Westworld
Ideatori: Jonathan Nolan,Lisa Joy
Episodi: 10 (prima stagione)
Rete: HBO, USA, 2016
L’intelligenza è virtualmente inconoscibile: ciò di cui possiamo fare esperienza sono atti, attraverso cui l’esplicarsi dell’intelligenza influisce sulla realtà esterna al soggetto e può essere campionato, in una dimensione intersoggettiva. Come nel test di Turing, ciò che conosciamo sono gli effetti di un altro, la cui realtà (il cui noumeno) resta per noi nascosto dietro un paravento. È dunque possibile, con questi presupposti, determinare se la natura di questo altro sia umana o artificiale? Ovviamente no.
Ma soprattutto, per citare lo scambio di battute tra un umano e un host – avanzato animatrone al servizio dei visitatori all’interno del parco a tema di Westworld (secondo episodio della prima stagione): quando William, l’uomo, chiede “Are you real?” (sei reale?) la risposta è “If you can’t tell, does it matter?”: se non riesci a distinguere la differenza, la risposta non ha importanza.
L’attribuzione di umanità a un’entità dotata di intelligenza diviene un esercizio privo di fondamento teorico. D’altronde molta fantascienza, sulla pagina scritta come sul piccolo e grande schermo, si è divertita a mostrare come nel momento in cui l’identità di un essere creato imita perfettamente quella umana, nel momento in cui la differenza tra umano e artificiale diventa letteralmente impercettibile, la domanda stessa sulla sua natura cessa di avere senso. Ad essere chiamata in causa è piuttosto la fondazione antropocentrica del nostro criterio morale, si prenda come termine di confronto un’identità intesa come insieme di facoltà e caratteri smaterializzati, dai “risvegli” di coscienze nate in universi finzionali, come Solo in Nirvana (Salvatores 1997), piuttosto che emerse dalla matassa di informazione del web, come il Webmind della trilogia del risveglio di Robert J. Sawyer (2009-2011), o dalla complessità di un sistema operativo come la Her del film omonimo (Jonz, 2013). O si tratti al contrario di ricreazione del corpo nella sua precipua fisicità, come quella reificata e sensuale dei droidi di Ex_machina (Garland, 2014), o, ancora, si tratti di creature che dell’uomo assommano entrambi gli aspetti, offrendone un duplicato tragicamente convincente, come gli androidi di Philip K. Dick portati sul grande schermo da Ridley Scott (Blade Runner, 1982) e Denis Villeneuve (Blade Runner 2049, 2017), o quelli di Michael Crichton (Westworld, 1973) rivisitati ora sul piccolo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy per la HBO (2016-).
Genealogia dell’uomo duplicato
La ricerca delle origini dell’essere umano creato potrebbe d’altronde risalire ben più in là nel tempo e nell’immaginario, fino alla perturbante Olympia hoffmaniana, e apparentare al robota e al droide altri rami di un ampio albero genealogico, da quello fantastico-alchemico dell’omuncolo e del golem, a quello scientifico-tecnologico dell’uomo clonato: i molti corpi di un antico rispecchiamento di sé, attraverso cui sono passate tormentate riflessioni sulla natura umana, su quella del genere (sessuale), sullo statuto ontologico del soggetto che osserva la realtà.
Perché, nel momento in cui il duplicato si scopre surrealmente identico all’originale, l’artificialità diventa una mera attribuzione del soggetto osservatore, funzionale a una riduzione dell’altro a oggetto, una “alterizzazione”, a sua volta finalizzata a legittimare il dominio del soggetto che, osservando, gerarchizza il mondo.
In questo animatroni e droidi hanno ricevuto un trattamento non diverso da quello che nei secoli passati è stato riservato a esseri umani classificati come differenti in senso etnico e razziale, esposti nelle grandi fiere internazionali come curiose testimonianze di tappe antiche del processo evolutivo, che si voleva parallelo e asincrono nel globo, culminante nell’uomo occidentale (maschio, bianco), secondo una gerarchia con cui le scienze antropologiche contribuivano a costruire l’ordinamento imperialista del mondo (Abbattista 2013).
