011 (home video).
- Duran Duran, Wild Boys, Filming & Productions, 1984.