Da questa direttrice concettuale discende la possibilità di attribuire un carattere di artificialità all’uomo stesso, sperimentata da uno degli autori di fantascienza più meritevoli di attenzione degli ultimi anni, Joss Whedon, in Dollhouse (2009), secondo un provocatorio ribaltamento di significato del gibsoniano “meat puppet” (pupazzo di carne).
Westworld rappresenta l’ultimo discendente di queste stirpi: creato per il blasonato network via cavo HBO, sulla scorta di un crescente interesse per i generi del fantastico declinati in senso adulto (si pensi a True Blood, 2008-2014, e Game of Thrones, 2011-), riporta in scena il mondo, già immaginato da Crichton, in cui in un futuro non troppo lontano in un parco a tema vecchio west dei cyborg particolarmente avanzati forniscono ai visitatori una materia prima consumabile, su cui è possibile sfogare a piacere fantasie di violenza e sesso (una strada tentata poco tempo prima anche dal dimenticabile Vice, diretto per il grande schermo da Brian A. Miller nel 2015). Non differentemente da quanto già oggi accade nei mondi virtuali più o meno immersivi di videogiochi e giochi di ruolo, il carattere di artificialità attribuito alle entità umanoidi che popolano il parco di Westworld rappresenta un salvacondotto morale per i visitatori, che possono scegliere di esplorare questo mondo finzionale e inserirsi nei filoni narrativi programmati dai creatori in maniera romantica, curiosa e innocua, o con il ruolo di criminali, assassini e stupratori. La scelta di un’ambientazione western (il cui creatore, interpretato da Anthony Hopkins, prende il cognome Ford in indubbio omaggio al regista John) strizza l’occhio al mito di un’epoca originaria vissuta nei suoi aspetti anarchici e liberatori, già declinato in fantascienza attraverso la trasposizione futuristica della colonizzazione di frontiera, quando non attraverso un’esplicita commistione con il repertorio del genere western (si pensi al compianto Firefly creato da Whedon nel 2002). E certo l’iscrizione di una rivolta di čapekiani robots in un universo western ha qualcosa da significare come rappresentazione di un’identità statunitense che non cessa di elaborare un’epoca densa di traumi e peccati originari, dai massacri intestini della Civil War ai genocidi dei nativi, all’inestinto problema della schiavitù e di una color line razziale che divide la società.
La serie si smarca dalle conseguenze più prevedibili dei suoi presupposti di genere, per proporre una riflessione, se non particolarmente originale, senz’altro interessante sull’intelligenza artificiale e sul concetto di essere umano creato.
Esibizioni di umanità
Le matrici culturali del parco a tema e dell’umano artificiale creato a scopo di intrattenimento affondano storicamente nelle grandi esposizioni universali tardo-ottocentesche e novecentesche, laboratori dei meccanismi espositivi moderni, della reificazione dell’alterità, e della fantascientificità stessa intesa in senso di mentalità (Landon 2009).
Con la Torre Eiffel, il padiglione dell’elettricità di Edison, e la Hall of Machines dell’Esposizione Universale di Parigi nel 1889, la tematizzazione del futuro è divenuta una delle caratteristiche centrali delle esposizioni internazionali, è poi durante il secolo americano, attraverso Chicago 1893, Buffalo 1901, Chicago 1933, Seattle 1962 che si è consolidata la centralità delle proiezioni futuristiche e dell’utopismo tecno-scientifico nelle World Fairs.
Non è un caso che nella stessa Parigi 1889 sia comparsa per la prima volta anche una sezione dell’expo dedicata all’intrattenimento e al divertimento, allargatasi e consolidatasi nelle fiere successive. Protagonisti ne erano la Rue du Caire, e uno dei primi circuiti di montagne russe, preceduto di pochi anni da quella progettato da LaMarcus Adna Thompson a Coney Island nel 1884. Da una parte l’etno-esposizione di umani differenti, dall’altra la rappresentazione di una tecno-scienza sinonimo stupefacente di progresso tecnologico: due fenomeni a ben vedere frutto della medesima matrice ideologica. Il controllo che tramite il paradigma scientifico si può esercitare sulla realtà pone lo spettatore (spettatore, al maschile in senso letterale) “occidentale” in posizione apicale all’interno di una costruzione narrativa dello spazio-tempo (dell’evoluzione della specie e delle nuove dinamiche di globalizzazione imperiale). Sintomatico di questa comune matrice anche il fatto che il Crystal Gazing Palace alla World Fair di New York nel 1939, un vero e proprio Sexorama con ballerine in topless moltiplicate da specchi, viene realizzato da quel Norman Bel Geddes che si preferisce di solito ricordare come inventore del General Motors Futurama, spettacolo in cui i visitatori potevano ammirare una fantastica città del futuro trasportati su sedili installati su un binario meccanico.
Senza addentrarsi oltre nelle innumerevoli sfaccettature, negli aspetti di contraddittorietà, e nei precedenti di epoca moderna dei complessi dispositivi culturali che sono le grandi fiere mondiali, si può notare che l’evoluzione di lungo periodo del meccanismo espositivo applicato all’essere umano contiene già in nuce il ribaltamento di ruoli che in Westworld porterà il replicante da attrazione ad agente e protagonista: la possibilità che l’osservatore diventi osservato, che lo sguardo di coloro che sono esibiti crei una circolarità comunicativa ed ermeneutica.
Bachtiniani parchi a tema
I percorsi meccanizzati sperimentati negli intrattenimenti delle esposizioni internazionali a partire da Parigi 1889, introducono una nuova dimensione cinematica, con conseguenze cruciali sia a livello di messa in scena sia a livello di esperienza fruitiva. A Trip to the Moon, progettato da Frederick Thompson per la Pan-American Exhibition di Buffalo 1901, introduce ad esempio innovazioni tecniche di rilievo (è il primo dark ride alimentato a elettricità) per ottenere una mise-en-scène di inedita potenza: una serie di tele dipinte in movimento creano l’effetto di nuvole che gli spettatori si lasciano alle spalle, assieme alla Terra tutta, nel loro viaggio sulla luna, che, con effetti di luce e suono, e più di duecento attori coinvolti, realizza precocemente un’esperienza immersiva in quello straniamento spettacolare che costituirà la cifra di tanta fantascienza cinematografica (e quindi televisiva) fino ad oggi.
I parchi d’intrattenimento e parchi a tema che compaiono nei decenni successivi in forme sempre più stabili raccolgono l’eredità delle grandi esposizioni e vanno a costituire peculiari cornici in cui le norme della vita quotidiana possono essere “istituzionalmente” (bachtinianamente) violate, inclusa una concezione meramente utilitaristica della tecnica. Nel parco divertimenti la tecnologia diventa fonte di spettacolo e stupore, di una temporanea e volontaria sospensione dell’incredulità. Gettando le basi dell’esperienza fantascientifica che nei decenni successivi porterà al costituirsi della fantascienza come genere riconoscibile, circolarmente influente sulle seguenti manifestazioni.
Si pensi, oltre ai Futurama della General Motors (1939-40 e 1964), all’attrazione Tomorrowland di Disney (la prima versione inaugurata a Disneyland nel 1955) in cui sensazione di movimento, immersione, forte logica narrativa si combinano producendo appunto una sensazione di iper-cinesi, sviluppando una retorica visiva del retrofuturismo declinata come un film in cui si possa entrare, e abbinata a narrazioni sempre più strutturate offerte all’esperienza di fruizione (Bukatman 1991).
Sei un pessimo essere umano. Prendilo come un complimento
Gli audio-animatroni si sviluppano in un analogo milieu della cultura di massa che, tra fine Ottocento e Novecento, vede la nascita di nuovi luoghi e meccanismi dell’intrattenimento e dell’esposizione, come i dime museums negli Stati Uniti, dove per pochi soldi gli spettatori possono ammirare diorami, statue di cera, esseri umani difformi, curiosità pseudoscientifiche, come i freak shows, i circhi e i side shows. In questi contesti si precisano modalità di fruizione che nel falso, nella bufala, nella messa in scena, hanno una delle loro cifre distintive (Landon 2009), e in questi luoghi, come nei luoghi virtuali che oggi si possono visitare (da Second Life a The Game of Life, ai videogiochi con mondi liberamente esplorabili) la volontaria sospensione di incredulità degli spettatori resta caratteristica.
L’intelligenza artificiale in Westworld giunge come elemento filosoficamente dirompente in questo scenario, per introdurre il dilemma morale sullo statuto di diritto dell’essere artificiale, a cui già accennavamo. Simili interrogativi non possono che trascinarne con sé di corrispondenti sulla definizione stessa di essere umano e di identità, e non possono che approdare a una messa in crisi del paradigma antropocentrico, che costituisce oggi un punto di incontro tra riflessione sull’IA, sull’animale, e sul rapporto tra uomo ed ecosistema. É questo post-antropocentrismo il risvolto più interessante di un dibattito sul postumano che in altri aspetti sembra contribuire alla nostra comprensione della relazione tra soggettività, tecnologia e realtà, in modo più modaiolo che sostanziale.
Gli sviluppatori di Westworld hanno scelto di operare saldamente all’interno del genere, riusando elementi consolidati del repertorio fantascientifico: il ruolo del ricordo nella costruzione dell’identità individuale (e dunque la memoria posta alla radice di ciò che fonda l’uomo); una ricerca, una quest la cui ultima tappa si rivela essere lo spazio interiore, il labirinto della coscienza; un’imitazione dell’essere umano così somigliante da poter sin troppo facilmente consentire scambi di ruolo (forse con l’intenzione di suggerire provocatoriamente che, in ultima analisi, l’uomo stesso sia o potrebbe essere una forma di intelligenza artificiale). Nei dolorosi percorsi di emancipazione degli hosts di Westworld si possono scorgere i grandi interrogativi sull’origine e sul senso della propria esistenza che gravano sull’uomo e sulla donna stessi, all’inseguimento di un creatore dalla volontà crudele o imperscrutabile, artefice dell’esistenza ma anche del dolore, dell’intelligenza ma anche dell’inegualità, dell’autocoscienza ma anche dello sfruttamento. Problematico resta l’esito di queste rivendicazioni, che sembrano, al termine della prima stagione, anch’esse seguire gli input caratteriali e narrativi programmati da Robert Ford, lo scienziato-demiurgo, creatore degli hosts e delle trame che animano il parco. Cosa d’altronde potrebbe esprimere maggiore demiurgica onnipotenza che l’architettare la propria (lincolniana) morte, come Ford fa, per mano della sua creazione Dolores Abernathy (Evan Rachel Wood)?
Come nel decimo e ultimo episodio della prima (e per ora ancora unica) stagione il personaggio di Maeve (Thandie Newton), host condannato a un’esistenza da prostituta, in fuga dal parco, dice al tecnico Felix: “You really do make a terrible human being. And I mean that as a compliment”, “Sei davvero un pessimo essere umano. Prendilo come un complimento”.
–– Guido Abbattista, Umanità in mostra. Esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880- 1940), EUT, Trieste, 2013.
–– Scott Bukatman, There’s Always Tomorrowland: Disney and the Hypercinematic Experience, The MIT Press, 57 (Summer 1991): 55-78.
–– Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2015.
–– William Gibson, Neuromante, Mondadori, Milano, 2017.
–– Brooks Landon, SF Tourism, in The Routledge Companion to Science Fiction, eds. Mark Bould et al., Routledge, London-New York, 2009, 32-41.
–– Robert J. Sawyer, Wake (2009), Watch (2010), Wonder (2011), Ace, New York.
–– Michael Crichton, Westworld, Warner Home Video, 2013 (home video).
–– Alex Garland, Ex_machina, Universal, 2015 (home video).
–– Spike Jonze, Her, USA, Warner Bros, 2013.
–– Jonathan Nolan e Lisa Joy, Westworld, USA, HBO, 2016-.
–– Gabriele Salvatores, Nirvana, CG, Entertainment, 2013 (home video).
–– Ridley Scott, Blade Runner, Warner Bros Entertainment, 2011 (home video).
–– Denis Villeneuve, Blade Runner 2049, USA, Warner Bros, 2017.
–– Joss Whedon, Firefly, USA, Fox, 2002.
–– Joss Whedon, Dollhouse, USA, Fox, 2009.